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Coscienza religiosa e coscienza alienata

Capitolo Quarto Religione e simbolismo

1. Coscienza religiosa e coscienza alienata

Naturalmente, per de Martino, non si possono liquidare due questioni importanti del marxismo: la coscienza religiosa come coscienza alienata di un mondo capovolto nel quale l’uomo perde se stesso, ovverosia la radice della coscienza religiosa che è nella società non fatta per l’uomo. Seguiamo il ragionamento fino in fondo:

«Nella misura in cui l’individuo si astrae dalla società – e questa astrazione è inevitabile nella misura in cui la società non è fatta per l’uomo – l’individuo si sente a vario titolo “miserabile”, “limitato”, “destinato alla fine”, “esposto a momenti critici in cui non c’è nulla da fare”. Lo stesso “andar oltre” la situazione è colpito alle radici, e diventa il rischio di diventar altro, perdendosi come centro attivo di decisione e di scelta secondo valori operativi comunitari. Questo perdersi radicale costituisce il rischio radicale di alienazione, l’annientamento totale dell’umano e contro tale rischio la alienazione religiosa costituisce un piano istituzionale di arresto, di configurazione e di ripresa dell’alienarsi in quanto mera crisi. In tal guisa la “trascendenza” religiosa costituisce un piano di difesa culturale dalla crisi del trascendimento della situazione nella valorizzazione intersoggettiva: l’altro radicalmente altro in cui si rischia di smarrirsi muta di segno diventando l’altro mitico aperto alla riappropriazione rituale, richiamato variamente a cospirare con l’umano, e ridischiudendo infine il processo di valorizzazione minacciato dalla crisi.»348

De Martino tende sempre a ribadire le proprie convinzioni. Lo fa

347

Ibidem.

348

anche in questo caso, esplicitando il fatto che vi è nel marxismo il rischio «della mera critica irreligiosa, e dell’esito scettico che ne deriva»349. L’analisi di Marx è diretta ai tratti ierogonici da sopprimere e non, ad esempio, sulla funzione reintegratrice positiva dell’orizzonte metastorico nelle società ierogoniche, come il simbolismo mitico-rituale. In questo senso una possibile ricostruzione storiografica della «c o e r e n z a e della r a z i o n a l i t à» della vita religiosa, contestualizzata storicamente, rischia di essere espulsa da qualsiasi prospettiva di ricerca scientifica: religione, allora, è negativo, qui ed ora e in qualsiasi società e civiltà, epoca e storia, ridotta a stupidità e gratuita immaginazione, fantasia. Seguiamo Marx nelle pagine finali della Questione ebraica: «L’alienazione è la pratica dell’espropriazione. [...] l’uomo, fino a che è impigliato nella religione, sa oggettivare il proprio essere soltanto facendone un

estraneo essere fantastico»350.

Secondo de Martino non vi è confronto con una storiografia religiosa autonoma: le idee religiose non sono messe in rapporto con la concreta esistenza sociale, vi è il disinteresse per la funzione storicamente circoscritta di tali idee. Le analisi del giudaismo e del cristianesimo sono piuttosto ridotte alle analisi del cristiano e dell’ebreo non in quanto appartenenti ad un orizzonte religioso. E la cornice della realtà economico-sociale risulta essere quella, qui ed ora, presente; non vi è ricostruzione storica. Per questo Marx può affermare quanto segue:

«Il cristiano egoismo della beatitudine nella sua pratica compiuta si

349

FM, br. 252 pp. 452-3.

350

capovolge necessariamente nell’egoismo fisico dell’ebreo, il bisogno celeste in quello terreno, il soggettivismo dell’egoismo. Noi spieghiamo la tenacia dell’ebreo non con la sua religione, ma piuttosto col fondamento umano della sua religione, il bisogno pratico, l’egoismo.

