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La Arendt ed i tre maestri della paura politica

“Se Hobbes sperava di creare un mondo in cui gli uomini avessero a temere la paura più di ogni altra cosa, sarebbe stato amaramente deluso, e assolutamente disorientato, da Le Origini del

Totalitarismo” dice Robin introducendo il capitolo del suo lavoro dedicato ad Hannah Arendt95. Sarebbe stato impossibile per Hobbes comprendere il fanatismo delle masse(e dei loro leader) nel corso del novecento. Così come, per il filosofo inglese, sarebbe stato impossibile vedere nella propria morte soltanto un banale capitolo di una storia universale molto più grande. Possibile che gli uomini non stimassero la propria vita un bene talmente grande da necessitare una salvaguardia speciale? É l'ideologia dei regimi del novecento, secondo Robin, ad accecare le

masse. Ideologia che “non era dichiarazione delle proprie ambizioni, ma confessione di irreversibile piccolezza. Uomini e donne erano attratti dal nazismo e dal bolscevismo(...)perché

queste ideologie rafforzavano il loro sentimento di mediocrità personale”96. Da dove nasce questa improvvisa svalutazione dell'io? Sicuramente tra l'epoca di Hobbes e quella

della Arendt molto era stato scritto, molto era successo. In particolare da Montesquieu e Tocqueville: il primo sostenne, contro Hobbes, che il terrore

mortificasse l'individuo. E che la paura della morte fosse l'esempio di una condizione umana irrevocabile. Se per Montesquieu l'io era fortemente limitato dal terrore dispotico, per Tocqueville questo

status di precarietà era dovuto alla democrazia moderna.

“Unendo la teoria del terrore dispotico di Montesquieu e l'analisi di Tocqueville dell'ansia della

95

Corey Robin, Paura, op.cit., p.108

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massa, la Arendt fece del nazismo e del comunismo gli spettacolari trionfi della paura antipolitica, che chiamò 'terrore totale', qualcosa di non comprensibile attraverso le categorie politiche”97 .

Ed in grado di sconvolgere per sempre l'umanità. Il fattore che porta attraverso il totalitarismo fino al terrore totale è la 'massa', intesa come

insieme di individualità in cerca di una guida. Una situazione per alcuni aspetti simile allo stato di natura di Hobbes, per altri molto diversa. É vero, anche nella condizione descritta dalla Arendt la

moltitudine è spaesata, come in attesa di sottomettersi ad un potere superiore. Ma non c'è alcun conflitto interno ad essa, nessuna rivendicazione di diritti.

Soprattutto nessun interesse all'autoconservazione. Ed è questa mancanza di una rivendicazione di qualsiasi interesse per la propria condizione a consentire alla Arendt di insistere sull'assenza del sé degli uomini del novecento. Qualsiasi personalità forte(in questo caso un dittatore) è in grado di

approfittare della debole identità collettiva della massa per sottometterla. Il meccanismo vincente dei movimenti totalitari avvicina nuovamente la Arendt ad Hobbes. Se il Leviatano forniva finalmente una condizione di relativa sicurezza, al riparo dalle violenze dello stato di natura, il regime del novecento fornisce ai sottoposti una soluzione aggregativa, in grado in qualche modo di dare un senso alle esistenze di individui tra di loro profondamente isolati, incapaci di creare legami sinceri. Ancora una volta la Arendt torna a Tocqueville, il primo ad

intravedere la potenziale deriva tirannica della massa. La malattia, se così si può definire, in grado di portare al totalitarismo è, come la definisce Robin,

“l'ansia dello sradicamento”98.

“Come Tocqueville, anche la Arendt era convinta che la massa fosse il fattore primario delle moderne tirannie, alimentata dall'ansia da anomia.

97

Corey Robin, Paura, op.cit., p.109

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Pur rendendosi conto che governanti come Stalin avessero creato le condizioni sociali dell'ansia(...) il significato principale della sua tesi era che l'ansia della massa fosse il risultato di un'anomia

preesistente e che essa producesse i movimenti politici che sostenevano il terrore totalitario”99.

