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Paura, Stato e individuo: uno studio di filosofia politica tra Hobbes e Arendt

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Indice

Introduzione p.2

Capitolo I: Thomas Hobbes

Conoscere Hobbes p.14 Attualizzare Hobbes p.42

Capitolo II: Hannah Arendt

Verso il Terrore p.61 Il Totalitarismo visto da vicino p.95

Capitolo III: L’eredità di Hobbes e Arendt

Sempre più atomizzati, sempre più globalizzati p.107

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Abstract

L'idea di occuparmi del concetto di terrore in relazione alla sfera politica viene da lontano. O meglio, verrebbe da dire, da molto vicino. Perché nel mondo di oggi sembra quasi inevitabile leggere quotidianamente sui giornali o sentire alla radio e in televisione notizie di attentati,

violenze di vario genere ed omicidi commessi nel nome di ragioni politiche. Prima della conquista della ribalta da parte dell'Isis e delle sue barbarie 'in nome di Dio',

l'attenzione dei media era sempre costantemente rivolta al Medio Oriente, ma più focalizzata

sull'ormai quasi secolarizzato conflitto tra israeliani e palestinesi. Una zona del mondo dove il terrore(purtroppo)è di casa: posso dire che per la mia generazione

quella è senza dubbio la zona più 'calda' del mondo. Ma di atti terroristici commessi per

rivendicare 'qualcosa' dal punto di vista politico/identitario sono pieni i libri di storia europei. IRA e ETA: queste le sigle che per prime mi vengono in mente. Lotte fratricide e intestine durate anni, in grado di portare sì a quel 'qualcosa'(soprattutto nel caso dell'IRA), ma attraverso dolorosissimi bagni di sangue innocente. Restringendo ancora di più il campo all'Italia, non si può non ricordare gli anni di piombo e gli

strascichi che questi hanno avuto fino ai nostri tempi. Ogni paese, ogni zona del mondo ha le sue lotte, i suoi demoni politici. Sembra quasi inevitabile

che ad un certo punto alla lotta ideologica si unisca la lotta armata. Come un cortocircuito mentale, che dal normale dibattito di una società progredita ci catapulta

immediatamente al puro terrore di un nuovo(e ancora più temibile) stato di natura. Ecco, l'ho detto: 'stato di natura'. Perché se non mi fossi imbattuto nuovamente in quell'habitat

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un filo logico all'interno della mia intenzione di lavoro. Si può dire che Hobbes mi ha consentito di percorrere il giusto sentiero: una tesi di laurea magistrale che tratti in termini di filosofia politica della paura e del 'terrore', rivolgendo la mia attenzione ad alcuni dei grandi pensatori storia della filosofia. L'idea di lavoro è nata frequentando il corso di Storia della Filosofia Politica tenuto dal professor Paoletti nel 2013-14. Da lì ho preso spunto per dedicarmi ad un particolare ambito del così ampio mondo del terrore: il cosiddetto 'Terrore di Stato', come definito da Adriana Cavarero

nel suo “Orrorismo, ovvero della violenza sull'inerme”. Un concetto declinato in molte forme, nella filosofia politica. L'intenzione del mio lavoro è quella

di studiare come in epoca moderna e contemporanea i governi o regimi totalitari hanno utilizzato

lo strumento della paura politica per governare. Due le figure di riferimento che ho individuato per due epoche così distinte. Thomas Hobbes e Hannah Arendt. Un teorico del terrore come strumento di buon governo il

primo, un'acuta osservatrice delle barbarie perpetrate dai regimi totalitari del novecento la

seconda. Due posizioni molto differenti e due epoche tanto distanti. Hobbes auspicava maggior ordine nella sfera dello stato, in un periodo convulso e drammatico

nella storia d'Inghilterra, caratterizzato da una lunga guerra civile. Dall'altro lato Hannah Arendt aveva vissuto sulla propria pelle la dittatura del terrore e dell'odio nazista, che la costrinse ad emigrare negli Stati Uniti. Due visioni che ci forniscono aspetti assai interessanti di ciò che succede quando la paura entra a far parte della vita politica. Dello Stato come dell’individuo.

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«L'etimologia del termine italiano 'terrore'(...) deve ricondursi ai verbi latini terreo e tremo.

Caratterizzati dalla radice 'ter', indicante l'atto del 'tremare', questi derivano a loro volta dai verbi greci tremo o treo che(...) si riferiscono alla paura in quanto stato fisico. Stando all'etimologia, la sfera del terrore sarebbe dunque caratterizzata dall'esperienza fisica della paura come si manifesta nel corpo che trema.(...) Questa percezione fisica della paura o, se si vuole, questa reazione fisica alla paura, sintomaticamente, non solo allude al movimento, per così dire locale, del corpo che trema, ma allude anche al movimento, assai più dinamico, del fuggire.(...) Largamente accreditata p comunque la connessione etimologica tra treo e pheugo: tremare e fuggire. A ciò si aggiunga non solo la parentela, ancor più evidente, tra pheugo e phobos, ma soprattutto la doppia valenza di phobos che, già in Omero, può significare sia 'spavento' che 'fuga', essendo comunque 'fuga' il suo significato primario. (…) Il punto decisivo consiste, comunque, nella mobilità, per così dire,

istintuale che riguarda l'ambito del terrore. Agendo direttamente su di essi, il terrore muove i corpi, li fa muovere. La sua sfera di riferimento è quella di una minaccia al vivente che cerca di

sottrarsene fuggendo. Tale minaccia si rivolge sostanzialmente alla vita stessa, ossia è una minaccia di morte violenta. Chi è in preda al terrore trema e fugge per sopravvivere, salvarsi da una violenza che mira a ucciderlo».

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La paura oggi

Il percorso di lavoro considera e considererà nel suo svolgimento anche il concetto di 'paura politica'. Un passaggio necessario, da compiere ancora prima di addentrarsi nel concetto di

terrore, quello di analizzare la paura. Perché inevitabilmente i mondi delineati dai due termini si intrecciano continuamente, nel

pensiero dei filosofi che andremo ad analizzare. E perché la paura può essere senza dubbio considerata un primo passo in direzione del terrore

politico vero e proprio. Più ricorrente nel lavoro di Hobbes, un po' in secondo piano nella

speculazione della Arendt. Avere paura significa soprattutto essere vigili nei confronti dei pericoli che la vita (anche quella politica) ci mette davanti. Così, pur consci del fatto che il 'provare' paura politica significa trovarci di fronte ad una grave

violazione della libertà, della ragione e degli altri valori portati in qualche modo alla ribalta

dall'Illuminismo e dal pensiero liberale, al tempo stesso la paura in certi casi può diventare fonte di energia politica positiva. O meglio, un modo per chi osserva da fuori situazioni politicamente

difficili di apprezzare certi traguardi ottenuti dal progresso della società civile. La paura del totalitarismo(guardando ad esempio verso la Corea del Nord) può indurre

nell'osservatore un forte rispetto della democrazia. La paura del fondamentalismo(e qui di esempi ce ne sono fin troppi) fa scaturire amore per la

tolleranza e il pluralismo. In poche parole, se la paura politica arriva a toccarci da vicino è perché una situazione di pericolo 'politico', ancora lontana da noi, rischia di minacciarci e portarci via tutto ciò di cui ci avvaliamo quotidianamente. Altrimenti, in un periodo di crescente disamore e disinteresse per le conquiste ottenute dal genere

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umano nel suo cammino, difficilmente ci preoccuperemmo di certe questioni. Non si tratta di 'nazionalizzare' un sentimento, di ergere uno scudo a protezione della propria

civiltà e delle proprie tradizioni. Ma una reazione quasi incondizionata, quasi irrazionale ed

istintiva che ogni individuo può avere di fronte ad una situazione di pericolo. La paura politica, tuttavia, non può avere solo una funzione positiva di 'guardiana' dei risultati

ottenuti dal pensiero umano a tutela delle libertà individuali. La paura è stata(e sarà ancora nel corso della storia) essenzialmente un'arma, di cui per secoli si

sono serviti monarchi, dittatori ed élite per governare la massa.

Secondo Corey Robin1 ci sono due diversi modi in cui la paura può agire. Nel primo caso ciò che tutti devono temere è in qualche modo deciso 'a tavolino' da leader e

militanti, risultando imposto dall'alto. Sono essi a stabilire quali siano le problematiche più

concrete e «offrono una lettura della natura e delle origini di quelle minacce e propongono il modo

per affrontarle»2. Un oggetto di paura, come lo definisce Robin, può arrivare a dominare l'agenda

politica e diventare argomento di tendenza nell'opinione pubblica dal nulla, improvvisamente.

