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Il modello hobbesiano di regolazione della paura necessita la costituzione di uno Stato, quale

esemplificazione perfetta della rilevanza della paura stessa. Per quanto temibile, il Leviatano, prodotto della mutual fear ,assicura una vita priva del terrore di

essere aggrediti continuamente dai propri simili: la politica della paura promossa dallo Stato ha come risultato quello di isolare ancora di più i sudditi tra di loro, convincendoli a rinchiudersi nella

propria sfera individuale. Secondo Elena Pulcini dominio e perdita del senso, rinuncia, estraneazione, atomismo sembrano

essere le più evidenti degenerazioni del modello autorepressivo e disciplinare della prima modernità teorizzata da Hobbes. Credo che si possa legittimamente parlare di perdita di senso, perché la limitazione di ogni libertà e iniziativa personale inevitabilmente porta ad indebolire la sfera dell'io. Ma se l'attenzione si sposta sull'atomizzazione del cittadino, per definire il suddito in

termini moderni, in Hobbes la questione non è assolutamente limpida. L'unica via promossa dal Leviatano, quella di obbedire ai suoi diktat per garantirsi una vita al riparo

dalle aggressioni dei propri simili, lascia comunque uno spazio alla comunità per unirsi e costituire

una società 'in parallelo' a quella statale. E' il margine che Hobbes concede alla formazione di gruppi di opposizione al potere centrale,

come abbiamo visto nel primo capitolo. I sudditi possono unirsi per decidere di sovvertire il

Leviatano, ben sapendo che tuttavia il loro tentativo è destinato a fallire. Uno scenario che pare impossibile da configurare al giorno d'oggi: è infatti nella società dei giorni

nostri che l'atomismo è sempre più diffuso e 'lottare' al fianco dell'altro per una causa comune sembra quasi impossibile.

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D'altro canto si può sostenere che l'Io postmoderno rappresenti in tutto e per tutto una risposta

liberatoria alle coercizioni dell'Io prometeico portato alla ribalta da Hobbes. Se prima un continuo sforzo ed un continuo movimento per migliorare la propria condizione

animavano l'uomo, ora tutto è invece regolato da un perenne stato di quiete. Anche se l'individuo illimitato vuole tutto e subito, in termini di soddisfazioni e gratificazioni

personali. Ma lo 'sguardo' hobbesiano, che induceva invece l'individuo a darsi delle regole e dei

limiti nel perseguire uno scopo, sparisce comunque dall'orizzonte. Adesso l'Io è fluido, mosso da desideri inquieti e senza oggetto.

La sua apparente illimitatezza è caratterizzata da una perdita dei confini, intesi come identitari, ma

anche dalla perdita del limite inteso come possibilità umana. L'arroganza e la convinzione di poter essere capace di tutto è stata indotta dal culto dell'Io

recuperato dai regimi totalitari e dalle successive logiche della globalizzazione, che rafforzano

l'individuo facendogli sembrare tutto possibile. Ma al tempo stesso indeboliscono lo Stato-nazione e la sua sovranità, rendendolo più 'fluido' e

meno solido. Di conseguenza viene però a mancare la funzione tipicamente hobbesiana di

protezione e di salvaguardia della vita e della sicurezza degli uomini. Si tratta di un problema che in apparenza si può relegare in secondo piano, visto che la mancanza

di necessità impellenti e l'attenzione solo verso ambiti marginali sembrano favorire lo sviluppo di

un nuovo Io, che Pulcini definisce 'narcisistico'. Ma come vedremo più avanti non si tratta affatto di un problema da trascurare.

La nuova figura disegnata dalla modernità si oppone nettamente a quella dell'eroe civilizzatore

richiamata da Hobbes, legata indissolubilmente alla fatica e alla produttività. L'Io narcisistico è un Io tipico dell'età globale, dove tutto è a portata di mano, se non di click, in

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insieme ambizioso. In un mondo come quello di oggi, in cui dell'altro può anche benissimo non esserci bisogno, il

rischio di una frammentazione sociale sempre maggiore si fa ancora più forte. Dalla necessità di un altro io, quasi di un antagonista, se prendiamo come riferimento lo stato di

natura hobbesiano, che sviluppi una 'paura reciproca' produttiva, si arriva ad un Io illimitato, che