L'anomia è tipica di un nuovo stato di natura novecentesco, nel quale gli uomini, dopo aver

guadagnato sempre maggiori libertà individuali nel corso dei decenni precedenti, credono di avere nuovamente ogni diritto a prevaricare il loro simile. Finendo per creare un regime di isolamento

forzato, in cui i normali rapporti sociali sono negati. Per la Arendt l'assenza di istituzioni in grado di cimentare le relazioni umane è la maggiore

responsabile della disgregazione e della paura dell'isolamento. Quest'ultimo, a sua volta “può essere l'inizio del terrore; ne è certamente il terreno più fertile; ne è sempre il risultato. Esso è, per così dire, pretotalitario; la sua caratteristica è l'impotenza, in quanto il potere deriva sempre da

uomini che operano insieme(...)gli individui isolati sono impotenti per definizione”100 . In questa situazione particolare, l'atto di fede in un'ideologia nemmeno ben specificata può

improvvisamente dare un senso ad un'esistenza intera. Non è tanto il contenuto ad affascinare la massa, sia esso l'antisemitismo o il comunismo, quanto la sua potenza aggregante, la sua capacità

di creare unità d'intenti. Si potrebbe sostenere che l'ideologia sia più uno stato mentale, un modo per risvegliare le

coscienze sopite. Fare parte di un'ideologia significa all'improvviso essere parte di un movimento in grado di

cambiare per sempre il corso della storia, all'interno del suo flusso regolare e continuo verso l'alto. Nel divenire, nel mutamento verso una nuova umanità era rintracciabile la speranza di una vita diversa.

99

Corey Robin, Paura, op.cit., p.110

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“Pertanto, mentre i fanatici hobbesiani erano attirati da idee che li magnificassero, che esaltassero la nobiltà del temperamento umano e la forza del suo ingegno, i fanatici della Arendt erano sedotti da visioni di decadenza umana, da idee che rappresentavano la morte, compresa la propria, non

come un fatto triste e inevitabile della vita, ma come un modo, il modo, di vita” osserva Robin101. Il rapporto della Arendt con Hobbes è comunque a tratti conflittuale.

Secondo la filosofa ebreo-tedesca la teoria politica hobbesiana ha fondato il moderno imperialismo, ritenuto una della cause, insieme all'antisemitismo, dell'affermarsi del sistema

totalitario del novecento.

“Hobbes è in verità l'unico grande filosofo a cui la borghesia possa richiamarsi con pieno diritto, anche se per molto tempo non ne ha riconosciuto i principi. Secondo la teoria politica esposta nel suo Leviathan, lo stato non poggia su una legge costitutiva – divina, naturale o del contratto sociale – determinante ragione e torto dell'interesse del singolo rispetto agli affari pubblici, bensì sugli interessi individuali; di modo che l'interesse privato è lo stesso di quello pubblico”102.

Hobbes è considerato un anticipatore delle norme morali borghese, attraverso l'importanza

attribuita alla potenza. Grazie ad essa “Il singolo considera la sua convenienza in un isolamento completo(...)e poi si rende

conto che per perseguire il suo interesse ha bisogno dell'aiuto di una maggioranza. Perciò la volontà di potenza è la passione fondamentale dell'uomo. Essa regola le relazioni fra l'individuo e

la società, e dà vita a ogni altra ambizione, di ricchezza di sapere e di onori”103. Ciò che la Arendt biasima maggiormente è l'immagine dell'uomo portata da Hobbes.

Secondo cui ognuno è un potenziale assassino e tutti sono nella stessa condizione di insicurezza. Ma “il punto cruciale di questa immagine dell'uomo non è affatto il pessimismo realistico per cui in

101

Corey Robin, Paura, op.cit, p.112

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Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, a cura di Alberto Martinelli, Einaudi, Torino, 2004, p.194