Poiché l’essenza reale dell’ebreo nella società civile si è universalmente realizzata, mondanizzata, la società civile non poteva convincere l’ebreo della irrealtà della sua essenza religiosa, che è appunto soltanto la concezione ideale del bisogno pratico. Non quindi nel Pentateuco o nel Talmud, ma nella società odierna noi troviamo l’essenza dell’ebreo odierno, non come essere astratto ma come essere supremamente empirico, non soltanto come limitatezza dell’ebreo, ma come limitatezza giudaica della società.»351

De Martino, a ragione, può affermare che il rischio concreto è un corto circuito nel giudizio storiografico, proprio perché non si compie un percorso storico riferito alla religione nel suo cammino verso il riconoscimento dell’uomo; cammino allungato, cammino alienato, ma pur sempre esistente. L’individuazione, dunque, della perdita di funzione da parte della religione entro la società borghese in crisi – e nella società socialista che ne è l’erede – rischia di favorire la proiezione di questa determinata valutazione anche sul passato, anche per epoche storiche in cui, al contrario, «la vita religiosa fece effettivamente da p o n t e fra la crisi esistenziale senza orizzonte, culturalmente sterile, e la reintegrazione operativa nel mondo degli uomini, per il mondo degli uomini»352.

Nella critica all’Ideologia tedesca353 sotto accusa sono precise affermazioni di Marx ed Engels che confermano i rischi demartiniani

351 Ibidem. 352 FM, br. 252 p. 453. 353

sopra esposti:

«Il progresso consisteva nel sussumere sotto la sfera delle rappresentazioni religiose o teologiche anche le rappresentazioni metafisiche, politiche, giuridiche, morali ecc. che si presumevano dominanti; nel proclamare così che la coscienza giuridica, politica, morale è coscienza religiosa o teologica, e che l’uomo politico, giuridico, morale, cioè “l’uomo ”, in ultima istanza, è religioso. Fu presupposto il predominio della religione.»354

Marx, più avanti, secondo la sua concezione della storia, rovescia questa prospettiva:

«Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.»355

La concezione marxiana, dunque, mostra che la storia

«[...] non finisce col risolversi nella “autocoscienza” come “spirito dello spirito”, ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno

tedesca, Editori Riuniti, Roma 1958.

354

sviluppo determinato, uno speciale carattere [...].»356

«Questa somma di forze produttive, di capitali e di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni generazione trova come qualche cosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come “sostanza” ed “essenza dell’uomo”, di ciò che essi hanno divinizzato e combattuto, una base reale che non è minimamente disturbata, nei suoi effetti e nei suoi influssi sulla evoluzione degli uomini, dal fatto che questi filosofi, in quanto “autocoscienza” e “unico”, si ribellano ad essa. [...]»357

«Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale della storia oppure l’ha considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne resta fuori; la produzione reale della vita appare come qualche cosa di preistorico, mentre ciò che è storico, inteso come qualche cosa che è separato dalla vita comune, appare come extra e sovramondano. Il rapporto dell’uomo con la natura è quindi escluso dalla storia. Questa concezione quindi ha visto nella storia soltanto azioni di capi, di Stati e lotte religiose e in genere teoriche, e in ogni epoca, in particolare, ha dovuto condividere

l’illusione dell’epoca stessa. Se un’epoca, per esempio, immagina di essere

determinata da motivi puramente “politici” o “religiosi”, benché “religione” e “politica” siano soltanto forme dei suoi motivi reali, il suo storico accetta questa opinione.»358

Raccogliere questi passi significa mettere a fuoco, facendo parlare i testi, «il grande motivo di vero» e «i limiti» della filosofia marxiana. de Martino condivide la critica alla storiografia propria dell’ideologia

355 Ivi, p. 13. 356 Ivi, p. 30. 357 Ibidem. 358 Ivi, p. 31.

tedesca, ma non può non riscontrare un atteggiamento liquidatorio, da parte di Marx, per quanto concerne la religione. Insomma «il Regno di Dio» non può essere liquidato come «stravaganza» o «bizzarria», «castello in aria»359. Bene la base reale, la produzione materiale della vita, argomenta de Martino, ma la creazione di questa distanza fra il

reale e il simbolico non dissolve soltanto una possibile storiografia

religiosa – tutta ancora da scrivere – bensì qualsiasi minimo tentativo di mettere nero su bianco un’ipotetica comprensione storica della vita religiosa degli uomini e delle donne reali, in carne ed ossa. Lo storico potrebbe, può, attraverso il legame con la base reale, spiegare questa cosiddetta «stravaganza»: questo è anche il compito che si è dato de Martino, fermo restando che, in Marx, in ultima istanza, la stoltezza religiosa resta stoltezza, «un Umweg, un détour, una perdita di tempo, un fattore di ritardo, un elemento negativo, un vuoto e una improprietà»360.