'copre' anche la necessità di un altro Io con cui interfacciarsi. Secondo molti, tra cui Hannah Arendt, è stato Tocqueville il primo a tematizzare la trasformazione

antropologica ormai completatasi ai giorni nostri, che va ricondotta alle patologie prodotte dalla

struttura democratica della società. Atomismo e conformismo, indifferenza e perdita di futuro, disaffezione alla sfera pubblica e delega

alle istituzioni investite di un potere tutelare sono i tratti principali di questo cambiamento. Ma a spianare la strada alla deriva individualistica può aver a mio avviso contribuito l'apparato di

'terrore reciproco' istituito dai regimi del Novecento, che ha messo gli uomini gli uni contro gli altri in un contesto di delazione reciproca e paura 'negativa' continua, quale quello descritto dalla Arendt. Da quel punto di non ritorno dipende l'attuale apatia nei confronti del nostro simile, che

spesso e volentieri è sostituito dallo schermo di un pc. Ma quasi paradossalmente se da un lato l'individuo è sempre più absolutus, sciolto dai legami

verso l'altro, dall'altro, nota Pulcini, è sempre più interessato a costruirsi un'appartenenza, un'identità.

“Individualismo illimitato e comunitarismo endogamico appaiono dunque come le polarità opposte e speculari di una divaricazione che vede da un lato ciò che vorrei definire l'ossessione dell'Io,

dall'altro l'ossessione del Noi”233osserva la studiosa italiana.

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Ad un Io apatico nei confronti della propria sfera individuale si contrappone un Io che ancora ha bisogno di comunità. E che ha ancora bisogno di un senso di appartenenza che sia regolato dalla paura.

“Come se allo spaesamento generato dal movimento centrifugo che attraversa lo spazio indifferenziato globale corrispondesse in modo speculare un movimento centripeto teso a

ridisegnare confini e ridefinire limiti” fa notare Pulcini234.

Di fronte ad un 'altro' che non è più il simile/avversario dello stato di natura di Hobbes, ma è al

contrario lo straniero, il diverso, che non si può più né espellere né assimilare. Ma se la paura hobbesiana svolge una funzione produttiva per tutelare l'incolumità dell'individuo,

la paura 'comunitaria' tipica dell'età globale attuale è radicalmente diversa. Mutano infatti le fonti e le caratteristiche del pericolo, il quale, rispetto allo scenario hobbesiano

diventa incerto e indeterminato. L'Io non ha di fronte a sé come minaccia solo il potenziale tentativo di prevaricazione compiuto dal

simile: la paura diventa al tempo stesso globale e etnica, e provenendo da più fronti, perde,

rispetto alla sua versione 'hobbesiana', la capacità di una metamorfosi produttiva. La paura globale innesca quindi quasi inevitabilmente meccanismi di difesa di fronte al pericolo,

che sfociano molto spesso in risposte irrazionali e regressive, soprattutto di fronte al pericolo

portato dall'altro come straniero. Ma il bisogno di comunità oggi si può ricondurre a un insieme di situazioni e di esperienze

variegate. Non è solo un 'noi contro l'altro', come nel caso di gruppi terroristici o di difesa

nazionalistica. C'è anche un mondo del 'noi per l'altro', che dedica la propria vita a fare sì che i più

deboli non si sentano soli di fronte alle paure dell'età globale.

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Si può comunque evidenziare un bisogno identitario, in senso positivo o negativo, con la necessità

di trovare un punto fermo nella logica impersonale del nuovo assetto globale. Il desiderio di sentirsi uniti scaturisce dalla crisi dell'identità politica e della cittadinanza, dovuta a

sua volta dalla crisi dello Stato: che questo sia quasi assente, corrotto o che lasci troppe libertà ad ogni individuo. Il fenomeno principale è sicuramente quello legato ai gruppi di identità collettiva,

che marginalizzano gli altri per difendere un valore, una tradizione. Gli esclusi perdono il ruolo di attori per diventare vittime di una incertezza identitaria.