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tempi recenti essa è stata elogiata(...)In verità Hobbes non riesce a inserire adeguatamente l'essere descritto in una comunità politica(ma del resto neppure lo desidera)”104. L'appartenenza a qualsiasi forma di collettività è una affare di comodo, “che non cambia il carattere solitario e privato dell'individuo(...) e non crea vincoli permanenti fra lui e i suoi simili”105. Per giunta “tale immagine dell'uomo, che sembra frustrare il proposito del filosofo di fornire la base per un Commonwealth, presenta invero un insieme di atteggiamenti atti a distruggere ogni comunità genuina”106. Un individuo 'costruito' in conformità ai bisogni del Leviatano, seguendo una visione prettamente realistica. Nello stato hobbesiano gli uomini non

sono mai sazi di potere, ma vengono spogliati a tutti gli effetti dei loro diritti politici. Ed è per questo che l'individuo “acquista un nuovo accresciuto interesse per la sua vita privata e le

sue sorti personali. Escluso dalla partecipazione alla gestione degli affari pubblici che riguarda tutti i cittadini, egli perde il suo legittimo posto nella società e il vincolo naturale coi suoi

simili(...)Attribuendo i suoi diritti politici allo stato, l'individuo gli delega anche le sue responsabilità sociali: gli chiede di essere sollevato del fardello dell'assistenza ai poveri allo stesso modo che gli

chiede di essere protetto dai criminali”107.

Ma il continuo desiderare, la costante accumulazione di beni e di potere teorizzata da Hobbes, lascia campo aperto, secondo la Arendt, all'ascesa dell'imperialismo nella seconda parte del XIX secolo. La corrente politica affermatasi poi in Francia e in Germania negli anni venti, “sostituì la

superstizione del disastro ed esaltò l'automaticità dell'annientamento con lo stesso entusiasmo con cui i fanatici del progresso automatico avevano predicato l'irresistibilità delle leggi economiche. Erano occorsi tre secoli a Hobbes, il grande adoratore del successo, per spuntarla”108.

104

Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, a cura di Alberto Martinelli, op.cit., p.195

105 Ibidem 106 ibidem 107 ivi, p.197 108 Ivi, p.201

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L'opera di rottura con la tradizione annunciata dal Leviatano si è dunque completata, adesso una nuova classe “la cui esistenza è essenzialmente legata alla proprietà di beni come mezzo dinamico produttore di altri beni”109 è al potere.

Per alcuni aspetti la Arendt sembra esaltare la lungimiranza di Hobbes. Per altri lo condanna per aver spianato la strada all'assolutismo.

“Hobbes fu, anche se mai pienamente riconosciuto, il vero filosofo della borghesia, perché si rese conto che l'acquisizione della ricchezza concepita come processo senza fine poteva esser garantita soltanto dalla conquista del potere politico(...) Egli previde che una società protesa verso

l'incessante acquisizione avrebbe avuto bisogno di una nuova dinamica organizzazione politica,

capace di dare l'avvio a un corrispondente processo di accumulazione del potere. (…) Capì che la forza bruta sarebbe stata necessariamente idolatrata, che il nuovo tipo umano sarebbe

stato lusingato a sentirsi definire un animale assetato di potere, proprio perché la società l'avrebbe costretto ad abbandonare tutte le sue energie naturali, le virtù come i vizi, facendone un essere

docile, incapace di insorgere contro la tirannide, pronto a sottomettersi a qualsiasi governo”110.

In questo modo si innestano i germi del dominio totalitario del novecento, che lascia il singolo uomo impotente di fronte alla forza dello Stato. Convinto a rinunciare addirittura alla vita pur di dare un significato alla sua esistenza. La revisione di Hobbes operata dalla Arendt non termina però qui. Le tesi espresse dal filosofo inglese in merito alla natura umana, caratterizzata dall'aggressività e dal continuo desiderio di prevaricazione del simile, vengono in un secondo momento estese ai rapporti tra stati(dove invece non vi è alcuna speranza di 'superare' lo stato di natura).

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Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, a cura di Alberto Martinelli, op.cit, p.202

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Queste preparano infatti “la migliore base teorica possibile per quelle ideologie naturalistiche che

concepiscono le nazioni come se fossero delle tribù, separate tra loro dalla natura, senza alcun vincolo, ignare della solidarietà umana, aventi in comune soltanto l'istinto di conservazione che

l'uomo del resto condivide col mondo animale”111. La Arendt sostiene così che la filosofia politica hobbesiana, comunque(è bene ricordarlo) estranea alle teorie razziali, possa essere ritenuta il punto di origine del moderno razzismo, in quanto

esclude “in linea di principio l'idea di umanità”112come guida del diritto internazionale. “Se gli uomini sono prigionieri dell'inarrestabile processo delineato da Hobbes, l'organizzazione

