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Dall'arena al salotto: i media audiovisivi e la “necrocultura”

CAPITOLO 1 – PARADIGMI DI (IR)RAPPRESENTABILITÀ

1.2 Dall'arena al salotto: i media audiovisivi e la “necrocultura”

Robert "Budd" Dwyer (Saint Charles, 21 novembre 1939 – Harrisburg, 22 gennaio 1987) è stato un politico statunitense, noto per il fatto che, la mattina del 22 gennaio 1987, si suicidò sparandosi in bocca durante una conferenza stampa in diretta televisiva.

Wikipedia.it67 La voce italiana di Wikipedia dedicata a Robert Dwyer, a differenza di quella inglese, è tutt'altro che delicata nel riassumere il motivo per cui si ricorda il nome del tesoriere americano: accusato di corruzione, frode e associazione a delinquere, il 22 gennaio 1987 l'uomo ha convocato una conferenza stampa in cui ha proclamato la sua estraneità ai fatti e, dopo aver estratto una Magnum .357 e aver invitato ad uscire tutti coloro che sarebbero potuti rimanere turbati da ciò che stava per fare, si è suicidato davanti ai giornalisti presenti.

Sarebbero passati oltre vent'anni prima che un giovane regista indipendente di Buffalo, James Dirschberger – che all'epoca dei fatti aveva tre anni – decidesse, dopo aver visto una clip del suicidio su YouTube, che la storia di Dwyer meritava di essere approfondita. Dirschberger ha espresso la sua opinione sulla vicenda nel documentario

Honest Man: The Life of R. Budd Dwyer (2010), supportando fin dal titolo la tesi che

sostiene l'innocenza dell'uomo e la sua estraneità alle accuse mossegli. Nel 1987, la messa in onda della sequenza nelle modalità più diverse (senza censura né avvertenze sul

66 Ibidem, p. 39.

67 http://it.wikipedia.org/wiki/Budd_Dwyer Ultimo accesso: 11 ottobre 2012.

contenuto disturbante; senza censura, ma con avviso che ne segnalava la crudezza; sotto forma di freeze frame con editing audio ecc...) aveva scatenato un'ampia polemica: mentre molte delle critiche erano dovute al fatto che la messa in onda del suicidio cadeva in un giorno in cui i bambini erano a casa da scuola, gli executives di stazioni televisive come WCAU, KDKA e KYW ne difendevano la trasmissione giustificandone il valore giornalistico. Come notano Kerekes e Slater, che ascrivono questo tipo di contenuti alla categoria “death footage”,

Later that same day, a series of photograph showing the event in sequence – the gun in Dwyer's hand, then in his mouth, and finally his head thrown back from the blast – was placed on an international transmission network preceded by a warning as to their disturbing quality. Less than 24 hours after his death, newspapers around the world gave everyone everywhere the opportunity to study Dwyer's last seconds of life. As with the television networks, the press employed their own standards of discretion in illustrating the story. All but the tabloids refrained from using the explicit photographs. “MAN SHOOTS HIMSELF ON TV” declared the front page of the Daily Mirror. A two-page, stage- by-stage photo-spread publicised the event, concluding on an optimum shot of Dwyer's head being shattered by the exiting bullet.68

Col tempo la sequenza ha però avuto una larga diffusione anche al di fuori del sistema delle news: il suicidio in diretta di Dwyer, a dispetto del fatto che oggi è facilmente raggiungibile dal link della stessa voce inglese di Wikipedia,69 che punta al sito

Liveleak.com, e nonostante diverse clip non censurate siano accessibili anche su YouTube,70 è stato inserito nel montaggio di shockumentaries come il direct-to-video

Traces of Death, assemblato nel 1993 a partire da stock footage e distribuito dalla Brain

Damage Films. Quello di Dwyer non è certo stato l'unico suicidio ripreso dalle telecamere: qualche anno prima, il 15 luglio 1974, la giornalista Christine Chubbuck si era tolta la vita in diretta nel corso della trasmissione di cui era conduttrice. Prima di puntarsi il revolver alla testa la donna aveva pronunciato il seguente annuncio, che per qualche istante ha fatto pensare ai colleghi che si trattasse di uno scherzo: “In keeping with Channel 40's policy of bringing you the latest in blood and guts, and in living color, you are going to see another first-attempted suicide.”71

68 Ibidem, p. 202.

69 http://en.wikipedia.org/wiki/R._Budd_Dwyer Ultimo accesso: 8 novembre 2012.

