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Si tratta dei versi 243-44 della tragedia giovanile Almansor [1821]: «wo man

Nel documento Un testimone e la verità (pagine 192-197)

Un testimone e la verità di Fabio Levi e Domenico Scarpa

25 Si tratta dei versi 243-44 della tragedia giovanile Almansor [1821]: «wo man

186 fabio levi e domenico scarpa sitatore quella lapide rivolgeva un monito che, troncato il col- legamento con i paragrafi che lo precedevano, risultava privo di significato preciso.

Come raccontare la verità.

L’abbiamo citata piú volte quella lettera, ma senza mai ripor- tare per esteso la firma con cui la giovanissima mittente volle qualificarsi su «Specchio dei tempi», rubrica di vita piemon- tese della «Stampa». È il momento di colmare la lacuna. Ec- co quanto possiamo leggere in calce al suo scritto: «La figlia di un fascista che vorrebbe sapere la verità». Nella sua risposta, qualche giorno piú tardi, Primo Levi mostrò di essere rimasto colpito soprattutto dall’ultima parola, e volle commentare cosí: «Si ha fame di verità, nonostante tutto: dunque, la verità non si deve nascondere».

Non c’erano dubbi: il Lager era diventato prima di tutto una

questione di verità, che come tale andava trattata. Levi non esi-

tò a rispondere, a proposito della mostra sullo sterminio cui si riferiva la sua interlocutrice: «No, signorina, non c’è modo di dubitare della realtà di quelle immagini». E si affrettò a pre- sentare le prove concrete, utili a sostenere le sue certezze: pri- ma di tutto «quanto resta di quei tristi luoghi»; poi le decine di «testimoni oculari» presenti anche in una città come Torino – quanto suona riduttiva oggi una tale definizione, come se fos- sero solo gli occhi a parlare! E poi ancora, il «vuoto che hanno lasciato» le migliaia di coloro «che sono finiti confusi in quei mucchi d’ossa»: un’assenza-presenza insomma, non meno con- creta di tutto il resto. Fino a concludere che la mostra di Palaz- zo Carignano era lí a «dimostrare», come si fa per un teorema o per ogni questione complessa, il vero cuore del problema: nel caso specifico – e qui incontriamo un’altra delle innumerevoli facce del Lager – «quali riserve di ferocia giacciano in fondo all’animo umano, e quali pericoli minaccino, oggi come ieri, la nostra civiltà».

un testimone e la verità 187 Nella risposta del deportato-scrittore sembrava dunque scoc- care finalmente la scintilla del possibile incontro fra la «fa- me di verità» di tutti coloro che la ragazzina rappresentava e, sull’altra sponda, l’urgenza di chi era mosso dal dovere morale di raccontare non tanto e non solo la propria storia, ma quella storia. Rimaneva aperta un’altra questione non da poco: come raccontare quella storia?

Per rispondere, Levi non aveva certo atteso il 1959 – l’anno della mostra e della lettera. Come sappiamo ci aveva già bril- lantemente pensato piú di dieci anni prima; ma può essere utile attingere ancora una volta agli scritti pubblicati in questo libro per fare qualche ulteriore scoperta sul suo lavoro di ideazione e di scrittura.

Cominciamo da Deportazione e sterminio di ebrei. Siamo nel 1961. Quell’anno Levi era stato invitato a Bologna, nell’ambi- to di un ciclo di lezioni sulla storia dell’antifascismo italiano, a portare, insieme con altri, la propria testimonianza. Era il 13 marzo quando intervenne al Teatro Comunale, dopo la confe- renza tenuta dall’oratore principale della serata: Enzo Enriques Agnoletti, che aveva parlato su Il nazismo e le leggi razziali in

Italia26. Trattandosi di una testimonianza sarebbe stato naturale aspettarsi un racconto di cose vissute; e l’interessato non delu- se certo le aspettative degli ascoltatori: «Quando furono pro- clamate le leggi razziali avevo diciannove anni. Ero iscritto al primo anno di chimica a Torino». Di qui in poi, tuttavia, Levi scelse un modo tutt’altro che banale di condurre il discorso (e va ricordato che i racconti autobiografici del Sistema periodico erano di là da venire).