Il problema per i gruppi di identità collettiva è che l'altro non è più relegabile aldilà dei confini, ma

bisogna costantemente farci i conti. Un esempio di questo processo, legato ai nostri giorni, può essere l'emergenza migranti. Il desiderio di chiudersi di fronte agli imprevedibili scenari portati dalla globalizzazione, di

difendere la propria identità culturale apre la strada al populismo nel dibattito di ogni giorno. Così tornano alla ribalta nuovi movimenti nazionalistici, che criticano lo Stato e la sua incapacità di

difendere l'Occidente, in questo caso specifico, dalle nuove invasioni provenienti dalle aree più povere del mondo. Quel che ne emerge è in certe situazioni un atteggiamento 'etnocida e

predatorio', come lo definisce Appadurai in Sicuri da Morire che prenderemo in analisi tra poco, il

quale ha come obiettivo quello di consolidare la propria egemonia, da parte della maggioranza. Si assiste in molti casi ad una sorta di torsione tribale, con un'ostilità verso il diverso esasperata: la

comunità obbliga i propri individui all'appartenenza per difendere le proprie differenze. Il simile non spaventa più, ma il diverso terrorizza: ma se accettiamo le logiche della

globalizzazione e l'Io illimitato capace di tutto, non possiamo essere ostili ad un sistema Stato sempre più aperto e sempre più penetrabile ed influenzabile.

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1.1 Analisi dell'individualismo: una breve storia da Hobbes a Tocqueville

L'obiettivo che mi pongo in questo capitolo è quello di far emergere i punti salienti nel processo di valorizzazione dell'individuo, attraverso una rapida disamina dei quattro filosofi che alla rilevanza dell'Io hanno attribuito grande importanza, interfacciandomi con il tentativo analogo compiuto da

Elena Pulcini in L’individuo senza passioni. I quattro autori presi in considerazione sono Hobbes, Locke, Smith e Tocqueville.

L'Io di Hobbes è estremamente legato all'azione: per il filosofo inglese ogni individuo è

protagonista attivo del suo mondo e inevitabilmente anche di quello dei suoi simili. Calato in un contesto di disordine dove non è possibile fare affidamento su codici sociali e morali

né affidarsi all'autorità di un’istituzione, l'uomo non può che comprendere subito la situazione di pericolo in cui si trova. L'individuo hobbesiano è dunque mosso da una preoccupazione dominante che può sembrare anche un'emergenza: l'esigenza di conservare se stesso, difendendosi dai suoi simili. L'autoconservazione diventa un bene primario, diritto naturale per eccellenza, e per

difenderlo ognuno dispone di mezzi illimitati. Ma proprio a causa dello ius in omnia rivendicato da tutti, come abbiamo visto, il mondo diviene

un vero e proprio teatro di guerra: nessuno se ne può tenere fuori. Gli uomini sono così protagonisti di un percorso individuale che li priva della vita 'solitaria',

costringendoli invece ad affidarsi ad una 'soluzione' collettiva. Sono le loro stesse passioni a legare inscindibilmente gli individui tra di loro, anche se questo

legame ha i connotati di un conflitto e di una continua sopraffazione dell'altro. Mossi dal desiderio di gloria, una passione che Hobbes connota negativamente, gli uomini

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procurarsi il necessario per la propria sopravvivenza non solo nel presente, ma anche nel futuro. Non c'è in Hobbes tanto il desiderio di essere riconosciuto dall'altro, quanto la preoccupazione di

poter conseguire il proprio utile e di 'spaventare' il proprio simile con la forza bruta. Passione dell'Io e passione dell'utile sono le due configurazioni emotive destinate a riflettersi

anche nell'uomo moderno, che cerca di colmare la propria insufficienza sia con il riconoscimento

della propria superiorità sia con il perseguimento continuo dei beni materiali. E' la 'vertigine del futuro'235 a spalancare un abisso nella vita dell'uomo hobbesiano(così come in

quello odierno), visto che questa ripropone continuamente il desiderio di ottenere il meglio per sé in ognuno. Data l'uguaglianza degli uomini nella loro debolezza e nel loro continuo tentativo di prevaricazione dell'altro, l'unica soluzione possibile per ristabilire un ordine sembra il ricorso alla paura, al fatto