Anche se non tutti i cittadini effettivamente lo ritengono motivo di preoccupazione. L'altro genere di paura politica individuato da Robin, nasce «dalle gerarchie sociali, politiche ed

economiche che dividono un popolo»3. Un meccanismo creato dalle élite affinché un gruppo

privilegiato possa mantenere o accrescere il proprio potere a discapito di altri. Questo tipo di paura politica «è più intimo e meno fittizio»4, in quanto legato alle diversità e

disuguaglianze riguardanti ricchezza e potere interne ad ogni società. L'esempio portato da Robin, americano, è quello della segregazione razziale vissuta dalla comunità nera e denunciata da Martin Luther King: «I bianchi possedevano un catalogo piuttosto ampio di

1 Corey Robin, Paura, EGEA, 2005 p.18 2

Ibidem

3

Ivi, p.20

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7

paure per mezzo delle quali dominavano i neri» 5. Non obbligatoriamente attraverso l'uso della

forza: la paura poteva, nell'America di quegli anni, trovare terreno fertile soltanto minacciando il godimento di un bene da parte dell'élite titolare del potere. Avvicinandoci ai giorni nostri e restringendo il campo alla vita di ciascun cittadino del terzo millennio, Robin conclude che la più importante paura politica che ognuno di noi ha modo di

sperimentare è quella nei confronti dei 'più potenti'. Pubblici ufficiali, ma soprattutto datori di lavoro privati. «Un buon punto di partenza per indagare

l'uso intimidatorio della paura nell'America contemporanea è il posto di lavoro, perché è lì(...) che la paura produce il suo effetto particolarmente tossico»6.

Sono le pratiche di assunzione e licenziamento, le promozioni e retrocessioni senza regole, la coercizione tra datore e dipendente a creare una nuova dimensione di timore: indispensabile secondo alcuni per alimentare il ritmo di lavoro dell'industria e dell'economia politica

contemporanea. Una visione forse un po' estremizzata, che proviene da una concezione

anglosassone e forse quindi da una cultura esasperata del lavoro per noi europei del sud. Ma che comunque può spingere ad una riflessione. Anche oggi i lavoratori, i cittadini, fanno parte di un grande Leviatano senza rendersene conto?

Anche noi subordiniamo le nostre esigenze, i nostri diritti per rispondere ad una necessità di 'produrre lavoro' che sembra provenire dall'alto? In qualche modo, come suggerito da Robin, la

paura è un'emozione sempre presente. Ed è innegabile che gli Stati, magari anche il più liberale, provino in certe situazioni ad avvalersene

in nome di una precisa strategia. L'importante è che la paura non venga mistificata, cercando

invece di comprendere se vi è un motivo per provarla, per giustificarla.

5

Corey Robin, Paura, op. cit., p. 21

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Spesso, invece, la paura è utilizzata sotto traccia per riorganizzare complesse gerarchie di potere

interne allo stato, per accentuare differenze già molto accentuate in ogni società. Per dirla con Robin, la paura «è amica di ciò che è familiare, le leggi, le élite, le istituzioni, il potere

e l'autorità, è compagna di ciò che è tradizionale, la moralità e l'ideologia»7. La paura è reale, fa parte della nostra vita 'vera'. Se la allontaniamo da noi, spargendovi intorno un

alone di mistero da film dell'orrore, rischiamo soltanto di mistificarla e attribuirle un potere che in realtà non le appartiene.

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Il terrore: origine e sviluppo

Terrore, terrorismo, e poi di nuovo ancora terrore. Quante volte abbiamo sentito questi termini a partire dall'11 settembre 2001? Ormai il terrore è quasi sempre associato alla violenza di matrice

religiosa, in particolare all'Islam radicale. Ma quando nella storia è stata usata per la prima volta questa parola il contesto era ben diverso.

Siamo nel secondo anno di vita della repubblica francese(1793-1794), proclamata dopo la

deposizione e la successiva uccisione di Luigi XVI. Il pericolo, per la Francia, è un'invasione da parte

delle monarchie straniere intenzionate a ristabilire ordine in Europa. Nel rapido susseguirsi di eventi di quei giorni, il Comitato di salute pubblica introduce

ufficialmente il terrore come strumento di governo, per difendere la rivoluzione dai suoi nemici, pronti a una restaurazione della monarchia. Alla fine, la maggior parte delle 10.000 vittime furono soprattutto gente comune legata ad ambienti ecclesiastici, che mai avrebbe potuto rovesciare la Rivoluzione. La follia ideologica si dimostrò in tutta la sua furia: se prima erano stati raggiunti grandi traguardi come la democrazia rappresentativa e l'uguaglianza di fronte alla legge, da quel

momento in poi la Rivoluzione divenne invece più una forza distruttiva che una forza liberatrice. Il regno del Terrore, di cui Maximilien Robespierre fu il principale protagonista, si sviluppò a

partire dalla concezione illuminista secondo cui un ordine sociale precedente può cambiare grazie ad un intervento umano. Chi difendeva i 'terroristi' riteneva che il loro modo di agire fosse

assolutamente razionale, appropriato per la situazione che si era venuta a creare. Giustificato, secondo Marat, dalla possibilità da parte del popolo di usare la violenza 'naturale' necessaria in quel momento per combattere l'oppressione della tirannia.

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Come fa notare Charles Townshend in “La minaccia del terrorismo”8, l'uso del terrore da parte di

Marat, Robespierre e compagni aveva tre obiettivi: vendetta, intimidazione e purificazione. Da quel preciso momento della storia in poi si instaura l'idea che la violenza possa cambiare le

opinioni politiche, ed anche il corso stesso degli eventi: nasce un modello per l'applicazione del terrore da parte dello stato nei secoli successivi. Attraverso intimidazione, trasformazione coercitiva e genocidio, sale alla ribalta il terrorismo di stato. Usando già armi che saranno propri dei regimi autoritari, ma anche di regimi rivoluzionari radicali(come quello bolscevico). Hitlerismo e stalinismo possono essere ritenuti l'evoluzione massima di un percorso iniziato nella Francia di fine settecento, ed essere dunque catalogati come regimi terroristici quasi per eccellenza. Entrambi si sono avvalsi degli omicidi di massa non solo per eliminare oppositori, ma anche gruppi

di persone ritenuti unilateralmente nemici o potenziali minacce. In un primo momento le uccisioni dei nemici erano 'giustificate' per accelerare il consolidamento

del proprio potere, perché attraverso l'intimidazione lo stato 'terroristico' che desidera

configurarsi come totalitario riesce a paralizzare l'opposizione e ad accrescere il proprio potere. Ma la spirale di violenza intrapresa porta successivamente all'accanimento sui civili, a volte per puro sadismo, a volte perché sospettati senza motivo di cospirare contro il governo.

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Il 'Terrore francese': origini ed eredità

Il Terrore fu senza dubbio il momento più tragico della più celebre rivoluzione di carattere politico che l'Europa ha conosciuto. Per la prima volta il terrore 'interno allo stato' si manifestava in tutta

la sua crudezza, come strumento in grado di garantire l'ordine sociale e la sicurezza. Ma si potrebbe sostenere che non si trattasse di niente di nuovo rispetto a quanto scritto un

secolo prima nel Leviatano, la principale opera di Thomas Hobbes. Là dove si descriveva la necessità da parte degli uomini di costituire uno Stato in grado di renderli

cittadini, sotto un potere sovrano, unico, irresistibile e capace di incutere loro terrore. Con Hobbes, come fa notare Adriana Cavarero, il terrore viene inserito per la prima volta «fra le

categorie politiche che strutturano e stabilizzano lo stato»9. C'è un punto di contatto tra il filosofo inglese e Robespierre: per entrambi il terrore è strettamente necessario per fondare uno stato in grado di funzionare perfettamente. Questa concezione durerà fino al momento in cui non comincerà ad affermarsi un modello politico democratico e liberale, che con Montesquieu relegherà il terrore nella sfera del dispotismo. Nel suo lavoro, Cavarero analizza anche la definizione stessa di 'terrorismo di Stato', sottolineando come in molti casi si preferisca parlare di 'terrore di Stato' o 'regime terroristico' visto che sono i governanti e non lo Stato in sé che possono essere definiti terroristi. Ma usare il termine 'terrorismo di stato' può essere una categoria efficace per elencare alcuni casi in cui nel corso della storia la paura e l'orrore sono stati protagonisti. Oltre alla Francia della Rivoluzione, e a Hitler e Stalin, nella lista della Cavarero figurano la Cina maoista e le dittature militari di Cile e Argentina, oltre agli stati a fondamento religioso come la

