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Il 2 aprile 1975 Primo Levi fu eletto presidente del Consiglio d’Istituto del Li-

Nel documento Un testimone e la verità (pagine 189-192)

Un testimone e la verità di Fabio Levi e Domenico Scarpa

24 Il 2 aprile 1975 Primo Levi fu eletto presidente del Consiglio d’Istituto del Li-

ceo D’Azeglio, allora frequentato da suo figlio Renzo, raccogliendo 16 preferenze su 19 votanti. Era la prima riunione del Consiglio, istituito grazie ai cosiddetti «decreti delegati»: un insieme di sei leggi, promulgate tra il 1973 e il 1974, che istituivano tra l’altro nuovi organi collegiali per la partecipazione democratica alla gestione delle scuo- le. Al D’Azeglio votò oltre l’80% degli aventi diritto (genitori, studenti, insegnanti, personale non docente). Levi si presentava per una «lista unitaria» che ottenne 758 voti, pari al 41,74%. Mantenne la carica per due anni scolastici; il suo mandato termi- nò il 30 settembre 1976. Presso l’Archivio del D’Azeglio abbiamo potuto consultare i Verbali del Consiglio d’Istituto, registri GLMDA 16 e GLMDA 19.

un testimone e la verità 183 di stabilire una qualche distanza anche solo di tempo, il testo prosegue cosí:

Molti sistemi sociali si propongono di raffrenare questa spinta verso l’iniquità e il sopruso; altri invece la lodano, la legalizzano e la additano come ultimo fine politico. Questi sistemi si possono, senza alcuna forza- tura di termini, designare come fascisti: conosciamo altre definizioni del fascismo, ma ci sembra piú preciso, e piú conforme alla nostra esperienza specifica, definire fascisti tutti e soli i regimi che negano, nella teoria o nel- la pratica, la fondamentale uguaglianza di diritti fra tutti gli esseri umani.

Levi era consapevole della propria autorevolezza, consolidatasi negli anni grazie ai molti libri pubblicati (diversi l’uno dall’al- tro, animati da una stessa energia morale) e a un comportamen- to coerente con l’immagine che la sua scrittura offriva di lui. E su quella autorevolezza puntava, ora che si sentiva impegnato a contrastare un pericolo giudicato incombente. Non riteneva suo compito proporre una puntuale ricostruzione storica, che pure nel suo articolo si profilava. A costo di semplificare, rite- neva piú utile mettere in risalto il valore fondativo dell’ugua- glianza, che gli sembrava ampiamente provato dal richiamo a vicende storiche vissute in prima persona. Di conseguenza, Le- vi riteneva necessario puntare sulla portata universalistica del- la lezione di Auschwitz – il fascismo, cosí come il Lager, era da considerarsi un’offesa rivolta contro tutti gli uomini –, non certo perché pensasse esservi in quel momento alcuna ragione per mettere in ombra la centralità degli ebrei nello sterminio, ma perché da sempre aveva manifestato una spiccata sensibi- lità in quella direzione; lo testimonia l’ultima parola del titolo

Se questo è un uomo.

Questi, dunque, i caratteri dell’editoriale scritto per «La Stampa» nel febbraio 1975, del cui impianto colpisce l’analogia con la struttura che sottende il testo da lui preparato due anni prima per il Museo-Monumento di Carpi, quando ancora la sua preoccupazione per il risorgente fascismo non aveva il rilievo che avrebbe assunto poco piú tardi. Al primo posto si situava anche lí la lezione morale che la vicenda dei Lager imponeva con crudele concretezza: «La dottrina da cui i campi sono sca-

184 fabio levi e domenico scarpa turiti è molto semplice, e perciò molto pericolosa: ogni straniero è un nemico, ed ogni nemico deve essere soppresso; ed è stra- niero chiunque venga sentito come diverso, per lingua, religio- ne, aspetto, costumi e idee». Seguiva una breve ricostruzione intesa a collocare la vicenda dei campi nel quadro piú generale degli sviluppi del nazismo e a indicare quali fossero stati volta per volta i bersagli privilegiati della violenza di Hitler, nonché i principali snodi della storia generale dei Lager. Eccone un pas- saggio essenziale:

Con l’occupazione della Polonia, la Germania entra in possesso (sono parole di Eichmann) delle «fonti biologiche dell’ebraismo»: due milioni e mezzo di ebrei, oltre a un numero imprecisato di civili, partigiani e militari catturati in «azioni speciali». È questo uno sterminato esercito di schia- vi e di vittime predestinate: lo scopo ultimo dei «Lager» si sdoppia. Essi non sono piú soltanto strumenti di repressione, ma ad un tempo sinistre macchine di sterminio e centri di lavoro forzato.

