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Tre prospettive su corpo, morte e macchina da presa

CAPITOLO 2 – INQUADRARE LA MORTE

2.2 Tre prospettive su corpo, morte e macchina da presa

Gli esempi che seguono mettono in scena stadi di manifestazione della morte differenti. La loro ricezione critica ci aiuta a capire come lo stesso statuto dei film e il genere a cui afferiscono siano stati inizialmente percepiti come problematici, al punto da dibattere se fossero o meno documentari: se The Act of Seeing with One's Own Eyes di Stan Brakhage

(1971) affronta la questione partendo dal cadavere e dall'autopsia cui viene sottoposto (il titolo è appunto la perifrasi del termine greco che significa “vedere con i propri occhi”),

Lampi sull'acqua – Nick's Movie (Lightning Over Water, 1980) di Wim Wenders e

Nicholas Ray adotta la prospettiva dell'osservare la morte “al lavoro”, concentrandosi sul fisico minato dalla malattia di Ray. The Bridge – Il ponte dei suicidi (The Bridge, 2006) di Eric Steel, infine, si ferma letteralmente a distanza, e questa lontananza sarà oggetto di pesanti accuse: per una sorta di paradosso al contrario, che di solito coinvolge quei documentaristi che si avvicinano troppo al proprio oggetto di indagine e vengono accusati di sfruttarlo per i propri scopi commerciali, stavolta le polemiche si concentrano sulla scelta inversa.

Iniziamo dunque dal film di Brakhage. Generalmente catalogato come documentario, The Act of Seeing with One's Own Eyes chiude l'ideale trittico “Pittsburgh Trilogy”, iniziato con Eyes (incentrato sul dipartimento di polizia locale) e proseguito con

Deus Ex (ambientato nell'ospedale cittadino). In poco più di 30 minuti privi di sonoro,

Brakhage registra la dissezione dei cadaveri presso l'Allegheny Coroner's Office, non concentrandosi tanto sull'autopsia in sé, ma sulle nostre percezioni e attitudini nei confronti di questa procedura.203 Come evidenzia Barry Keith Grant, dal momento che al cineasta

non è consentito riprendere i volti dei cadaveri, Brakhage abbandona la linearità del procedimento, trovando proprio in questa restrizione la libertà di confrontarsi con le nostre attitudini culturali di fronte alla morte e, prendendo spunto dal suo stesso saggio “Metafore

203 BKG, “The Act of Seeing with One's Own Eyes”, in Jim Hillier, Barry Keith Grant, BFI Screen Guides.

della visione”, ne attua i principi trasformando l'interno del corpo umano in una ridda di colori e tessuti:

The Act of Seeing with One's Own Eyes is an attempt to put this call into practice by challenging

viewers to look at a normally taboo sight in a way that abandons the sense of abject disgust – a culturally learned response – with which we normally regard the process and so keep hidden from the public view.204

Dicevamo che l'opera è ritenuta un documentario, ma non manca chi lo classifica come film sperimentale e chi ne sottolinea l'eccentricità rispetto all'ambito documentaristico tradizionale. Elizabeth Jones, ad esempio, scrive: “The style is documentary in the sense that the subject is real enough, yet the filmmaker structures the film so that we are gradually, gently introduced to the gruesome material.”205 E mentre la

macchina da presa si muove tra gli anfratti degli organi interni, lo spettatore è conscio del fatto che l'artista offre semplici stimoli che ispirano l'osservatore a creare la propria esperienza estetica. Jones prosegue affermando che

The Act of Seeing with One's Own Eyes, dramatized the opaque reality of an objective experience

which, through its brutality, also sensitized the observer to subjective defenses. While watching dehumanizing autopsies, the observer is aware of creating subjective truth in order to cope with the parallel, invulnerable objective truth.206