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repubblica di Khomeini in Iran. In questi stati i leader, dopo aver eliminato i loro avversari politici, si sono sistematicamente dedicati a terrorizzare la popolazione, senza esclusioni: in questo modo tutti i cittadini diventano vittime e potenziali delatori l'uno dell'altro, alimentando, di fatto, un clima di terrore. Merita di essere sottolineato come spesso, accompagnato al terrore di stato,

appaiono termini riguardanti il benessere in senso lato. Di 'Salute pubblica' era il comitato della Rivoluzione Francese che individuava i nemici, 'purghe'

furono definite le punizioni inflitte da Stalin. Questo perché la violenza può diventare in qualche modo una forza rigenerante per lo stato, e

viene intesa nello specifico «come forza rigenerante che affida al terrore un compito di

purificazione del corpo politico dal nemico interno che ne attacca la salute»10 per dirlo con le parole della Cavarero. Il terrore, in particolare nella sua forma novecentesca, perde la sua funzione

coesiva di matrice hobbesiana, portatrice(a caro prezzo) di pace e di sicurezza. Il governante, in preda ad una furia cieca e a tratti delirante, utilizza il terrore come un mezzo di

purificazione per annientare vite spesso innocenti: «il bisogno individuale di sicurezza diventa,

anzi, un sintomo di ostilità, mentre il vivere sotto la minaccia quotidiana alla propria esistenza appare, invece, come un segno di normalità e fedeltà»11.

In questo modo si spiegherebbe perché molti regimi terroristici ritengano la sicurezza del vivere quotidiano un indice di degenerazione: per controllare tutto e tutti è necessaria un'umanità abituata alla subordinazione e al disagio. Spaventata dalla sua stessa condizione di miseria.

10

Adriana Cavarero, Orrorismo, op.cit, p.113

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Razionalizzare paura e terrore

Si possono definire paura e terrore emozioni che di razionale hanno poco, legate come sono alla

sfera della sensorialità: avverto il pericolo ed immediatamente l'animo è turbato. Si può sostenere che paura e terrore siano emozioni 'prepolitiche', ma a conti fatti entrambe sono

sempre pronte ad invadere i confini della nostra civiltà. Presentandosi in forma evoluta, adeguate ai nostri tempi. Come se anch'esse fossero frutto di un preciso cammino, di una storia e di uno sviluppo vissuto di pari passo con la speculazione umana. In questo lavoro, prendendo come punti di riferimento Hobbes a Arendt ci poniamo ai due estremi del vasto mondo della paura politica: dalle sue origini nello stato moderno descritto dal filosofo inglese, allo stato totalitario novecentesco della

pensatrice tedesca di origine ebrea. Attraverso il loro lavoro è possibile scorgere le dinamiche di trasformazione vissute dal concetto

preso in analisi. Hobbes ha sottolineato l'importanza delle componenti politiche della paura, facendo notare come per funzionare questa abbia bisogno di un ben preciso corredo legislativo, pedagogico, educativo. Cogliendo al tempo stesso la funzione 'galvanizzante' di paura e terrore, in grado di ridefinire un

insieme di linguaggi e codici utili a 'cimentare' la civiltà. Il punto più alto(ma al tempo stesso più disumano) raggiunto dall'evoluzione del nostro

argomento di riflessione è senza dubbio quello descritto da Hannah Arendt: il terrore diventa 'totale' ed è frutto di una fede quasi cieca in ideologie e dottrine di odio e distruzione.

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14 Capitolo I: CONOSCERE HOBBES

Una geografia delle passioni e della paura

Vale senza dubbio riportare l'aneddoto che lega Hobbes al tema più importante della sua trattazione filosofica: la paura. Thomas Hobbes nasce il 5 aprile del 1588, un giorno prima

dell'attacco dell'Invencible Armada alla Gran Bretagna. Una battaglia destinata ad essere vinta dagli spagnoli. Un evento che secondo i sapienti inglesi

avrebbe coinciso con l'apocalisse. Anche se alla fine a vincere furono gli inglesi.

“Mia madre era colma di tale paura da dare alla luce due gemelli, me e, insieme a me, la paura”

riporta Hobbes nella sua biografia. Un sentimento che aveva potuto accelerare la nascita del filosofo inglese, nato prematuro, ma

ormai “già da molto tempo oggetto di indagine” dice Corey Robin12. Perché a cominciare da Tucidide a Machiavelli in molti ne avevano già scritto. Ma se Tucidide e Machiavelli avevano descritto la paura solo come una delle determinanti della

vita politica, Hobbes non esitò a farne il principale artefice, il pilastro di ogni Stato che si rispetti. Secondo Robin, l'altra questione portata alla luce da Hobbes, stimolato da un contesto

storico(quello inglese dell'epoca) di guerra ed uccisioni sommarie, riguarda la possibilità di sussistenza di un corpo politico o di una società, quando i suoi membri sono in totale disaccordo.

Così in disaccordo da arrivare ad uccidersi per futili motivi. E Hobbes comincia in quel preciso momento a mettere al centro la paura della morte, visto che

questa “non è l'antitesi della civiltà, ma la sua piena realizzazione”13. Ma prima di affrontare la paura legata alla sfera socio-politica, bisogna effettuare una fermata

12

Corey Robin, Paura, Egea Milano, 2005, p.31

(15)

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preventiva e vedere come il filosofo di Malmesbury arrivi alla paura politica.

Perché il viaggio di Hobbes nell'inquietudine dell'animo umano comincia dalla religione. Nel XII capitolo del Leviatano, dopo aver spiegato i tre elementi all'origine della nascita delle idee

religiose, ovvero curiosità, principio di causalità e supposizione di cause invisibili, Hobbes

argomenta di come le prime due creino l'ansia.

“Infatti, essendo sicuro che ci sono delle cause per tutte le cose che sono accadute fin qui o accadranno in seguito, è impossibile per un uomo, il quale si sforza continuamente di assicurarsi contro il male che teme e di procurarsi il bene che desidera, non essere perpetuamente sollecito del

tempo avvenire”14.

E il “perpetuo timore che accompagna sempre l'umanità nell'ignoranza delle cause come se fosse

nelle tenebre, deve necessariamente avere qualcosa per oggetto. Perciò quando non c'è nulla da vedere, non c'è nulla da accusare per la propria buona o cattiva fortuna, se non qualche potere, o

agente invisibili”15.

Per questo motivo, sostiene Hobbes, nell'antichità alcuni poeti sostenevano che gli dei fossero

stati creati dapprima dal timore umano. La paura è stata la prima causa della religione: un vasto mondo nel quale rifugiarsi di fronte ai tanti

interrogativi apparentemente senza risposta che l'uomo si trova a dover affrontare. Il suo essere un 'animale causale', continuamente in cerca di spiegazioni e continuamente

preoccupato per il tempo a venire, genera ansia(anxiety): questa è incessante(perpetual)ed indeterminata. Si potrebbe definirla un 'male dell'infinito'16, che continuamente rode lo spirito umano, muovendosi di causa immaginata in causa immaginata. L'ansia si trasforma quasi naturalmente in paura, visto che entrambe hanno una radice comune,

14 Thomas Hobbes, Leviatano(a cura di Carlo Galli), Bur, 2011, p.111 15

Ivi, p.113

16

G.Paoletti, Primus in orbe fecit deos timor: religion, temporalité et histoire chez Vico et Hobbes in Que faire de l’histoire? Philosophie et conscience historique au siècle des Lumières, VRIN ETS 2015, p. 101