70 Ad esempio Budd Dwyer famous media incident http://www.youtube.com/watch?v=R66R3DXtbXE Ultimo accesso: 11 ottobre 2012.

71 http://en.wikipedia.org/wiki/Christine_Chubbuck Ultimo accesso: 11 ottobre 2012.

Al di là di questi noti esempi, nell'ambito del giornalismo o dei programmi della cosiddetta reality TV72 la copertura di una morte in diretta è un caso tutt'altro che raro

anche oggi. Il live coverage di eventi di forte impatto sociale o di rilevanza giornalistica non è certo un'esclusiva americana, anche se gli Stati Uniti hanno da tempo trovato sempre nuove formule per declinarlo, mescolando generi e linguaggi e dando vita ad una variegata programmazione in cui la TV verità si ibrida con il crime drama: una “tabloid TV”, ha notato Elayne Rapping, che spazia da programmi come America’s Most Wanted a COPS, animati da individui dipinti come alieni e scherzi della natura più che esseri umani, impegnati in tutte le possibili varianti delle aberrazioni criminali documentate nei formati e con i mezzi più vari.73

Gli U.S.A., dicevamo, non hanno il monopolio delle “tragedie in diretta”, pur avendone consacrato il successo di pubblico: in Italia, ad esempio, limitatamente all'ambito giornalistico, si ricorda ancora la diretta nazionale in occasione dell'incidente di Vermicino nel 1981, che ha portato all'annuncio della morte del piccolo Alfredino intrappolato in un pozzo artesiano. O, per venire a casi più recenti, la comunicazione in diretta della morte di Sarah Scazzi alla madre Concetta davanti alle telecamere di Chi l'ha visto? Se nel nostro paese, che ha una peculiare attrazione per la serializzazione delle notizie di cronaca nera, gli esempi non mancano nemmeno nell'ambito delle trasmissioni che esulano dai notiziari – si pensi ad esempio alla lunga programmazione di Real Tv, in onda su Italia 1 dal 1999 – è pur vero però che la vasta gamma di produzioni statunitensi sono in grado non solo di coprire ciò che succede in diretta, ma anche di riciclare immagini provenienti dalle fonti più disparate: dalle ubiquitarie telecamere a circuito chiuso alle riprese dei passanti che compongono quella sorta di genere-nel-genere che è il caught on camera (e non mi riferisco qui solo all'omonimo programma trasmesso da MSNBC). Format che vengono esportati e adattati all'estero, diffondendo e soddisfacendo al tempo stesso quell'attrazione per gli eventi che si vanno compiendo sotto gli occhi degli spettatori che, se da un lato trova giustificazione nel voler immergersi vicariamente nella visione di situazioni a rischio, dall'altro esprimono una fascinazione ambigua per la possibilità – tutt'altro che remota – che quello a cui stiamo assistendo si risolva per il peggio:

72 Cfr. Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, Reality TV. La televisione ai confini della realtà, Torino, RAI-ERI, 2002.

73 Cfr. Elayne Rapping, “Aliens, Nomads, Mad Dogs, and Road Warrior: Tabloid TV and the New Face of

Criminal Violence”, in Christopher Sharrett (edited by), Mythologies of Violence in Postmodern Media, Detroit, Wayne State University Press, 1999.

La necessità di essere sempre più capillarmente informati sui diversi momenti e modi della vita sociale e sulle dinamiche che attraversano un territorio di cui, altrimenti, non potremo avere più alcuna percezione, alimenta l’uso del mezzo televisivo, e in particolare della diretta, ma allo stesso tempo carica questo bisogno di una continua attesa di morte, come unico spettacolo davvero degno di essere contemplato, unica notizia davvero indiscutibile e gratificante. Unica certezza di esistere. Non basta più l’effetto di “vicinanza” della telenovela, come non bastano le “storie vere” della tv- verità: il regime ordinario dell’informazione porta assai raramente ad attingere l’attimo irripetibile in cui la tragedia della morte si esprime in tutta la sua originalità.74