In Deportazione e sterminio di ebrei Levi percorre il debito iti- nerario dall’emanazione delle leggi razziali fino alla liberazio- ne di Auschwitz, ma lo scandisce allargando e restringendo di momento in momento la visuale narrativa: con parole precise e scorciate, con un ritmo incalzante padroneggiato a perfezione. 26 La sera del 13 marzo 1961 portarono la loro testimonianza anche Giorgio Bassani

188 fabio levi e domenico scarpa Avverbi pochi, niente digressioni (l’unico inciso riguarda la dif- ficoltà di comunicazione linguistica cui «si deve l’elevatissima mortalità dei greci, dei francesi e degli italiani»), aggettivi ridotti al minimo: null’altro che informazioni, cifre, descrizioni, nomi, giudizi secchi incorporati spesso nei verbi di azione, nell’esat- tezza frugale dei sostantivi. Cenni essenziali sulla psicologia del Lager: delle vittime, degli aguzzini. Riflessioni radicate nel fatto concreto, per aiutare l’ascoltatore a situare le vicende personali del protagonista nei diversi contesti attraversati col tempo: per introdurre confronti, per rispondere a domande circostanzia- te. Ne risultò un testo sí di poche pagine – Se questo è un uomo in compendio, col prologo di alcuni racconti in nuce del futuro

Sistema periodico – ma dotato di una sua compiutezza capace

di trasmettere al pubblico di Bologna il panorama generale del Lager, e le impressioni e i giudizi su questioni di rilievo, e le sensazioni soggettive; e molto altro ancora. Dall’autore di Se

questo è un uomo c’era da aspettarsi una simile prova di comu-

nicazione. Ma quel che piú colpisce il lettore, anche il lettore che conosca a fondo l’opera di Levi, è l’arrivare all’ultima riga con la sensazione di aver letto qualcosa di nuovo.

Un’esperienza analoga, sia pure su scala piú ridotta, offre un altro breve testo, questa volta del ’66: il già citato La deporta-

zione degli Ebrei. Il titolo farebbe pensare a una ennesima ripe-

tizione, eppure non è cosí. Quanto alla trama, essa si regge an- cora una volta su una sequenza cronologica di eventi vissuti in prima persona, scelti però in numero ridottissimo, tre in tutto: l’8 settembre 1943, l’arresto che tronca sul nascere l’avventura partigiana, la detenzione in Monowitz. La narrazione scende al minimo perché il tema vero è un altro: la differenza fra le «con- dizioni di zero» dei deportati ebrei (cosí la sua sintesi fulminea) e quelle degli altri, i militari, i politici e cosí via.

L’ultimo esempio sarà forse il piú eloquente. Quel treno per

Auschwitz, scritto nel 1979, ripercorre in due pagine scarse lo

stesso itinerario di sempre, compreso fra le persecuzioni del ’38 e l’anno di prigionia. Ma è il contesto dell’articolo a conferirgli un’originalità particolare e a intridere di significati inconsueti