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ovvero il desiderio di conoscere il futuro. Ma a questo punto la curiosità si è modificata: è carica di timore ed incentrata esclusivamente

sulla conoscenza di cause invisibili. Nel piuttosto ampio e diversificato lessico relativo alla paura che Hobbes utilizza troviamo anche il

termine 'awe', il timore reverenziale, sentimento tipico in ambito religioso che il filosofo inglese

adotta pure in ambito politico. Ad entrare in gioco è anche il 'terror', quando si parla di paura all'interno dello stato civile. La paura stessa ha diverse declinazioni: 'mutual fear' nello stato di natura, 'common fear' nello

stato civile, 'perpetual fear' quando si parla di ansia. Alcuni termini sono equivalenti nelle due versioni, latina e inglese, come anxiety che ha il suo

corrispettivo in anxietas e terror che è addirittura omografo nelle due lingue. 'Awe', invece, è intraducibile. Mentre 'fear' corrisponde al latino 'metus' ma anche a 'timor'. Tutte queste distinzioni e precise scelte terminologiche hanno un ruolo ben determinato

all'interno del quadro del pensiero hobbesiano. Senza dimenticare però che i due ambiti, religioso e politico, hanno punti di contatto. Guardando alla struttura dell'opera, nel Leviatano, non si può non notare come il capitolo sulla

religione(XII) 'confini' con quella dedicato allo stato di natura(XIII). Oltre ad alcune simmetrie di contenuto: alla 'perpetual fear' in ambito religioso corrisponde la

'continual fear' dello stato di natura. In entrambi i casi, inoltre, Hobbes muove da una serie di fattori inscritti nella natura umana, che,

combinandosi tra di loro, danno vita ad una situazione estrema, quasi intollerabile. Perfettamente esemplificata dalla paura reciproca dello stato di natura e dall'ansia da cui nasce la religione. La paura già trasmessa dalla religione alla vita nello stato di natura è destinata a

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Al tempo stesso si può notare come il percorso religione-Stato non sia l'unico compiuto dalla paura. In parallelo, passando da timore di una causa sconosciuta a timore del Leviatano, la paura si

muove anche dalla sfera individuale a quella collettiva. Nel disorientamento dovuto all'impossibilità di conoscere le cause di ciò che non è

immediatamente comprensibile c'è solo l'uomo divorato dall'ansia. Come vedremo a breve, quando la paura diventa 'politica', si lega inevitabilmente alla vita in

società dell'uomo. Che si tratti di stato di natura o di vita in società, infatti l'individuo ha sempre e comunque modo di temere: prima per la sua vita, poi, una volta costituito lo stato, per le possibili

punizioni provenienti dal sovrano. Per Esposito c'è un “primato logico-storico della paura della morte rispetto alla volontà di

sopravvivenza”17: in una ideale classifica di importanza delle passioni nella filosofia hobbesiana, la paura sarebbe sempre e comunque al primo posto. Si può dire che essa sia sempre e comunque all'origine di tutto: “è accompagnata da ciò che l'uomo le contrappone nell'illusione che sia il suo opposto, mentre invece ne è solo la fedele compagna, vale a dire la speranza”18. Hobbes nel De Homine “si lascia sfuggire”, scrive Esposito, che la speranza “nasce dal concepire un male insieme al modo di evitarlo, mentre la paura consiste, incombente un bene, nell'immaginare un modo di perderlo”19. Passando all'ambito della politica, la paura riveste un ruolo ancora più importante. Esposito

sostiene che la paura “non è solo all'origine della politica, ma la sua origine nel senso letterale è

che non ci sarebbe politica senza paura”. Ed in questo, per Esposito come per Robin, Hobbes è il vero innovatore nello scenario del suo

tempo. Secondo lo studioso italiano due sono le brillanti intuizioni del pensatore inglese.

17

Roberto Esposito, Communitas, Einaudi, 2006, p.5

18

ibidem

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La prima consiste nell’aver dato dignità a “ciò che era unanimemente considerato il più

vergognoso degli stati d'animo a motore primo dell'attività politica”20 , al contrario di Cartesio, che esclude l'utilità della paura, e di Spinoza che attribuisce allo Stato la funzione di liberarci da essa. Altra intuizione è quella di aver posto la paura all'origine non di una forma di governo

degenerativa o corrotta, ma dello Stato legittimo vero e proprio. La paura, riporta Esposito, “non è confinabile nell'universo della tirannide e del dispotismo, è anzi

il luogo di fondazione del diritto e della morale nel regime migliore”21. In accordo con Robin, la paura porta con sé una carica costruttiva. Quantomeno nel contribuire ad uscire dalla situazione ferina dello Stato di natura. “Non

determina solo fuga e isolamento, ma anche relazione ed unione(...) E' una potenza produttiva.

Politicamente produttiva: produttiva di politica”22. Ed è per questo che anche a livello terminologico Hobbes non la confonde mai con altri termini: il

terrore, ad esempio, entra in scena solo in un secondo momento, quando al centro della

trattazione c'è la vita all'interno dello Stato. Una precisazione terminologica a cui Hobbes tiene molto, tanto da impiegare una lunga nota nel De Cive per spiegare la potenzialità aggregante della paura in contrapposizione alla disgregazione

portata dal terrore23. Il ruolo positivo della paura è al centro ancora una volta del lavoro di Robin: “La paura non era una

passione primitiva, che attendeva solo un sovrano armato per essere distillata, ma un'emozione razionale e morale, insegnata da uomini influenti nelle chiese e nelle università”24. Con Hobbes la

paura diventa “l'arco di volta della comunanza di un popolo, l'essenza della sua vita associata”25.

20 Roberto Esposito, Communitas, op.cit., p.5 21

ibidem

22 Ivi, p.6 23

Thomas Hobbes, De Cive(a cura di Tito Magri), Edizioni Associate, 2012, p.31

24

Corey Robin, Paura, op.cit, p.31

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La competenza di Hobbes nel trattare una passione tanto importante consiste anche nel cogliere le potenzialità teatrali della paura, approfittando della sua stretta attinenza con pericoli reali. Secondo Robin lo Stato hobbesiano è il primo a 'manovrare' apertamente gli oggetti della paura, a

decidere cosa i sudditi avrebbero dovuto temere e cosa no. C'è un terzo perché sull'ampio uso della paura da parte del filosofo inglese, riportato da Robin. Le tesi di Hobbes servirebbero anche “per sconfiggere le moltitudini rivoluzionarie che si stavano

allora scontrando con la monarchia britannica”26. Come abbiamo ricordato anche sopra, il contesto storico in cui scrive Hobbes è particolarmente

drammatico. La rivoluzione inglese, scoppiata nel 1643 tra le forze del re Carlo I e gli eserciti

puritani 'parlamentari', si concluse nel 1660 con la restaurazione monarchica. In 17 anni 180mila morti, perché avversi al re o al leader puritano Cromwell. “Le tesi di Hobbes sulla paura erano in ampia parte dirette contro l'ethos rivoluzionario dei

guerrieri puritani – riporta Robin – conferendo alla sua analisi un carattere decisamente

repressivo, persino controrivoluzionario”27. Continuando a citare Robin, ed ormai pronti ad addentrarci nel mondo della paura politica architettato dal filosofo di Malmesbury si può tranquillamente sostenere che la 'sua' paura sia “una lucida previsione di come le élite moderne avrebbero dovuto brandire la paura per governare e di come gli intellettuali moderni si sarebbero affidati alla paura per creare il senso di comune missione”28.

26

Corey Robin, Paura, op.cit., p.35

27

Ivi, p.36

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20

Paura 'inter pares': Mutual Fear e Common Fear

Il 'terrore statale' è solo l'ultimo passaggio di un percorso all'interno del vasto mondo della paura

che l'individuo compie, nella filosofia politica hobbesiana. Il percorso comincia dallo stato di natura.

Una condizione in cui regnano sovrani diffidenza e timore reciproco tra gli uomini. Causati principalmente dalla loro uguaglianza, in base alla quale tutto ciò che è permesso al

singolo è permesso anche agli altri. E' lo ius in omnia che ogni individuo può vantare. Che dipende "dal fatto che molti insieme desiderano la stessa cosa, che tuttavia spesso non

possono usare in comune, né dividere"29. In poche parole gli uomini, nella loro condizione naturale, cioè nello stato di guerra, non sono capaci né di attendere da altri la sicurezza, né di procurarsela da loro stessi: il più forte cerca

sempre, tramite la lotta, di accaparrarsi 'ciò che è meglio' per lui. Ognuno è alla ricerca, tramite il proprio ingegno, di una soluzione che possa soddisfare le sue

necessità. Visto che “la natura ha dato a ciascuno il diritto a tutte le cose”30, non può che regnare il caos e il conflitto perenne nello stato di natura. Dalle identiche capacità degli uomini scaturisce quindi un’eguale speranza di poter conseguire gli obiettivi che essi si propongono. Se due individui desiderano la stessa cosa che non possono

ottenere entrambi, allora diventano di fatto nemici. E, per raggiungere il loro scopo e soddisfare il proprio piacere, fanno di tutto per distruggersi ed

assoggettarsi reciprocamente.