che nessuno può mai sentirsi del tutto al sicuro. Se l'Io non trova più in sé le risorse per opporsi agli aspetti distruttivi della propria natura, allora la

paura può agire come choc emotivo in grado di spingere l'individuo a cercare insieme agli altri la

soluzione al conflitto provocato dalle passioni. La decisione di istituire uno Stato è sicuramente la più saggia, per evitare il perdurare del conflitto

inter omnes ed avere salva la vita. Ma al tempo stesso l'imperativo dell'autoconservazione esige

che tutti gli individui si affidino alla sfera del politico, che non consente eccezioni né scelte

singolari: un compromesso che alla fine vale la pena accettare. Per questo nella creazione del Leviatano Hobbes coglie un tratto che caratterizza anche

l'individualismo moderno: il legame conflittuale tra gli uomini può essere trasformato in un ordine

sociale e politico che li aiuti a centrare l'obiettivo primario dell'utile. Da questa passione primaria, l'autoconservazione, scaturisce “il nucleo emotivo dell'homo

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economicus”236, anch'esso tipico dell'individualismo moderno. L'autoconservazione, già in Locke, non evoca subito conflitto e morte, ma ha come punto di

partenza la vita associata. E comprende soprattutto conservazione della libertà e della proprietà. Il desiderio acquisitivo, che in Hobbes si configurava come uno scontro di poteri individuali

portatore di conflitto e di morte, viene in Locke pienamente legittimato, attraverso la possibilità di

arricchirsi vendendo i beni in eccesso. Se lo Stato in Hobbes metteva la parola fine sulle ambizioni dell'individuo, in Locke al contrario

favorisce la crescita economica personale: la differenza è dovuta alla diversa teoria

contrattualistica dei due filosofi. Anche in Locke la società politica nasce per porre rimedio alla conflittualità dello stato di natura, ma si tratta di una conflittualità già mediata ed attenuata. Il patto che viene stipulato per uscire dalla condizione naturale scaturisce per rimediare alla

mancanza di un 'terzo al di sopra delle parti' in grado di tutelare l'intangibilità della proprietà. Rispetto ad Hobbes e al suo ius in omnia, l'uomo di Locke ha già molti diritti garantiti: anche nei

confronti dello Stato, che trova il suo limite naturale proprio di fronte alla proprietà privata. Per questo si introduce un mutamento rilevante nella forma dell'individualismo: esso non tende

più solo all'acquisizione dell'utile, ma anche all'acquisizione del superfluo. E' un individualismo espansivo, quello descritto da Locke e successivamente da Smith, che punta a

migliorare continuamente la condizione umana. Questo accrescimento passa inevitabilmente dal ritorno ad una spiccata 'passione' dell'Io: la

preferenza del sé e l'ansia di affermare la propria superiorità sugli altri alimentano una passione acquisitiva. Contrariamente ad Hobbes, l'istinto di vanagloria che anima ogni individuo torna alla ribalta. Nel caso specifico di Adam Smith, il desiderio di migliorare la propria condizione si trova non solo nella necessità di soddisfare i propri bisogni, ma nel desiderio di essere ammirati e

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considerati dagli altri. L'autoconservazione rimane ancora il fine primario, ma è un primo passo

quasi scontato verso una determinata forma di benessere. Non nasce dall'istinto autoconservativo l'ansia di migliorarsi, ma piuttosto dal desiderio di

ottenere credito e rango nella società. Si parla così di self-love, ma non smodato e arrogante:

altrimenti l'individuo non sarebbe ben visto dai suoi simili. L'amore di sé, declinato come corsa alla ricchezza e al potere tesa a ottenere l'ammirazione altrui,