Con molta probabilità la relazione che lega prodotti culturali, morte e violenza, anche rispetto allo spazio che occupano nel consumo mediale quotidiano, è tra i temi più dibattuti nell'ambito degli studi sui media.75 Chi cerca nessi causali tra forme di

intrattenimento e conseguenze sul comportamento (per non dire sulla psiche) degli spettatori, non è però ancora riuscito a produrre prove convincenti sugli effetti dell'intrattenimento violento. Di volta in volta, in concomitanza con il verificarsi di episodi cruenti che coinvolgono a qualche titolo l'industria culturale, si riaccende dunque un dibattito che viene presto riassorbito dai media senza aver prodotto risultati rilevanti di alcun tipo, se non quello di monopolizzare l'agenda pubblica per qualche giorno, fino a quando la notizia viene sostituita da un altro evento e dimenticata. Si veda, ad esempio, il recente caso legato a Il cavaliere oscuro il ritorno (The Dark Knight Rises, 2012), film che chiude la trilogia dei Batman diretti da Christopher Nolan, entrato di peso nelle headlines a seguito del massacro di Aurora, sobborgo di Denver teatro della sparatoria che ha causato la morte di 12 persone e il ferimento di altre 58 per mano del 24enne James Holmes. Come di consueto, le analisi hanno spaziato dalla dura accusa nei confronti del medium specifico – stavolta il cinema, ma, di recente, sempre più spesso i videogames – in questo caso fomentata da quella che, almeno all'inizio, sembrava una strage pianificata dal killer sotto le sembianze del personaggio Bane. Così, mentre online iniziavano a circolare i video ripresi dai telefonini di chi si trovava nelle sale adiacenti,76 testate come Hollywood

74Gianfranco Pecchinenda, Maria Petti, Adele Pisapia, “La morte in campo. Dislocazioni mortali nei palinsesti televisivi”, in Alberto Abruzzese, Antonio Cavicchia Scalamonti, La felicità eterna: la

rappresentazione della morte nella TV e nei media, Torino, RAI-ERI, p. 89.

75 La letteratura a proposito è vastissima. Per un primo approccio all'argomento ci limitiamo ad indicare alcuni titoli rilevanti: Julien Potel, Mort à voir, mort à vendre, Paris, Editions Desclée, 1970; Jeffrey H. Goldstein (edited by), Why We Watch: The Attractions of Violent Entertainment, New York/Oxford, Oxford University Press, 1998; Martin Baker, Julian Petley (edited by), Ill Effects: The Media Violence

Debate, London, Routledge, 2001; Cynthia Carter, C. Kay Weaver, Violence and the Media,

Buckingham/Philadelphia, Open University Press, 2003; David Gauntlett, Moving Experiences, Second

Edition: Media Effects and Beyond, London, John Libbey, 2005; James Kendrick, Hollywood Bloodshed: Violence in 1980s American Cinema, Carbondale, Southern Illinois University Press, 2009.

76 Si veda ad esempio la seguente clip: http://www.youtube.com/watch?v=T7sIiqq66rk Ultimo accesso: 28 ottobre 2012.

Reporter77 cercavano di dare un senso alla tragedia e alle conseguenze che avrebbe avuto

sulle prossime uscite cinematografiche (distribuzioni rinviate, scese rigirate, trailer rimontati...), esplorando superficialmente i nessi tra violenza e vita reale; Wired, mentre ci spiegava perché ci piacciono tanto i “supercattivi”,78 rendeva noto come l'omicida avesse

già un nutrito seguito di “fan” sui social networks;79 studiosi di media come Henry Jenkins

tentavano di analizzare l'evento prima che, memori della strage di Columbine, il moral

panic prendesse il sopravvento;80 e mentre si tornava a parlare della proliferazione di armi

negli U.S.A. e della facilità con cui si possono acquistare, anche Michael Moore, che al tema aveva dedicato un acclamato documentario (Bowling a Columbine, 2002), ribadiva il suo punto di vista critico.81

Eventi locali come la strage di Aurora assumono dunque rilevanza nazionale e internazionale a seconda del “peso” della notizia, delle specificità della tragedia, delle persone coinvolte e via di seguito, rispondendo a precisi canoni di selezione operati nelle

newsrooms. Ma c'è stato un tempo in cui, in passato, gli spettacoli di morte erano offerti

alla folla secondo precisi intenti politico-sociali, e quando quei grandi eventi hanno cessato di essere manifestazioni per le masse, con l'avvento dei mass media sono stati proprio i puntuali avvenimenti legati alla morte a diventare materiale processabile dalla nascente industria mediale.

I motivi legati alla gestione di queste pratiche antiche, che comprendevano i sacrifici umani, sono stati, nel corso del tempo, localmente e culturalmente diversi. René Girard ci ricorda che presso certe popolazioni le cause legate al sacrificio spesso non

77 THR Staff, “THR Cover: Reflections on 'The Dark Knight Rises' Tragedy”, The Hollywood Reporter, July 25, 2012.

http://www.hollywoodreporter.com/news/dark-knight-rises-shooting-aurora-james-holmes-353920 Ultimo accesso: 28 ottobre 2012.