29

Thomas Hobbes, De Cive, op.cit., p.33

(21)

21

Una continua lotta, caratterizzata da ansietà, inquietudine e insoddisfazione domina

sostanzialmente tutti gli uomini. La condizione umana in generale, per Hobbes, è basata su un continuo desiderare e orientata alla

soddisfazione del desiderio: si potrebbe quasi definire una vera e propria spirale viziosa, visto che l'oggetto del desiderio umano è l'assicurarsi la realizzazione di una situazione a lui favorevole tutte

le volte che sia possibile. In questa situazione di reciproca offensività, la soluzione di ogni contesa non può che essere l'uso

della forza. Nello stato di natura a farla da padrone è la 'paura reciproca' tra gli uomini. Data la mancanza di un potere comune che tenga a freno le ambizioni di ognuno, tutti gli uomini

sono nemici uno dell'altro. Impossibile sperare di preservare se stessi dalla distruzione con la propria forza: non si pone il problema di chi sia l'uomo più capace, perché tutti hanno le stesse potenzialità. L'uguaglianza si fonda su un fatto 'di natura' molto semplice: ogni uomo è abbastanza

forte per uccidere un altro e alimentare un continuo stato di paura tra 'pari'. La forza bruta domina le relazioni tra gli individui, perché un potere che regoli la vita comune è

completamente assente. La possibilità di una vita sicura appare ancora lontana, visto che solo il

potere sovrano dello Stato può istituire e garantire una situazione di relativa tranquillità. E' in questa occasione che gli uomini dello stato di natura comprendono la necessità di uscire dalla

'paura reciproca', per rifugiarsi nella 'paura comune' attraverso la costituzione dello Stato. Impossibile liberarsi dal giogo della paura: come se si trattasse di un vero e proprio rifugio dalle

incertezze della condizione umana. In questo caso il mantenimento dello stato d'animo di inquietudine verrà garantito e indotto dallo

Stato, attraverso la coercizione, nei suoi sudditi. La 'paura comune' riesce ad unire le opposte entità singole, divenendo al tempo stesso il mezzo

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Per dirla con le parole di Dino Pasini, in 'Paura reciproca e Paura comune' “il valore della sicurezza

della vita, dell'ordine, non solo è posto da Hobbes al di sopra di ogni altro valore, al di sopra della libertà, della giustizia, ma risulta essere il valore primario, onnicomprensivo, con la evidente e scontata conseguenza che questo primato della sicurezza, dell'ordine significa, in realtà, la

dittatura della sicurezza”31.

Il sovrano designato dal popolo impone il suo potere assoluto ai sudditi, in modo tale che si possa quindi parlare di una vera e propria dittatura 'statale' basata sulla paura comune. Rinunciare al diritto su tutto per avere maggiori garanzie sulla propria vita: questo impone la paura comune e il desiderio di abbandonare il terribile stato di natura. Diventa subito palese l'importanza fondamentale che Hobbes attribuisce alla paura: sia essa la paura nello stato di natura, in veste di paura reciproca, oppure la paura dello stato civile, cioè la paura comune. Secondo Pasini la paura, per Hobbes, è la passione fondamentale di tutto il suo apparato

filosofico-politico. Con una doppia valenza: negativa, quando si basa su un odio sterile. Positiva, perché “quando è trasfigurata dalla speranza, allora la paura diventa passione positiva,

costruttiva, fondatrice della società civile e, quindi, della vera umanità”32. Si può anche sostenere che il metus, ovvero il termine latino usato da Hobbes, sia fundamentum

regnorum. Da una situazione di “discordia naturale può, deve derivare una concordia 'artificiale',

una 'istituzione arbitraria', cioè lo Stato, il Leviatano” 33.

L'origine e il fondamento dello Stato è la paura, Hobbes lo sostiene chiaramente. Perché è questa passione, nella sua accezione di 'reciproca', legata sia all' eguaglianza naturale fra

31

Dino Pasini, Paura reciproca e Paura comune in Hobbes, p.518

32

Ivi, p.522

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gli uomini, sia alla loro reciproca volontà di nuocersi, a indurre gli uomini a tentare di uscire da una simile condizione di disagio. Così, la disposizione degli uomini dello stato di natura a sottomettersi, mediante contratto, a un

potere di governo e, quindi, a dar vita ad una società civile nasce proprio dalla paura reciproca. Dunque la paura in questo modo può testimoniare la propria positività, la propria costruttività, la

propria fecondità: essa aiuta gli uomini nel conservare la propria vita. Infatti è solo dalla paura della morte, per la precisione dalla paura della morte violenta, che nasce l'obbedienza a un potere comune e, quindi, allo Stato. Dato l'enorme numero di pericoli di cui gli istinti naturali(e più bassi) degli uomini 'nutrono'

quotidianamente la loro vita, Hobbes sembra sostenere che non ci si può scandalizzare se ognuno cerca di nuocere in qualche modo al suo simile. Infatti, ciascuno è portato alla ricerca di ciò che per lui è positivo. Fuggendo il male, specialmente il summum malum, il massimo dei mali naturali, la morte violenta. L'ordine all'interno dello stato nasce dalla paura, in particolare della paura 'summa' di venire uccisi da altri uomini. Pertanto, Hobbes non ritiene affatto scandaloso né assurdo, né contro la retta ragione che qualcuno si adoperi a difendere e preservare il proprio corpo e le proprie membra

dalla morte e dalle sofferenze. E' soprattutto la paura della morte violenta a svolgere un ruolo preponderante nel mondo

hobbesiano. Ma nell'ambito delle relazioni interpersonali c'è la possibilità, per l'individuo, di

essere anche 'deus' nei confronti del suo simile. Non solo 'lupus': in qualche modo quindi sembra esserci spazio per la solidarietà tra simili. Questo è quanto afferma Hobbes nella lettera dedicatoria che apre il De Cive.

“Certamente, si afferma con verità sia che l'uomo è per l'uomo un dio, sia che l'uomo è per l'uomo un lupo”: nel primo caso, dice il filosofo inglese “se poniamo a confronto dei concittadini”, nel

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24

secondo “se poniamo confronto degli Stati”34. Si può arrivare “ad assomigliare a Dio per la giustizia e la carità, le virtù della pace”. Si può essere lupi invece “a causa della protervia dei malvagi” che costringe anche i buoni a

“ricorrere, se vogliono difendersi, alla forza e all'inganno, alle virtù della guerra; cioè alla ferocia

delle belve”35. Si tratta di una doppia prospettiva tra due poli estremi, ferinità e divinizzazione: il concetto di

'homo homini lupus' è qui applicato ai rapporti internazionali tra le città, ma ben presto si trova a comprendere i rapporti interpersonali nello stato di natura. Senza abbandonare lo sfondo di animalità e di egoismo, la teoria di Hobbes non lascia da parte

dunque tratti di socievolezza, di non crudeltà verso i vinti, di perdono e di amore verso il prossimo. C'è quindi un uomo hobbesiano diverso da quello quasi stereotipato incline solo al conflitto e alla violenza. Il passaggio che abbiamo citato della lettera dedicatoria sembra poter aprire ad una lettura addirittura pre-liberale dell'opera di Hobbes, ad una concezione maggiormente filantropica da parte sua. Perché l'uomo diventi lupo è necessario che scoppi improvvisamente una guerra civile, e che in

qualche modo si scateni la sua 'natura' umana in realtà celata dietro valori di solidarietà. L'uomo lupesco è quindi l'uomo considerato secondo la sua mera o nuda natura, mancante della

razionalità e moralità propria delle leggi naturali, in grado di creare uno stato di pace e civiltà in cui domina la giustizia e in cui gli uomini diventano capaci di cooperare in modo vantaggioso per tutti. Il superamento di questa condizione è ancora una volta garantita dallo Stato: che però, almeno in questo caso, sembra letteralmente inghiottire i germi di naturale bontà umana. Costringendo l'individuo, come avremo modo di vedere, ad una vita triste e grigia.

34

Thomas Hobbes, De Cive, op.cit, p.7

(25)

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Ancora sulla paura: il patto e il contratto

Per uscire dallo stato naturale di disordine e ferinità, dove il rischio concreto è l'autodistruzione, e per passare dalla paura reciproca alla paura comune, è necessario un atto fondamentale: il

contratto sociale. Di fatto anche questo momento è regolato dalla paura, ed è senza dubbio centrale nel pensiero di Hobbes, visto che il filosofo inglese vi sviluppa in merito tesi ed opinioni in

tutte le sue opere politiche(Elements of law, De Cive e Leviatano). Per analizzare al meglio la problematica, è necessario operare una rapida analisi di aspetti giuridici.