è 'corretto' e indirizzato verso un desiderio di approvazione e di riconoscimento nell'ottica di una vita da spendere in società. Si può sostenere che il desiderio di approvazione assuma la funzione che in Hobbes aveva la paura della morte, con la differenza che in Smith il legame sociale istituitosi

si basa sul reciproco riconoscimento piuttosto che sull'autoconservazione. Il simile non è più un nemico da combattere nello stato di natura, ma piuttosto un rivale nella

corsa all'automiglioramento e colui da cui si attende un riconoscimento del proprio valore. L'uomo descritto da Smith è caratterizzato da una certa lungimiranza, come il Prometeo

hobbesiano, che gli permette di valutare quali siano le condizioni migliori per raggiungere i propri obiettivi. Anche se rispetto al Prometeo di Hobbes non c'è alcuna urgenza o drammaticità: questo

perché l'ansia per il futuro si è trasformata in una paziente ricerca di sicurezza e di miglioramento. Ma anche perché il conflitto con l'altro(ora più rivale che nemico) è diventato semplice

concorrenza e competizione. In ballo non c'è più un'impellente lotta per la sopravvivenza e l'autoconservazione, ma un qualcosa in più in termini di ricchezza e benessere: lo stato ferino è ormai alle spalle. Le passioni acquisitive, in quanto positive e prive di aspetti egoistici, sono regolate dallo stesso individuo, che non ha più quindi bisogno di un intervento coercitivo e

regolatore da parte dello Stato. Il legame sociale che in Hobbes lasciava inalterate la violenza e la distruttività degli individui si

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stesso, regolati da economia e etica. E' questo il periodo di massima affermazione dell'importanza dell'altro come 'altro Io' con cui

interfacciarsi continuamente, in senso negativo o positivo.

Lo scenario cambia decisamente nell'età democratica descritta da Tocqueville in La democrazia in

America, dove la passione acquisitiva assume una configurazione negativa, in grado di allentare

ogni tensione relazionale. Tipico dell'uomo libero è il culto dei godimenti materiali, che passa attraverso le chances di

miglioramento accessibili a tutti: in particolare l'uguaglianza diffusa tra gli uomini alimenta sempre più la passione del benessere. Quest'ultima si sviluppa proporzionalmente al progressivo

livellamento delle fortune personali, coinvolgendo il più ricco come il più povero.

L'uno perché teme di perdere ciò che ha già acquisito, l'altro perché spera di acquisire di più. In questo caso la passione acquisitiva 'dirige' le energie umane verso un'incessante ricerca dei beni

materiali, e questo inevitabilmente finisce per indebolire la volontà dell'uomo, interessato ad un

mediocre perseguimento di piccoli obiettivi. Questo perché lo sviluppo della società democratica, e con essa la maggiore possibilità di tutti a

beneficiare di una discreta ricchezza, porta sempre più al centro dell'attenzione l'importanza del denaro, in grado di determinare il valore degli individui e la loro possibilità di distinguersi dagli altri. Ma in questo caso non c'è più un carattere competitivo nel tentativo di migliorare la propria condizione. Al contrario il bisogno di visibilità e approvazione è provocato dall'indifferenziazione e

dal grigiore dell'età democratica. Tocqueville ci descrive quindi un uomo caratterizzato da debolezza e mediocrità: proponendo

l'immagine di un individuo guidato soltanto dalla passione acquisitiva, il filosofo francese mostra la

sua preoccupazione per un progressivo indebolimento delle passioni. L'Io sembra perdere ogni desiderio di agire. Anche la passione per i beni materiali, in Smith ancora

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guidata da un interesse 'prometeico', si frammenta in un desiderio diventato asettico: tutta colpa

di un eccesso di possibilità che rende incapace l'uomo di una selezione razionale. Inevitabilmente questo moderno ius in omnia finisce per inficiare anche le capacità di proiettare i

propri desideri nel futuro, perché tutto è realizzabile nell'immediato, senza bisogno di alcuno

sforzo o preoccupazione. Di fronte a questo scenario viene quasi naturale chiudersi in se stessi, appartarsi dalla massa dei

propri simili per creare un piccola società indipendente. Ma l'individualismo di Tocqueville ha perso l'aggressività delle passioni egoistiche hobbesiane e

smithiane, che alimentavano un legame continuamente conflittuale con l'altro. Nella sua autonomia, l'individuo è al tempo stesso indipendente e debole, capace di tutto e

schiavo delle sue passioni. La condizione di uguaglianza tra i simili della società democratica

diventa tuttavia essa stessa oggetto di ansia e inquietudine. Perché dentro il livellamento generale ci sarà sempre qualche differenza, seppur minima, che non

può essere tollerata dagli uomini. Una passione dell'uguaglianza significa intolleranza e odio verso ogni privilegio altrui, quindi

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