un testimone e la verità 189 alcuni passaggi. Il testo è rivolto a Rosanna Benzi, colpita dal- la poliomielite sin dall’infanzia e molto attiva nel mondo degli emarginati. Proprio il confronto implicito fra le esperienze del deportato e quelle connesse alla disabilità moltiplica (ad esem- pio) le implicazioni della sequenza altro-estraneo-nemico, qui riferita non piú al solo Lager, cosí da situare in una prospettiva diversa quell’«orgoglio minoritario» che Levi dice di aver pro- vato dopo l’emanazione delle leggi contro gli ebrei. Il momen- to piú interessante del dialogo a distanza Levi-Benzi va cercato però nelle conclusioni. Scrive l’autore: l’esperienza della depor- tazione «mi ha segnato, ma non mi ha tolto il desiderio di vive- re: anzi, me l’ha accresciuto, perché alla mia vita ha conferito uno scopo, quello di portare testimonianza, affinché nulla di simile avvenga mai piú. È questo lo scopo a cui tendono i miei libri». Parole che abbiamo già sentite, capaci qui di una riso- nanza nuova nell’alludere non piú solo a un dovere, ma a uno scopo e a una ragione di vita, misurati su un metro senza alcun precedente: quello dei confini imposti da un polmone d’acciaio.

Il tatto delle parole.

Sono molte le possibilità espressive offerte da un uso sapien- te del racconto in chiave autobiografica. Ma se le modulazioni sempre diverse operate su una medesima trama sono frutto di scelte attente, non può non esserlo anche il ricorso a quella tra- ma. L’esemplarità della voce di Levi rischia di farci dimentica- re che una tale scelta non era scontata. Nel suo caso, la predile- zione per il racconto in prima persona era senz’altro basata su buone ragioni, coerenti con il suo modo di guardare il mondo e di porsi in relazione con i suoi interlocutori. Vediamone alcu- ne: il riferimento diretto alla propria esperienza mette sicura- mente i lettori nella condizione di comprendere piú facilmente e di accogliere con fiducia realtà difficili da accettare per chiun- que; porre se stesso al centro di una rete di relazioni individuali lo ha aiutato a descrivere gli uomini uno per uno e a presenta-

190 fabio levi e domenico scarpa re non già idee astratte, ma i modi in cui esse si incarnano nei comportamenti dei singoli, e quali azioni producono; ridurre al minimo la distanza fra il Levi narratore e il Levi personaggio del racconto contribuisce ad accorciare le distanze anche con i lettori, per questo particolarmente disponibili a intrecciare con l’autore il fitto dialogo cui egli tanto teneva.

Cosa dire a questo punto del luogo comune cosí diffuso secondo cui la gran parte dei testi di Levi sul Lager sarebbero «racconti di memoria»? Che si tratta di una banalizzazione fuorviante. E il mettere in dubbio questa etichetta induce a porsi un’altra domanda: se, cioè, l’attribuire con eccessiva leggerezza al Levi narratore del Lager la qualifica di «testimone» non ci porti a sottovalutare le complesse questioni – da lui affrontate, vicever- sa, con risultati che non cessano di stupirci – legate a due per- corsi, che sono differenti e che vanno distinti con accuratezza. Il primo percorso punta alla conquista della verità, o quanto meno alla scoperta di frammenti di verità, che nel suo caso ri- guardano uno dei luoghi piú impenetrabili della storia. Il secon- do percorso deve fare in modo che tali verità trovino una forma accessibile per un pubblico spesso restio all’ascolto; e ci si può riuscire solo attraverso una cura tanto maggiore dell’espressione, della scrittura, paragonabile – direbbe Marc Bloch – alla finezza dal liutaio fondata sulla «sensibilità dell’orecchio e delle dita»27.

«Si negherà che vi sia un “tatto” delle parole, come ve n’è uno della mano?» si interroga lo storico francese nella stessa pagina della sua Apologia della storia, uno dei testi piú illumi- nanti su come si possano studiare e raccontare i fatti umani; e lo dice valendosi di un’associazione inattesa, che senz’altro Le- vi avrebbe potuto apprezzare. Cosí come era nelle corde dello scrittore torinese – lo abbiamo visto leggendo i testi di Cosí fu

Auschwitz e abbiamo provato a mostrarlo in queste pagine –,

il rigore critico con cui lo stesso Bloch voleva che, nel lavoro di ricerca che precede la scrittura, fosse vagliata ciascuna testi-

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