Precisando innanzitutto la differenza tra contratto e patto: il primo consiste in un trasferimento di

diritto tra due contraenti, seguito da un'attuazione bilaterale immediata. Nel secondo caso, invece, può essere anche un solo individuo a concedere la propria fiducia

all'altro, senza che questo faccia lo stesso36. Il patto è dunque ancora esposto agli aspetti della paura, proprio per questo suo status in cui non

è garantita una completa e reciproca sicurezza. Il contraente può sempre avere il timore che il suo omologo non rispetti il vincolo, l'obbligo nato al

momento dell'instaurazione del patto stesso37, con la possibilità che sia la paura ad indurre ad accettare un patto. Nel reciproco trasferimento di diritto alla base dell'intesa tra individui, c'è l'obiettivo di ottenere un bene nell'immediato per sé: l'uomo rinuncia o assegna ogni suo diritto,

ad eccezione del più inalienabile. Quale? Il diritto di resistere a chiunque provi ad attentare alla sua vita. Il problema, radicato nella condizione dello stato di natura, è che nessun patto può essere

veramente rispettato: ogni accordo potrà essere valido 'pubblicamente' soltanto nello stato civile.

36

Thomas Hobbes, De Cive(cap.II) e Leviatano(XIV)

(26)

26

Si potrebbe quindi dire che sospetti più che ragionevoli sui patti stipulati tra gli uomini nello stato di natura sussistano sempre. Ognuno è esposto alle passioni, ai desideri e alle inclinazioni degli altri: se un individuo adempie

perfettamente i termini del contratto, l'altro è liberissimo di non farlo. Hobbes sembra capire la debolezza umana, addirittura dissuade chiunque dallo stipulare un patto per primo, in quanto compirebbe un atto che in qualche modo gli negherebbe il diritto naturale di autodifesa38. Il bisogno di uscire da queste condizione di leggi inefficaci e patti vani si palesa

comunque ben presto. L'unica strada da percorrere per salvarsi dalla precarietà degli accordi tra privati consiste

nell'affidarsi ad un potere coercitivo, in grado di costringere tutti gli uomini ad adempiere i patti “per mezzo del terrore di una qualche punizione più grande del beneficio che si aspettano dall'infrangerli”39. Così si passa da un patto privato ad un contratto pubblico o patto sociale, tramite il quale prende vita lo stato civile. Perché questo funzioni non basta però soltanto la concordia né il consenso di molti, così come non sono sufficienti l'unione di pochi o di una grande moltitudine regolata dall'opinione di pochi

individui influenti. L'unica via percorribile per porre rimedio a tutti i mali dell'umanità 'naturale' è

riunirsi in una sola volontà, riconducibile a quella di un solo sovrano. Il trasferimento e la cessione dei propri diritti al garante del superamento dello stato di natura è

sancito dal contratto sociale. Caratterizzato, è bene sottolinearlo, da una nuova passione destinata a scalfire l'animo dei

contraenti: il terrore indotto dalla forza coercitiva del sovrano. Se in precedenza i patti senza la spada erano solo parole40 e le leggi di natura non erano efficaci

38

Thomas Hobbes, Leviatano, op. cit., cap. XIV

39

Ivi, cap. XV

(27)

27

senza il terrore di qualche potere che le faccia osservare 41, adesso lo stato/Leviatano è legittimato dalla potenza e forza che gli sono state conferite e di cui ha l'uso42. Dalla paura di un'umana autodistruzione si passa in un solo momento alla sottomissione ad una

forza irresistibile esercitata dal potere sovrano. Inizia in questo modo una nuova fase dell'esistenza socio-politica dell'individuo, 'schiavo' della

paura della pena inflitta dallo Stato. Ma di terrore parleremo più diffusamente nel prossimo capitolo. In via preliminare è più che mai

necessario comunque fermarsi un attimo a riflettere sull'uso che Hobbes fa nel Leviatano del termine 'terror', che va in alcuni casi a sostituire il ben più diffuso 'fear'. Come abbiamo visto, il terrore “di una qualche punizione” è lo strumento migliore per indurre gli

uomini ad adempiere i patti stipulati. Una punizione più grande del beneficio che gli uomini si aspettano dall'infrangere i loro patti.

Anche nel capito XVII del Leviatano Hobbes ricorda che le leggi di natura hanno di per sé poco

conto senza il terrore di qualche potere che le faccia osservare. E di terrore si parla, sempre nello stesso capitolo, quando il Leviatano viene descritto come forza unificante delle volontà, “che con il terrore di esse(by terror thereof) è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all'aiuto reciproco contro i nemici”43. 'Terror' e 'fear' entrano a stretto contatto nel capitolo VI del Leviatano, quando Hobbes definisce la paura come “avversione, con l'opinione di un nocumento da parte dell'oggetto”44. Poco dopo(Lev,p.58), parlando della paura come base della religione e superstizione, parla di un

altro tipo di timore: il terrore panico. Che consiste in un timore senza apprensione del perché o del che cosa.

41 Thomas Hobbes, Leviatano, op.cit., cap. XVIII 42

ibidem

43

ivi, p.178

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28

Destinato a trasformarsi, con la costituzione dello Stato, in un terrore ben preciso ed indirizzato

verso il sovrano e le pene assolutamente sommarie che questo può comminare. La paura, invece, corrisponde al termine 'metus' nella versione latina delle opere di Hobbes. Nella lunga nota delle seconda edizione del De Cive il filosofo inglese spiega cosa cade sotto il

dominio di 'fear': innanzitutto la previsione di un male futuro e poi “non solo il fuggire, ma anche il

sospettare, il diffidare, lo stare in guardia, il far si di non avere nulla da temere”45 . A 'fear' Hobbes nelle versioni inglesi delle sue opere riconduce tuttavia anche il 'timor' latino, ma i

complementi oggetto legati al 'timere' sono spesso e volentieri 'Deum' e 'leges': 'metus' riguarda

invece soprattutto la paura dell'uomo verso il suo simile. Paura indica quindi un turbamento più forte e accentuato di timore. Che invece ha forse un significato ancora più complesso. Perché, di fronte ad avvenimenti negativi, esso rappresenta un turbamento meno grave della

paura, visto che non comporta manifestazioni visibili di preoccupazione. Il timore è legato a qualcosa o qualcuno che sta al di sopra della condizione umana: la paura è ben

radicata alla vita di tutti i giorni dell'individuo nello stato di natura.

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29

Lo Stato e i sudditi: consenso e paura della pena

A partire dal momento in cui viene costituito lo Stato, Hobbes nega ripetutamente che il sovrano possa essere vincolato, e quindi limitato nel suo esercizio del potere, da qualsiasi forma di patto

con i sudditi. Non si può nemmeno pensare che la sovranità nasca da un patto, altrimenti ne sarebbe

pesantemente condizionata. Un accordo verticale non solo creerebbe obblighi del sovrano verso la

moltitudine, ma automaticamente delegittimerebbe il suo ruolo. Il 'metus rei publicae' è così il collante fondamentale per garantire a tutti ordine e una sicura vita

sociale. Ma il consenso non è sufficiente da solo ad assicurare la vita di una società, in quanto

incapace di mantenere una convivenza pacifica46. O meglio, il consenso è sì comunque importante nel sorgere dello Stato. Però, una volta costituito il Leviatano, non è più abbastanza: occorre il timore delle pene per

tenere a freno gli uomini e i loro impulsi. Per questo motivo il consenso non copre tutto il significato e il contenuto del patto sociale.