della plebe trasforma inevitabilmente le nazioni in razze perché, nel quadro di una società accumulatrice, non c'è altro vincolo unificatore a disposizione degli individui, privati, nel corso dell'accumulazione del potere e dell'espansione, di ogni legame naturale coi loro simili”113. L'attenzione in qualche modo 'negativa' dedicata a Hobbes è dovuta al tentativo, da parte della Arendt di identificare le origini del totalitarismo. E l'ideologia legata alla razza, l'unica a sopravvivere nei secoli, insieme a quella che vede la storia come una lotta economica di classi, ha avuto una grande risonanza presso le masse disorientate della prima metà del secolo scorso.

111

Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, a cura di Alberto Martinelli, op.cit, p.219

112

ivi, p.219

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Un nuovo stato di natura

Può la teoria dello stato di natura hobbesiano aver influenzato Hannah Arendt? Una domanda a cui sicuramente è difficile rispondere. L'inizio della terza parte de Le Origini del Totalitarismo, quella dedicata proprio al totalitarismo, sembra però dare spazio a questa suggestione. Certo, di fronte abbiamo uno scenario completamente diverso a quello descritto da Hobbes, in cui invece gli individui, impauriti dalla continua lotta per sopraffarsi l'un l'altro, decidono di costituire uno Stato per garantirsi una vita serena. Per questo la Arendt rielabora il tutto in chiave

novecentesca, operando una sintesi tra Hobbes e Tocqueville. “Il crollo della muraglia protettiva classista trasformò le maggioranze addormentate, fino allora a rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata e amorfa, di individui pieni d'odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che le speranze degli esponenti politici in un

ritorno dei bei tempi andati fossero campate in aria”114. Il procedimento è per certi versi affine e per altri diverso da quello hobbesiano: un'entità unica a

livello politico esiste già, dopo i rapidi stravolgimenti vissuti dalla società a cavallo del

diciannovesimo e del ventesimo secolo. Dovuti soprattutto alla prima guerra mondiale. La società classista, come la definisce la Arendt, confluisce naturalmente(e passivamente, si

potrebbe aggiungere) in una massa disorganizzata.

Non c'è alcun atto costitutivo 'attivo'. Ma all'interno della società descritta dalla Arendt sembra vigere lo stesso principio di non

belligeranza descritto da Hobbes. Individui diversi, per natura in conflitto, che decidono di stare

insieme quasi per convenienza.

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“In questa atmosfera di sfacelo generale si formò la mentalità dell'uomo di massa europeo.(...) Ma, pur tendendo a cancellare le differenze individuali in un generale risentimento, questa

amarezza egocentrica non creava un vincolo comune, perché non era basata su una comunanza di interessi, economici, sociali o politici”115. Nessuna possibilità di creare una comunità vera e propria quindi. E, in questo modo,

“All'egocentrismo si accompagnò quindi molto spesso un indebolimento dell'istinto di

autoconservazione. L'abnegazione, non come virtù, ma come senso della nessuna importanza del proprio io, della sua sacrificabilità, divenne un fenomeno di massa che non aveva più a che vedere con l'idealismo individuale”116. Questo è il primo vero punto di rottura con la tradizione hobbesiana: degradare in questo modo l'istinto autoconservativo umano allontana il Seicento ed avvicina la massificazione novecentesca. L'interesse personale, punto di riferimento nel pensiero hobbesiano, passa in secondo piano. Lo strappo è sancito dall'influenza esercitata da Tocqueville sulla Arendt: la perdita di sé nella massa è perdita della capacità di esercitare la propria volontà, di esprimere un pensiero

autonomo. L'omologazione spalanca le porte al sopravvento del totalitarismo, di qualsiasi regime desideri assumersi la responsabilità di decidere per l'individuo. Gli uomini, nella descrizione fornita dalla Arendt “avevano smarrito l'interesse per se stessi: era venuta meno la fonte delle ansie e delle preoccupazioni che rendono la vita umana penosa e tormentata”117. Tutto il contrario di quanto teorizzato da Hobbes, per il quale l'uomo era completamente assorbito dalle sue passioni 'negative' terrene, in grado di influenzarne l'esistenza.