Per il Monthly Film Bulletin si tratta di un documentario “in a loose sense”, in grado comunque di esercitare sullo spettatore una violenza che è quella del confronto con la morte.207 Un contatto che si gioca a colpi di strutture ritmiche affogate in un colore

sontuoso (prodotto da una palette di sette diverse forniture di pellicola), forme e textures ricavate a partire da parti anatomiche che compongono, per dirla con Daniel Levoff, una sorta di paesaggio visionario: secondo il critico, l'esperienza dello spettatore che assiste al corto di Brakhage non ha nulla a che fare con quella di chi guarda un film commerciale che sfrutta la violenza fisica. Nel secondo caso, infatti, lo spettatore sa che l'azione è finta e vive un'emozione dettata dalla tensione e dalla separazione tra emozione ed intelletto: ne risulta una speculazione su come sono realizzati smembramenti e ferite mortali, e questo processo è una sorta di valvola di sfogo per alleviare la tensione. Il caso di The Act of

Seeing with One's Own Eyes è invece diverso, perché non vengono attivati questi

204 Ibidem, p. 10.

205 Elizabeth Jones, “Locating Truth in Film, 1940-1980”, Post Script, n. 1, 1986, p. 59. 206 Ibidem, p. 65

207 Jonathan Rosenbaum, “The Act of Seeing with One's Own Eyes”, Monthly Film Bulletin, n. 625, 1986, p. 62.

meccanismi cerebrali di alleggerimento della tensione e il regista porta lo spettatore così vicino a ciò che è emotivamente intollerabile da costringerlo a far ricorso all'intelletto in modo diverso per sostenere la visione:

[...] the mental disjunction we experience in viewing The Act of Seeing with One's Own Eyes for the first time is not that of emotional involvement versus an awareness of the illusory in fictive film. It is, rather, a function of the tension that occurs between our conditioned horror at the sight of death and the violation of the human organism and our intellectual awareness that the human organism and our intellectual awareness that the human forms before us have been divested of life and are, thus, no longer people.208

Uno dei tabù di fronte al quale Brakhage si ferma, per sua stessa ammissione, è quello di filmare i volti dei defunti. Lo fa non solo per il divieto impostogli, ma per timore che qualche parente o amico potesse riconoscere i cadaveri, consapevole dello shock che avrebbe procurato loro: nelle sue stesse parole, filmare oltre questo limite sarebbe stato un atto di blasfemia.209

Lo stesso tabù scopico che invece infrangerà Lampi sull'acqua, filmando la morte al lavoro sul corpo di Nicholas Ray e riadattando un soggetto dello stesso regista americano, Lightning Over Water: una storia incentrata su un anziano pittore malato di cancro che il cineasta avrebbe voluto dirigere in prima persona. Sarà proprio Ray ad invitare Wenders a prendere parte al progetto, consapevole del peggioramento delle sue condizioni di salute.

Anche in questo caso, i critici hanno dibattuto sul fatto che si tratti di un'opera di finzione o di un documentario, considerando la frontiera permeabile tra i due poli: rimandando per i dettagli a questo proposito all'analisi di Stéphane Morin,210 ci limitiamo

qui a riprendere alcune considerazioni sviluppate dallo studioso francese. Analizzando un corpus di recensioni dell'epoca, Morin rileva che, all'uscita del film, i giornalisti specializzati si erano divisi sul suo statuto: non era solamente un'opera di fiction, né totalmente un documentario. Il propendere per una categoria o per l'altra dipendeva

208 Daniel H. Levoff, “Brakhage's The Act of Seeing with One's Own Eyes”, Film Culture, n. 56-57, 1973, p. 74.

209 A questo proposito il cineasta ha dichiarato: “That's the one taboo in this film. I may not film faces so that they would be recognizable to a relative later, or a friend and I would not want to anyway. They did not have to tell me this, because you could drive someone crazy with that. [...] There's always limitation, a lot of them are imposed from the outside and if they don't interfere you go ahead; if they do, of course, it's blasphemy to go ahead.” Cfr. Stan Brakhage, “How They Were Loving I Think Everything Should Be Seen. Stan Brakhage at Millennium, February 19, 1972,” in Millennium Film Journal, n. 47/49, Fall-Wint 2007, pp. 19-20.