Occupandoci di Hobbes bisogna precisare che il consenso di cui parliamo non è certamente di tipo democratico: dopo la creazione del sovrano con il consenso della maggioranza, il dissenziente o

deve consentire, o deve essere considerato fuori dallo stato civile. Se di consenso si può parlare, va fatto comunque in senso 'orizzontale', visto che sono gli uomini

tra di loro ad accordarsi e ad inchinarsi al tempo stesso allo Stato. Al suddito spetta solo un atteggiamento di totale sottomissione e di obbedienza, senza alcuna

possibilità di dissenso una volta che questi abbia in mano le sorti della moltitudine. Quel poco di consenso verticale che esiste, e che riguarda il consenso prestato dai cittadini al

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sovrano, è di fatto sovrastato dalla pura coercizione. Letteralmente spazzato via dal terrore e dalla

massima insicurezza che caratterizza sempre e comunque la vita all'interno dello Stato. Gli uomini, dopo aver fondato lo Stato, non hanno di fatto né strumenti né titolo giuridico per

gestirlo. Tutto è delegato nelle mani del sovrano: dunque anche se l'individuo si è liberato dalla paura dei suoi simili, sotto il peso del Leviatano comprende di essere in una situazione in cui non è

assolutamente libero da rischi mortali. La paura è sempre al centro della scena. Studiando Hobbes e la sua filosofia politica, così

incentrata su paura e terrore, appare evidente il suo scopo ultimo: garantire a ogni essere umano l'autoconservazione, la sicurezza e una vita tranquilla senza turbamenti. Non può che balzare all'occhio comunque la non perfetta integrazione di elementi opposti nel

tentativo di 'armonizzare' il tutto: da un lato Hobbes pensa ad individui felici e sereni, ma al tempo stesso fornisce una realistica descrizione di diversi stati d'animo che certo non garantiscono

felicità. Impossibile trovare una via di mezzo. Lo Stato è totalmente incentrato sulla paura o ne è totalmente libero: si tratta di riuscire ad

inquadrare in che misura Hobbes con il contratto sociale riesca a liberare l'uomo dalla paura e in che misura, inserendolo nello Stato, riesca dargli sicurezza di una vita priva del continuo pericolo

di morte violenta. Se Norberto Bobbio interpreta il passaggio dallo stato naturale allo stato civile come il passaggio

dal timore reciproco al timore comune47, Pasini indica la paura reciproca come ‘anarchica’ e quella comune come ‘organizzata’, perché anche dopo la formazione dello Stato l'uomo si trova

comunque in una condizione non meno carica di disagi, pericoli e paure. La paura reciproca può quindi essere a ragione definita una paura 'sociale', derivante dai rapporti

interumani non regolati dalla legge. In maniera analoga la paura comune può essere qualificata

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come paura 'politica': in essa si racchiude tutto il turbamento provato dai sudditi al cospetto del potere. Verrebbe subito da pensare che tale reverenza di fronte al potere statale possa essere provocata da uno stato dispotico, quale quello 'canonizzato' dalla scuola di pensiero fondata da

Montesquieu. Ma secondo Domenico Fisichella, che in “Analisi del totalitarismo” riprende la distinzione fatta da

Neumann in “The democratic and the Authoritarian State” tra angoscia nevrotica ed angoscia reale, sarebbe quest'ultima a caratterizzare lo stato hobbesiano. L'angoscia reale “partecipa dell'origine stessa dello Stato come potere sovrano”48 ed è quindi presente in ogni forma di governo: nel caso della paura hobbesiana essa risiede nella certezza

della sanzione, una clausola inderogabile al momento della costituzione del Leviatano. Il modo per regolare l'ansia è quindi semplice in teoria, basta evitare tutti quei comportamenti che

vengono proibiti dalla legge. Secondo Cattaneo49 è grande l'impegno del filosofo inglese nel delineare quasi ex novo una

condizione umana che, per garantire la sicurezza e la pace mancanti nello stato di natura, realizza

nello Stato la necessaria sicurezza grazie alla certezza del diritto. Nel modello proposto da Hobbes si potrebbe quindi intravedere una sorta di razionalizzazione

della paura, finalizzata ad un buon governo. Del resto, come sottolinea Hobbes nel capitolo XXVIII del Leviatano, lo scopo della punizione che lo Stato potenzialmente può infliggere, non è certo la vendetta. Bensì un terrore mirato a dissuadere gli uomini dall'infrangere le leggi e a mantenere ordine e sicurezza. Anche per questo la pena ha dei limiti ben precisi, conosciuti da tutti i sudditi.

Si può però individuare un'ambiguità nel sistema roccioso che Hobbes costruisce. Perché in alcune situazioni lo Stato sembra potersi posizionare ben più che sopra le parti.

48

Domenico Fisichella, Analisi del Totalitarismo, G.D’Anna, 1978, p.55

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Quasi come se potesse abusare del potere conferitogli dai cittadini. Come viene descritto nel capitolo XXI del Leviatano, quando, dopo aver chiarito in cosa consistano le libertà dei sudditi, Hobbes dichiara che “non c'è nulla che il rappresentante sovrano possa fare

ad un suddito, con qualunque pretesto, che possa essere chiamato giustizia o ingiuria”50. Quindi un suddito può essere messo a morte arbitrariamente dal sovrano, senza che quest'ultimo

si macchi di un crimine o di una violazione particolare. Il potere politico punisce così, tramite la massima pena, senza timore di essere giudicato da

nessuno: deve risponderne solamente davanti a Dio, quindi su un piano solamente metafisico. Se poi si tratta di uno straniero, allora il sovrano può infliggergli qualsiasi tipo di pena, anche se

questo è innocente. La possibilità di una 'pena sine crimine' fa inevitabilmente scaturire una vera e propria angoscia nevrotica, che va ben oltre la paura reale legittimata dalle condizioni poste sul

piano giuridico al momento dell'istituzione del Leviatano. Del resto, viste le premesse dello stato di natura, era difficile sperare che la condizione di vita

all'interno dello Stato potesse essere comunque di assoluta tranquillità. La condizione dei sudditi è quasi necessariamente miserabile, anche se in altro modo rispetto allo

stato di natura. Ma comunque dura: i cittadini devono considerare tutti gli inconvenienti dello stato civile, tenendo al tempo stesso a mente che ripiombare in una condizione di tutti contro tutti sarebbe sicuramente poco auspicabile. L'oppressione può e deve essere tollerata, visto che gli uomini non considerano che “la più grande oppressione dei governanti sovrani” procede “dalla riluttanza dei sudditi stessi, i quali,

contribuendo mal volentieri alla propria difesa, rendono necessario per i loro governanti trarre da essi quel che possono in tempo di pace”51 per fronteggiare le situazioni di difficoltà.

50

Thomas Hobbes, Leviatano, op.cit., cap.XXI, p.228

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Tutto sommato a Hobbes, il malcontento umano, sembra in qualche modo irrazionale: 'colpa', si fa per dire, della mancanza in molti dei 'cannocchiali' (ovvero la scienza morale e civile) necessarie

per rendersi conto della miseria della condizione umana. L'atto più razionale che l'uomo può compiere è in definitiva rinunciare interamente alla sua libertà.

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34

L'Uomo e lo Stato

Riscontrare un'antinomia nelle teorie di un filosofo è assai plausibile. Ed anche Hobbes sembra avere la sua, all'interno del suo sistema filosofico-politico. Se da un lato troviamo un uomo dotato per natura di diritti illimitati(come descritto nel De Cive),

dall'altro abbiamo uno Stato che ha a disposizione un potere illimitato. Si tratta di due fronti in qualche modo 'assoluti': il primo, individuale, destinato a confluire, a

lasciare spazio a quello individuale-collettivo rappresentato dal Leviatano. In qualche modo le due entità si scontrano, perché lo stato di natura non può restringersi in una

priorità temporale risalente ad un'epoca primitiva dell'umanità, né in una 'estraneità' spaziale, con

gruppi di selvaggi che vivono in un'altra area geografica. Lo stato di natura costituisce una realtà sempre presente nella natura umana, in grado di

coesistere anche con la sovranità, che proprio dallo stato di natura è nata per frenare le pulsioni

autodistruttive umane. La sottomissione al Dio mortale non cancella la natura dell'uomo: non toglie comunque al singolo

il diritto a difendere la sua sopravvivenza con tutte le forze a disposizione. Hobbes fa riferimento da un lato alla sovranità assoluta, indivisibile, padrona dei beni e dei sudditi: nei confronti di questa esige l'obbedienza più completa, così che il cittadino sia letteralmente

'finalizzato' allo Stato. D'altra parte, però, il Leviatano garantisce ai sudditi una sorta di libertà 'innocua', non più

caratterizzata da pericoli reciproci. Uno spazio, il celebre “alveo scavato dalle leggi”, in cui l'uomo può dare adito alle proprie passioni

ed inclinazioni. Un principio di libertà individuale, quasi di stampo liberale ante-litteram. In questo quadro si staglia il diritto di resistenza, che Hobbes ritiene legittimo, giustificando

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situazioni di disobbedienza e azioni di resistenza armata. Nel capitolo XXI del Leviatano Hobbes sostiene che i ribelli hanno la libertà, quindi il diritto, di

unirsi e sostenersi l'un l'altro per resistere al potere del sovrano: alla base di questa teoria c'è il

radicale diritto di ognuno a difendere la propria vita. Una prerogativa che, va sottolineato, viene riconosciuta solamente a chi si oppone in gruppo allo

Stato. Non a chi singolarmente resiste in difesa di un altro uomo, “perché tale libertà(...)è

distruttiva dell'essenza stessa del governo”52. Quello che viene negato al ribelle che agisce per conto proprio è quindi concesso a più persone.