78 Travis Langley, “Why Do Supervillains Fascinate Us? A Psychological Perspective”, Wired.com, July 27, 2012.

http://www.wired.com/underwire/2012/07/why-do-supervillains-fascinate-us/ Ultimo accesso: 28 ottobre 2012.

79 Anna Lisa Bonfranceschi, “Strage di Aurora, i sostenitori di James Holmes su Tumblr”, Wired.it, 1 agosto 2012.

http://daily.wired.it/news/internet/2012/08/01/holmies-tumblr-strage-aurora-194567.html Ultimo accesso: 28 ottobre 2012.

80 Henry Jenkins, “A Pedagogical Response to the Aurora Shootings: 10 Critical Questions about Fictional Representations of Violence”, Henryjenkins.org, July 22, 2012.

http://henryjenkins.org/2012/07/a_pedagogical_response_to_the.html Ultimo accesso: 28 ottobre 2012.

81 Michael Moore, “It's the Guns – But We All Know, I'ts Not Really the Guns”, Michaelmoore.com, July 24, 2012.

http://www.michaelmoore.com/words/mike-friends-blog/its-guns-we-all-know-its-not-really-guns Ultimo accesso: 28 ottobre 2012.

avevano nulla a che vedere con ragioni di colpevolezza o innocenza, né di espiazione: “La società cerca di sviare in direzione di una vittima relativamente indifferente, una vittima 'sacrificabile', una violenza che rischia di colpire i suoi stessi membri, coloro che intende proteggere a tutti i costi.”82 Il sacrificio diventava dunque una misura preventiva per

arginare la violenza, polarizzandola su una vittima neutra, che aveva come caratteristica quella di non essere suscettibile di vendetta da parte di familiari o del clan a cui apparteneva. Questa procedura si rendeva necessaria perché, prosegue Girard, lo spettacolo della violenza ha in sé elementi di contagio tali per cui anche un minimo atto violento può causare un'escalation di proporzioni catastrofiche. Morendo per la comunità, la vittima espiatoria, né troppo né troppo poco estranea a quello stesso gruppo, era invece in grado di rinsaldare il legame della comunità, facendone rinascere i membri attraverso un transfert favorito da un passaggio “metonimico”.83

La distanza culturale che ci separa da queste pratiche è evidentemente rilevante, ma va messa in prospettiva. In un recente saggio,84 Alessandro Dal Lago cerca di dar conto dei

criteri secondo cui la crudeltà di cui siamo testimoni dà luogo a reazioni di sdegno: secondo il sociologo questo sentimento dipende da un complesso set di circostanze, non da ultimi interessi materiali e l'indifferenza delle opinioni pubbliche occidentali, calato nella prospettiva dello sguardo come ottica culturale. Il lavoro di Dal Lago, che si inscrive in una fitta messe di studi sul rapporto tra spettacolarizzazione del dolore e risposta dell'osservatore, e che comprende, tra gli altri, i saggi di Susan Sontag e Luc Boltanski,85

parte dal presupposto che la crudeltà antica va innanzitutto vista in prospettiva, evitando di applicare categorie morali moderne a eventi così lontani nel tempo, perché “Non abbiamo il diritto di considerarci più umani, tolleranti o sensibili dei Romani o dei Greci (o di qualsiasi altra cultura, passata o presente), ma solo diversamente tali.”86 Le esecuzioni che

avevano luogo nelle arene d'epoca romana erano infatti frequenti per motivi politici e gli spettacoli di morte erano una manifestazione pubblica di una società le cui basi poggiavano sul principio di autorità incarnato dall'imperatore, che li offriva come dono alla plebe, accompagnandoli alla distribuzione di cibo. Un tratto che oggi sembra difficile da accettare

82 René Girard, La violenza ed il sacro, Milano, Adelphi, 1980, p. 17. 83 Ibidem, p. 353.

84 Alessandro Dal Lago, Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012.

85 Cfr. Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Milano, Mondadori, 2006; Luc Boltanski, Lo spettacolo

del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000.

era però la teatralità delle uccisioni, messe in scena come recite pianificate nei dettagli: la sofferenza delle vittime passava in secondo piano rispetto al significato politico e legale del loro sacrificio. E quando delle voci fuori dal coro si levavano, non erano indirizzate a condannare in toto la pratica della messa a morte di essere umani nelle arene, bensì alcuni aspetti di “bon ton”:

Per gli antichi, lo spettacolo della morte nei circhi era deprecabile non in sé, ma in quanto espressione della rilassatezza dei costumi del popolo e mancanza di civismo (per gli intellettuali pagani) o occasione di eccitazione malsana e idolatria (per i pensatori cristiani). Per il resto, l'uccisione in nome dello Stato, individuale o collettiva che fosse, era un aspetto corrente e quotidiano della vita sociale, così come lo sterminio degli altri popoli un dato di fatto indiscutibile, diremmo oggi, della politica internazionale. Per i moderni, lo spettacolo delle esecuzioni divenne, ad un certo punto, insostenibile, come ha mostrato Michel Foucault [...] Per il resto, la violenza bellica (con tutto il seguito di stragi ecc.) venne per così dire messa tra parentesi e attribuita (in fondo, non troppo diversamente dagli antichi) all'inevitabile necessità del conflitto tra Stati.87

Ciò che ci separa dagli antichi, secondo l'analisi dell'autore, ha a che fare con una diversa strategia di gestione della violenza e della sua spettacolarizzazione, più che con un processo di incivilimento:88 progressivamente la crudeltà è defluita verso i margini del

mondo occidentale, che col passare del tempo ha iniziato a non vederla più, illudendosi che essa fosse scomparsa perché il mondo era diventato più umano. Per Dal Lago, l'esecuzione di Damiens, che occupa l'introduzione del lavoro di Foucault Sorvegliare e punire,89 segna

il momento in cui lo sguardo inizia a distogliersi da questi spettacoli, considerandoli sconci. La crudeltà diventa meno teatrale nelle sue manifestazioni pubbliche e passa sotto il controllo di polizia e burocrazia. E, d'altro canto, quando essa si manifesta su larga scala, come nel caso delle guerre, viene di volta in volta modulata attraverso i media: basti pensare al carattere letterario della Grande Guerra paragonato alle infowars contemporanee; o alla copertura totale del conflitto in Vietnam contrapposto alla “cecità” di Desert Storm. Paradossalmente, il contraltare del rumore di fondo delle guerre asimmetriche, a “geometria variabile”, più che a una migliore comprensione degli eventi può portare all'afasia e all'indifferenza determinate da un limite cognitivo che, se non trova immagini in grado di restituire l'individualità degli operatori coinvolti (vittime, carnefici, player internazionali), non è in grado di dare senso ai numeri neutri degli scenari di

87 Ibidem, pp. 48-49.

88 L'argomento rimane comunque controverso: per una diversa lettura delle pratiche violente del passato rispetto alla gestione degli impulsi nelle società contemporanee cfr. Steven Pinker, The Better Angels of

our Nature, London, Allen Lane, 2011.

guerra.90 Secondo Dal Lago, il percorso compiuto dallo sguardo in rapporto alla crudeltà è

dunque il seguente:

Nell'antica Roma si trattava di celebrare la natura stessa di una società fondata sulle conquiste militari e sulla schiavitù; nella prima modernità, la crudeltà sarà piuttosto appannaggio della legge nel suo momento più solenne, la punizione capitale; successivamente, tenderà a sparire dalle rappresentazioni pubbliche, nel senso che la sofferenza di condannati a morte e detenuti a vita sarà sottratta allo sguardo e confinata in luoghi segreti e invisibili. Quanto alla guerra, la sua rappresentazione oscilla tra l'apologia e l'ellissi.91

Ne risulta una parallela circolazione di materiali che tiene traccia di questi eventi e permette di comprendere come la diffusione delle immagini di morte nei media audiovisivi contemporanei sia l'approdo “naturale” di un lungo processo di sparizione e rimodulazione progressivo. Vediamo quindi alcuni casi che ne illustrano le dinamiche.

Come abbiamo accennato, Michel Foucault dedica l'ampia introduzione a

Sorvegliare e punire all'esecuzione del condannato Robert-François Damiens, avvenuta nel

marzo del 1757 come punizione per aver tentato di uccidere Re Luigi XV. Nell'analisi operata da Foucault sull'ultima persona condannata a morte per squartamento, l'esecuzione è un atto che inscrive nel corpo stesso del suppliziato il suo crimine e consegna la punizione nelle mani del potere costituito. La pena porta alla luce del sole una procedura