210 Stéphane Morin, “Nick's Movie: le point de fuite”, Cinémas – Revue d'études cinématographiques, Hiver 1994, pp. 101-117.

soprattutto dalla competenza dello spettatore, che a sua volta determinava da quale parte della frontiera “scivolosa e sfuggente” che separa il documentario dalla fiction posizionava il film:

Un spectateur qui ne connaît ni Wenders ni Ray et qui constate que le film est mis en scène peut légitimament penser qu'il s'agit d'une fiction. D'autre part, “l'actant-lecteur” peut tout aussi bien en faire une “lecture documentarisante” sans pour autant être accusé de se tromper. Là encore, il n'y a rien qui puisse totalement empêcher la production d'une “lecture documentarisante”.211

Riguardo alla pellicola, la cui visione “può suscitare reazioni di fastidio e rigetto”, la Rivista del cinematografo commentava: “Con Nick's Film viene raggiunto, in questo 'genere' che sempre più riguarderà il cinema e la televisione negli anni futuri, forse il punto più alto di poesia e menzogna insieme. […] Di racconto si tratta più che di realtà documentaria […] Pornografia d'autore.”212 Lampi sull'acqua è appunto doppiamente

problematico perché la morte complica la sua lettura: ciò con cui abbiamo a che fare è “non solo la morte in diretta di un eroe-combattente del cinema hollywoodiano, ma anche la riflessione sul processo di ripresa di una realtà rifiutabile, ma forzatamente autentica che si autocostituisce.”213 Si tratta di un film che, nota Lucilla Albano, non rappresentando un

moribondo ma riproducendo un vecchio che sta morendo (e, nel fare questo, rinunciando a qualsiasi interpretazione consolatoria e rassicurante), sarà in parte rigettato o non capito da un pubblico non più abituato a un'immagine che un tempo era familiare. Wenders lascia infatti che sia la malattia incurabile a dare forma al film e lo spettatore si trova così solo davanti alla morte:

È come se la parte di “verità” (la morte in agguato), la sofferenza e i disagi del malato rispetto alla “messa in scena”, facesse sentire il suo peso nella composizione del film caricando l'effetto classico del “fuori campo”, dell'ampliamento spaziale e temporale – per cui sentiamo sempre, anche in assenza di Ray sullo schermo, la “morte al lavoro” – e togliendo invece in “effetto” drammaturgico narrativo. Lo spettatore è costretto a porsi direttamente in confronto con la morte non essendoci nessuna mediazione narrativa, nessun supporto emotivo che gli permetta di slittare […] dalla morte a qualcos'altro...214

E se Cinema Journal, titolando “Cinematic Snuff”, nota che “[...] in Lightning

Over Water Ray is not simply a cinematic presence, but a dying body resisting its dramatic

displacement within the film”,215 sulle pagine di Cinema e cinema, Antonio Costa osserva 211 Ibidem, p. 111.

212 Elio Girlanda, “Nick's Film”, Rivista del cinematografo, n. 1-2, 1982, pp. 39-40. 213 Carlo Pasquini, “Nick's Film di Wim Wenders”, Cinema 60, n. 142, 1981, p. 62. 214 Lucilla Albano, “Riflessioni sul cinema e la morte”, Film critica, n. 425, 1992, p. 217.

che il film sconvolge categorie estetiche e morali, lasciando alla fine lo spettatore muto, “spossato da quanto ha dovuto e voluto vedere.”216

Si è anche parlato a più riprese di una morte più metaforica, e cioè l'uccisione di un padre (Ray) da parte del figlio (Wenders): ricordiamo in questo senso quanto l'esperienza avesse provato Wenders, al punto da affidare il primo montaggio, quello mostrato al festival di Cannes e Venezia, a Peter Przygodda, per intervenire di persona solo in un secondo tempo realizzandone una seconda versione con voice over.

Nel rimpallo conclusivo Ray e Wenders su chi debba dare lo stop (cut) alla macchina da presa, si gioca anche una partita che esclude il voyeurismo puro e semplice: “In this single shot, Ray thus demands and acquires from the son the contradictory reality that the medium forces a filmmaker to live and die by, the reality of an individual whose life is necessarily bound to the murderous game of narrative cinema.”217 Un rapporto che

Wenders stesso chiarisce rovesciando l'assunto del film: secondo il cineasta tedesco Lampi

sull'acqua mette in forma la vita e non la morte, perché il tema principale è proprio

l'amicizia tra i due registi, sancita da una forma peculiare di narrazione per cui Nick avrebbe voluto realizzare non un documentario, ma “recitare la parte di un personaggio, avere insomma un piccolo diaframma di copertura tra sé e la pellicola.”218

Abbiamo quindi visto come Lampi sull'acqua sia un prodotto problematico, al limite anche sfiorato dall'aggettivo snuff: con il prossimo documentario assistiamo invece ad accuse ben più consistenti al riguardo.