Ogni elemento acquisisce in questo quadro un significato, senza alcun cedimento sostanziale allo spirito dei tempi, benché nel caso di specie si trattasse di un testo – come già accennato – dotato di una palese funzione politica. Ad esempio, non aveva qui diritto di cittadinanza l’idea, ancora cosí diffusa in quegli anni nella cultura antifascista, che alla deportazione politica si dovesse riconoscere una posizione preminente, fin quasi a na- scondere quella degli ebrei. A parte qualche tenue cautela nel lessico e nella costruzione del discorso (il minimo per non urta- re la sensibilità dei suoi interlocutori-committenti), sulle que- stioni di fondo Levi non transigeva, come sempre aveva fatto dal Rapporto in avanti. D’altra parte gli era molto chiara, e non aveva mai esitato a rimarcarla, la differenza che aveva segnato in ogni momento la condizione degli ebrei, rendendola diversa da quella degli altri deportati, militari e politici. Lui stesso ave- va fatto parte «di quelli che – cosí avrebbe raccontato in un’al- tra occasione: 1966, La deportazione degli Ebrei – non potevano scegliere, vale a dire di tutti i cittadini ebrei italiani e stranieri. Questi non potevano fare nessuna scelta: erano donne, erano vecchi, erano persone tagliate fuori da anni ormai da qualsia-

un testimone e la verità 185 si contatto col mondo esterno; vivevano, fin dal 1939, in clan- destinità, e per essi una scelta era evidentemente impossibile. Dovrei dire quasi impossibile, perché malgrado tutto, malgrado le enormi difficoltà, malgrado l’assenza di un’organizzazione, una resistenza c’è stata».

Non meno interessante è che vi sia coerenza complessiva fra l’impostazione che abbiamo potuto rilevare nei testi appena analizzati del ’73 e del ’75 e l’impianto di un documento parti- colarmente impegnativo, scritto nel 1978. Si tratta della Bozza

di testo per l’interno del Block italiano ad Auschwitz, alla base

di un’operazione memoriale che fu oggetto di trattative ancor piú serrate fra i numerosi soggetti coinvolti. Senza riprenderne qui gli sviluppi, descritti in modo analitico nelle Notizie sui te-

sti, basterà rilevare alcuni elementi notevoli. Pur nella estrema

brevità del testo, il principio sapienziale che si voleva proporre al pubblico – un aforisma di Heine: «chi brucia libri finisce per bruciare uomini»25 – è fatto scaturire da una ricostruzione sto- rica concisa e letterariamente efficace, benché (o proprio per- ché) ridotta a poche battute. Le vicende dell’Italia negli anni 1920-1945, sulle quali verte il discorso, sfuggono a una visione localistica per assumere respiro europeo, là dove si sottolinea il duplice primato della Penisola sul fronte del fascismo e su quello dell’antifascismo. Ma quel che piú conta è che il quadro d’insieme cosí delineato arriva a comporre in una ricostruzione relativamente equilibrata il catalogo assai disparato delle vitti- me della deportazione, senza trascurare nessuno eppure senza togliere agli ebrei il ruolo preminente cui purtroppo la storia li aveva destinati.

Il clima dell’epoca e il difficile lavoro di limatura, eseguito a piú mani, si fanno indubbiamente sentire: ma non al punto di snaturare il pensiero dell’autore. Forse fu anche per questo che, alla fine, di uno scritto già cosí breve furono esposte nel Memoriale italiano di Auschwitz solo le ultime righe: ma al vi-

Nel documento Un testimone e la verità (pagine 189-192)