Per la Arendt, invece, liberarsi del 'sé' significa liberarsi anche delle proprie paure. Che lo stato totalitario ingloba volentieri, pronto poi a restituire (anzi, ad infliggere) una nuova

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Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, op.cit., p.437

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ibidem

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paura, ben più terribile. “La verità è che le masse si formarono dai frammenti di una società atomizzata, in cui la struttura competitiva e la concomitante solitudine dell'individuo erano state

tenute a freno soltanto dall'appartenenza a una classe. La principale caratteristica dell'uomo di massa non era la brutalità e la rozzezza, ma l'isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali”118. Questo isolamento costante è destinato a caratterizzare giocoforza anche la vita all'interno del regime totalitario. Anzi, diventa il punto di forza su cui lo Stato gioca tutte le sue carte per sottomettere definitivamente la massa inerme. La Arendt porta il caso specifico dell'Unione Sovietica, perfetta esemplificazione di massa divisa al suo interno grazie alle politiche del governo centrale. “L'atomizzazione della società sovietica venne ottenuta con l'abile uso di ripetute

epurazioni, che invariabilmente precedevano l'effettiva liquidazione di un gruppo. Per distruggere tutti i legami sociali e familiari, le epurazioni venivano condotte in modo da minacciare della stessa

sorte l'accusato e tutta la sua cerchia, dai semplici conoscenti agli amici e ai parenti più stretti”119. La polizia politica e il crudele sistema di delazione contribuiscono in maniera decisiva a scavare un

solco netto tra i cittadini. Questo è l'obiettivo del regime. Che è sì, come per Hobbes, al di fuori della legge e nella posizione di poter infliggere pene

sommarie. Ma che al contrario di quanto avveniva per il filosofo inglese, 'lavora' affinché

l'isolamento tra gli individui continui ad aumentare. Quasi come se da questo traesse un sadico giovamento. E' dunque “con l'impiego radicale di

questi metodi polizieschi che il regime staliniano riuscì a instaurare una società atomizzata quale non si era mai vista prima, e a creare intorno a ciascun individuo un'impotente solitudine quale

neppure una catastrofe da sola avrebbe potuto causare”120.

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Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, op.cit, p.439

119

ibidem

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Si può così sostenere che i cittadini di uno stato totalitario vivano nuovamente in uno stato di natura: la denuncia del simile consente di avere salva la propria vita. Un meccanismo perverso, in

cui si può avere salva la vita un giorno e ritrovarsi confinato in un gulag poco tempo dopo. Ma la solitudine degli uomini ha un altro importante obiettivo. “I movimenti totalitari sono

organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e fedeltà incondizionata e illimitata; ciò già prima della conquista del potere, in base all'affermazione, ideologicamente giustificata, che essi

abbracceranno a tempo debito l'intera razza umana”121. Di fronte a questo scopo da raggiungere, è chiaro che più una società è divisa, minori sono le possibilità di vedere sorgere coalizioni in grado di opporsi al regime. “Ci si può aspettare una simile fedeltà soltanto da un essere umano completamente isolato che, senza alcun vincolo sociale con i familiari, gli amici, i compagni e i conoscenti, senta di avere un posto nel mondo esclusivamente mercé l'appartenenza al movimento, al partito”122. Conclude laconica la Arendt. In “La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione”, la Arendt torna ancora

sull'argomento: “L'aspetto più orribile del terrore è che ha il potere di legare insieme individui completamente isolati e così facendo di isolarli ancora di più”123. Confermando quanto facilmente possano essere dominati gli uomini degli stati totalitari, perché

non hanno niente che li possa tenere insieme. Con il terrore a dividerli sempre più. “In un mondo in cui i contatti umani sono stati spezzati - per via del crollo della nostra dimora

comune o per la crescente espansione della mera funzionalità, che gradualmente divora la

sostanza, il nucleo reale delle relazioni umane, o per via degli sviluppi catastrofici delle rivoluzioni

121 Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, op.cit., p.448 122

ibidem

123

Hannah Arendt, La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione, in Antologia, a cura di Paolo Costa, Feltrinelli, Milano, 2011, p.155

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che a loro volta scaturirono da precedenti crolli - l'isolamento cessa di essere un problema psicologico che va affrontato con termini tanto belli quanto privi di significato come introverso o

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