Il caso di The Bridge è emblematico perché mostra chiaramente come non vi sia un modo “giusto” di affrontare il tema della morte in video. Se consideriamo l'assunto di partenza del progetto, così come dichiarato dal regista stesso, e cioè sollevare la questione del disagio mentale in rapporto al suicidio, prendendo come oggetto d'indagine il Golden Gate Bridge (notoriamente meta prediletta per i “jumpers”), notiamo come, al di là delle intenzioni manifeste di coloro che l'hanno realizzato, il risultato finale risenta delle insinuazioni avanzate dai critici di trattare l'argomento facendone oggetto di sfruttamento.

Come aveva già affermato in diverse occasioni e scritto sul sito ufficiale del film,219 anche in un'intervista rilasciata alla BBC220 il cineasta Eric Steel ha ribadito che, nel

2, Winter 1985, p. 14.

216 Antonio Costa, “All that Death”, Cinema e cinema, n. 25-26, 1980, p. 89. 217 T. Corrigan, op. cit., p. 16.

218 Cinzia Baldazzi, “Wenders e l'uccisione dei padri”, Cinema 60, n. 148, p. 4. 219 www.thebridge-themovie.com

corso delle riprese, la troupe era in costante contatto con le autorità, pronta a segnalare l'eventuale intenzione di suicidarsi dei passanti (contribuendo di fatto a salvare diverse vite), e ha spiegato che il documentario, proprio in virtù del fatto che mostra ciò che succede con una così alta frequenza sul ponte, ha una maggiore forza provocatoria nel sollevare il dibattito sul suicidio e le malattie mentali: leggere o sentir parlare di questi eventi non ha, secondo il cineasta, lo stesso impatto. La posizione di Steel è chiara anche nel rigettare l'accusa di ricavare denaro sulla pelle delle vittime, come ha precisato nel corso di un'altra intervista concessa a Jay Slater di Film Threat:

I don’t think it is exploitation. If it were exploitation, I could have put together a clip-reel of people jumping off the bridge and sell it on the Internet. I’m sure I would have money in my pocket. If anyone who wants to look at my tax returns and retirement fund, they’d be happy to know that movie was not a lucrative money making scheme.221

L'idea del progetto è nata dopo che il regista aveva assistito al crollo delle Torri Gemelle durante l'attacco dell'11 Settembre, nel corso del quale diverse persone si sono lanciate nel vuoto dalla cima delle Twin Towers. In seguito, il New Yorker ha pubblicato l'articolo di Tad Friend “Jumpers”, in cui si spiegava che, in tutto il mondo, il luogo scelto con maggior frequenza dai suicidi per mettere fine alla propria esistenza era il Golden Gate Bridge di San Francisco (una media di due persone al mese, per un totale di 1300 dall'anno della sua ultimazione, il 1937). Steel decide di provare ad accendere i riflettori sulle cause che possono spingere una persona a compiere un gesto estremo in un luogo così visibile, in pieno giorno e su una struttura purtroppo scarsamente attrezzata ad impedirlo (il ponte è dotata di una balaustra troppo bassa, che è stata spesso al centro di polemiche). Alla domanda di Slater sulla consapevolezza che il film possa attrarre il pubblico di documentari di exploitation come Le facce della morte, Steel risponde senza esitazioni:

I think that they’ll be disappointed in the movie. The film is provocative and I think it’s disturbing but it’s certainly not a clip reel of death. By and large it’s a very composed film with various interviews and stories and images – it has absolutely nothing to do with the fetish-isizing of death. There is death in this film, there’s no going around it, but I don’t think it’s used or incorporated in a way that will satisfy someone’s voyeuristic urge to see it. I always knew that this film would be considered out of bounds between interviews, images, stories and footage. I guess I was never really tempted to do anything else. I can see how the footage could be used in a different way but that wasn’t the film I wanted to make.

Ultimo accesso: 9 dicembre 2012.