Sembrerebbe una palese contraddizione, un modo per spianare la strada ad un ritorno del caos. E, in effetti, lo è. Ma all'interno della logica hobbesiana è un ragionamento che invece sembra

funzionare. Tornare ad una logica di rapporti unilaterale tra due individui(A aiuta B, ma B può benissimo non aiutare B) sarebbe come fare un passo indietro ai patti privati dello stato di natura. L'aiuto reciproco, all'interno di un gruppo di uomini, è un resistere di molti per autodifesa ognuno di se stesso: un po' come il contratto che ha portato alla formazione dello Stato. Pur di non contraddire la sua filosofia in qualche modo improntata alla forza della collettività,

Hobbes sembra giustificare e configura la possibilità di un nuovo patto sociale all'interno dello

Stato già vigente. In questo modo elabora la premessa per legittimare altre possibili sorgenti della tanto temuta

guerra civile. Così l'uomo viene potenzialmente rimesso nella condizione di disordine e violenza

iniziale, per uscire dalla quale Hobbes lo aveva in qualche modo obbligato a formare lo Stato. In questa nuova potenziale situazione di confusione, non c'è modo di trovare una via d'uscita. E Hobbes non si sbilancia su un possibile esito di un nuovo conflitto all'interno del Leviatano: tutto

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verrà risolto nuovamente dalla forza bruta. Anche se si può intendere che lo Stato assoluto, forte e temibile, possa avere sempre la meglio

sulle forze di sedizione. Ogni tentativo di liberarsi dal terrore, per quanto teoricamente

realizzabile, è quindi vano. Altra questione è quella inerente la libertà di coscienza e di pensiero. Il singolo uomo trova una guida salda, all'interno della sua sfera privata, nella forze della propria

ragione. Attraverso questa egli mantiene un'indipendenza autentica, visto che la sua coscienza e i

suoi pensieri sono liberi da qualsiasi controllo operato dalla legge civile. La scissione tra coscienza personale e doveri esterni, di fronte alla legge civile, permette

all'individuo una ubbidienza formale ai diktat della legge statale. Si può insomma vivere in armonia con se stessi senza preoccuparsi eccessivamente del contenuto

delle leggi da osservare, grazie ad uno 'sdoppiamento' della personalità e alla possibilità di

rifugiarsi nella libertà interiore. Ma lo Stato ha esigenze e prerogative così ampie da essere in grado di invadere e travolgere la

sfera più intima dell'individuo. Lo Stato ha soprattutto l'esigenza di sapere cosa pensano i cittadini: esso è più che mai interessato

a controllare e guidare le opinioni, in quanto queste regolano tutte le azioni umane. Il Leviatano deve quindi esaminare e vagliare le dottrine che si insegnano, deve svolgere azioni

repressive e preventive. Punendo il dissenso e favorendo il consenso, ma anche usando la censura: l'obiettivo rimane favorire la formazione di opinioni 'giuste' in grado di garantire obbedienza e pace. Il controllo delle dottrine operato dallo Stato garantisce che l'insegnamento e l'educazione

siano atte a formare un cittadino convinto dei diritti della sovranità. Un intento totalitario, come lo si potrebbe definire in termini novecenteschi, anima il programma

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La propaganda ha però degli evidenti buchi, se, come abbiamo visto precedentemente, è sempre

possibile che gruppi di persone si riuniscano per cercare di sovvertire il regime. La coscienza del cittadino, invece, è doppia. Una privata, valida nello stato di natura e negli ambiti non coperti dalla legge, ed una pubblica, che

comunque gli appartiene, avendo trasferito i suoi diritti al sovrano attraverso il patto. L'obbedienza alla legge civile non può limitarsi ad un'adesione di facciata, visto che “contro le leggi

sono non soltanto l'azione, ma anche l'intenzione” 53: si può solo mascherare il dissenso. Il conflitto interiore dell'uomo 'statale' descritto da Hobbes appare quindi evidente. Ma ancora una volta la possibilità di condurre una vita tranquilla e apolitica, seppure sotto il

timore delle leggi, ha la meglio su un'esistenza interamente spesa per tutelare i propri ideali ed i propri diritti. Il ricordo del caos nello stato di natura sembra sconsigliarlo caldamente.

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Il problema della rappresentanza e della partecipazione alla vita pubblica

I concetti di rappresentanza e partecipazione possono senza dubbio essere utili ad approfondire il concetto hobbesiano di Stato, anche se nell'opera dell'inglese non ve ne è una trattazione

esplicita. Si può comunque ricavare una serie di elementi che si avvicinano agli attuali studi sulla rappresentanza, visto che Hobbes sembra concedere un certo spazio alle iniziative di ogni

individuo. Innanzitutto si può dire che, vista la particolare formazione dello Stato, le parole e le azioni del

rappresentante(il Leviatano) sono riconosciute dal rappresentato(il popolo). Questo è quanto avviene nel momento della fondazione dello Stato, in cui i contraenti(futuri

sudditi) delegano ogni potere nelle mani del Leviatano. In questo modo la moltitudine di uomini, che precedentemente si faceva guerra nello stato di

natura, una volta affidatasi ad un solo rappresentante diventa una 'persona' a tutti gli effetti. Nell'unità dello Stato la moltitudine riesce a trovare la dignità: ciascuno conferisce la propria

particolare autorità al potere comune. Ma, visto che nel fondare lo Stato i costituenti attribuiscono al rappresentante un'autorità in

pratica senza limite, riconoscono al Leviatano anche la legittimità di tutte le azioni che questo porterà a termine. Così i singoli sono sistematicamente gli autori di tutte le cose che il loro

rappresentante dice o fa in loro nome. Si prefigurano in questo modo le caratteristiche della nuova via stabilita per l'istituzione dello

Stato, in cui la sovranità ha delle basi e delle prerogative assolutamente ben definite. Forse per questo motivo nel successivo capitolo del Leviatano(il XVII), quando si parla di

generazione dello Stato, non viene più messo in evidenza il ruolo dell'assemblea costituente(per definirla in termini moderni) così come invece avveniva nel De Cive.

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Adesso l'autorizzazione è presentata come il patto che ogni uomo stipula figuratamente con l'altro, con la necessità di individuare un'unica figura che sia in grado di riconoscersi responsabile e garante della moltitudine. Il momento politico del De Cive, legato ad una più viva partecipazione popolare, viene dunque

superato a vantaggio di un più formale evento di cessione dei propri diritti da parte del popolo. Il sovrano assomma ora in sé la rappresentanza della totalità dei costituenti lo Stato, accogliendo

dalla moltitudine poteri e forza, così da poter ridurre tutte le loro volontà ad una volontà sola. Da tanti ad un solo: gli individui dapprima dispersi diventano Stato(o Commonwealth), in latino

Civitas. Il sovrano da questo momento in poi viene spesso designato con il termine

“rappresentante sovrano”, e per il suo ruolo costituisce in qualche modo una figura assolutistica,

in termini di rappresentanza statuale. Si potrebbe dire che egli rappresenti quasi un bisogno di unità politica, per contrastare il pericolo

della morte imperante nello stato di natura. Sicuramente il sovrano è la totalità, è lo Stato. Lo Stato stesso può essere considerata una persona, una persona artificiale, costruita ad arte da

Hobbes e da lui pensata in modo preciso ed esplicito già dal De Cive. Nel Leviatano il suo progetto giunge a pieno compimento: lo Stato ha una piena legittimazione e

configurazione giuridica. Se della rappresentanza Hobbes fa uno strumento per concentrare i diritti e la forza di tutti, dall'altro lato sembra che gli uomini vengano completamente esautorati della loro dignità, ridotti quasi a semplici burattini all'interno di un disegno già prestabilito. Tuttavia un modo per 'risorgere' e riappropriarsi di alcune prerogative tipicamente umane,

l'individuo lo ha comunque a disposizione. Da un lato approfittando di qualche contraddizione che Hobbes dissemina all'interno del suo

sistema filosofico, dall'altro sfruttando le necessità pratiche del funzionamento di uno Stato: per quanto centralizzato, c'è bisogno comunque della rappresentanza dei pubblici ministri per

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