221 Jay Slater, “Off The Bridge: Interview With Director Eric Steel”, Filmthreat.com, December 12, 2007. http://www.filmthreat.com/interviews/1132/

Nonostante la percezione del posizionamento del film sia chiara per il regista, i produttori e i distributori, e a fronte di commenti positivi che plaudono ad una sorta di bellezza trascendentale delle immagini di questo angosciante documentario, “uno dei più commoventi e brutalmente onesti film sul suicidio mai realizzati”,222 “onesto e ben

fatto”,223 non sono mancate recensioni al vetriolo che hanno accusato il progetto di essere

simile ad uno snuff. Entertainment Weekly, ad esempio, commenta:

[…] if The Bridge, which presents several of those tragedies, sounds ghoulish, it is. As Steel's telephoto images pick out figures strolling the walkway, then hesitating, we think: Who will be next? We also think: How could Steel keep filming? In fact, he made several calls to authorities to try and save people, but The

Bridge crosses a disquieting line. It may be the first poetic snuff film.224

Parte delle critiche, come quella di Tom Ammiano, che ha commentato “Whatever the intention of the film, you can't help but think of a snuff film”,225 si appuntano sul fatto

che Steel, secondo i responsabili delle autorità che hanno in gestione il ponte, non avrebbe comunicato inizialmente il progetto del documentario, fornendo anzi una “falsa pista” sullo scopo delle riprese e solo in un secondo tempo, via email, avrebbe chiarito le sue vere intenzioni. Altri, ad esempio Sight and Sound, sottolineano il fatto che il regista avrebbe dovuto fare di più, e non limitarsi a filmare ben 24 suicidi:226 “Our longing to interrupt the

ensuing showreel of suicides is superseded by our disbelief that the film makers haven't

222 Stephen Holden, “That Beautiful but Deadly San Francisco Span”, The New York Times, October 27, 2006.

http://movies.nytimes.com/2006/10/27/movies/27brid.html?

ex=1162612800&en=ef9e6526364f9858&ei=5070&emc=eta1&_r=0 Ultimo accesso: 10 dicembre 2012.

223 Anon., “Suicide Watch”, The Los Angeles Times, November 10, 2006. http://www.latimes.com/news/la-ed-bridge10nov10,0,7462830.story Ultimo accesso: 10 dicembre 2012.

224 Owen Gleiberman, “The Bridge”, Ew.com, Nov. 1, 2006. http://www.ew.com/ew/article/0,,1553335,00.html Ultimo accesso: 10 dicembre 2012.

225 Philip Matier, Andrew Ross, “Film captures suicides on Golden Gate Bridge. Angry officials say moviemaker misled them”, Sfgate.com, January 19, 2005.

http://www.sfgate.com/bayarea/matier-ross/article/Film-captures-suicides-on-Golden-Gate-Bridge- 3313450.php

Ultimo accesso: 9 dicembre 2012.

226 Il dibattito se gli operatori dell'informazione e il personale tecnico come cameramen e fotografi debbano continuare a documentare o intervenire in casi in cui assistano ad eventi in cui sono presenti persone che rischiano la vita è tornato recentemente alla ribalta, quando, lunedì 3 dicembre 2012, uno squilibrato ha spinto il coreano Ki-Suck Han sui binari della metro di New York. L'uomo è stato investito dal treno in arrivo ed è morto sul colpo, mentre il fotografo Umar Abassi documentava la scena. Lo scatto, che mostra la motrice in arrivo e Han disperatamente aggrappato alla banchina mentre cerca di issarsi, è finito sulla prima pagina del New York Post, che ha titolato: “Doomed. Pushed on the subway track, this man is about to die.” La vicenda ha sollevato un vivace dibattito nei media, ma va sottolineato che nessuna delle 18 persone presenti ha tentato di aiutare il poveretto e, anzi, alcuni di loro hanno ripreso la scena e poi l'hanno postata online.

themselves intervened, rather than concentrating their efforts on keeping the bodies, which plummet into the water at around 120mph, centre screen.”227

Altri ancora, come Variety, rimarcano il fatto che il documentario, pur raggiungendo una sorta di malinconica poesia, affronta in modo tutt'altro che efficace le questioni che dice di voler portare all'attenzione dell'opinione pubblica228 e che, anzi, c'è il