Tra il tedesco e l'inglese c'è almeno sicuramente un punto d'incontro, forse due. Il primo è il pessimismo antropologico, la scarsa fiducia riposta nelle potenzialità umane. Il secondo, che quasi direttamente ne consegue, è la necessità di un ordine che salvi l'uomo dai
pericoli dell'anarchia. Schmitt comincia a seguire le orme di Hobbes ufficialmente nel 1938, con la pubblicazione de 'Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes', dove il tedesco
affronta al tempo stesso la sua crisi personale ed il temibile maestro di Malmesbury. In quel periodo Schmitt ha già rotto con il regime nazista, e sembra intenzionato ad intraprendere
un'opera di revisione di alcune sue posizioni assunte negli anni precedenti, apertamente a sostegno di Hitler. Ormai il nazismo non è più in grado di produrre un ordine politico che si dimostri veramente efficace. E lo stesso si può dire, suggerisce Schmitt, del Leviatano. Anche se il suo lavoro di revisione è interamente rivolto a togliere la patina di terrore a tratti totalitario
spesso affibbiata allo Stato architettato da Hobbes.
“La confusione è tanto grande perché Hobbes in realtà utilizza tra diverse ed inconciliabili rappresentazioni del suo 'Dio'. In primo piano sta in evidenza la famigerata immagine mitica del Leviatano. Accanto a questa, egli si serve di una costruzione giuridica contrattuale per spiegare la persona sovrana che viene ad esistenza grazie alla rappresentanza. Inoltre Hobbes – e questo mi sembra il nocciolo del suo pensiero politico . Trasferisce la concezione cartesiana dell'uomo come meccanismo animato a quel 'grande uomo' che è lo Stato, di cui fa una macchina animata dalla
persona sovrano-rappresentativa”55sostiene Schmitt.
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La costruzione del Leviatano, l'utilizzo di un mostro biblico in grado di incutere timore ai sudditi, è “un'idea letteraria e semi-ironica, generata dal buon humour inglese”56. Perché, continua Schmitt, sarebbe una strana filosofia politica quella hobbesiana “se tutto il suo
ragionamento si riducesse solo al fatto che i poveri esseri umani dalla paura totale dello stato di natura si rifugiano nella paura altrettanto totale del dominio di un Moloch o di un Golem. (…) Ad Hobbes interessa soprattutto superare, con lo Stato, l'anarchia del diritto di resistenza feudale, cetuale o ecclesiastico e contrapporre al pluralismo medievale l'unità razionale di uno Stato
centralistico, dal funzionamento calcolabile”57. Per Schmitt il Leviatano diventa la perfetta esemplificazione dell'unità politica razionale dello
Stato, destinata in un secondo momento ad essere distrutta dai conflitti interni. Un procedimento quasi analogo rispetto al percorso svolto dal partito nazista negli anni '30.
“La paura accumulata dagli individui che tremano per la propria vita chiama certamente sulla scena una nuova potenza, ma questo nuovo Dio, piuttosto che creato, è evocato, e pertanto è trascendente sia rispetto ai singoli membri del contratto sia rispetto alla loro somma - afferma
Schmitt - ma la sua trascendenza è tale in senso soltanto giuridico, non metafisico. Perciò la
persona sovrano-rappresentativa non può neppure bloccare la completa meccanicizzazione dell'idea di Stato”, quindi, prosegue il tedesco, “questa persona è soltanto un'espressione della
contemporanea idea barocca di rappresentazione, non di una totalità”58.
Quello che gli uomini ottengono, siglando un contratto, “non è tanto un 'grande uomo' quanto piuttosto una 'grande macchina', un gigantesco meccanismo di sicurezza per la terrena esistenza fisica degli uomini che da quel meccanismo sono dominati e protetti”59.
56 Carl Schmitt, Lo Stato come meccanismo in Hobbes e in Cartesio, in Scritti su Hobbes, Giuffré, 1986, p.51 57
Ivi, p.52
58
Ivi, p.54
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E il meccanismo, secondo Schmitt, non è capace di totalità. Una macchina può essere facilmente 'smontata': nel caso dello stato hobbesiano, attraverso la guerra civile o la ribellione. Possibilità che Hobbes concede, come abbiamo visto, anche se il filosofo inglese sembra ritenere
che in ogni eventuale conflitto intestino lo Stato possa sempre avere la meglio. Del resto, per Schmitt “lo Stato, secondo Hobbes, è soltanto una guerra civile continuamente
impedita da un grande potere”60. La concezione di Stato come macchina, nota Schmitt, è sicuramente innovativa per il tempo ed
estremamente attuale: “che nell'immaginario dell'odierno abitante di una grande città lo Stato sia
concepito come un apparato tecnico, risulta ovvio dal motivo esteriore che l'ambiente della grande città impone alla facoltà rappresentativa del cittadino di orientarsi verso la tecnica, e che la
concezione dello Stato segue senz'altro questo orientamento”61.
In questo modo Hobbes sembra aprire la strada ad un potere statale 'neutralizzato' dalla tecnica, di un sistema studiato per mettere fine alle atroci dispute dei suoi tempi. L'obiettivo dell'inglese, sostiene Schmitt, rimane sempre e comunque superare i problemi della collettività medievale: se prima un diritto di resistenza di stampo feudale o cetuale poteva essere legittimo, ora non lo è di fronte al Leviatano. Perché lo Stato può anche cessare di funzionare e la 'macchina' subire una distruzione a causa
della guerra civile, “ma ciò non ha nulla a che fare con un 'diritto di resistenza'. Questo sarebbe, dal
punto di vista dello Stato hobbesiano, un diritto, riconosciuto dallo Stato, alla guerra civile, e cioè alla distruzione dello Stato, e quindi un controsenso.(...) Ciò che non pone fine alla guerra civile non
è Stato”62.
Tuttavia l'opera mirabile di Hobbes, il Leviatano con il suo potere decisionale, non ha retto al
60
Carl Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, in Scritti su Hobbes, op.cit, p.77
61
Ivi, p.91
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ritorno dei “poteri indiretti della Chiesa e delle organizzazioni degli interessi(...)sotto la forma
moderna di partiti politici, sindacati, gruppi sociali, in una parole come forze sociali”63. Anche e soprattutto nel novecento, con un il nuovo Leviatano che nella visione di Schmitt avrebbe
potuto essere il nazismo. Operazione possibile grazie alle libertà individuali, il 'foro interno' che anche Hobbes aveva garantito nella teorizzazione del suo Stato: “Dal dualismo di Stato e di società libera dallo Stato si
generò un pluralismo sociale nel quale i poteri indiretti poterono celebrare facili trionfi”64. Attraverso religione, cultura ed economia i poteri indiretti hanno lottato contro il Leviatano fino a
distruggerlo. La sfortuna dello Stato mostruoso introdotto da Hobbes, bistrattato soprattutto in patria, è dovuta soprattutto al fatto che in Inghilterra il Leviatano è stato associato stabilmente
all'assolutismo monarchico. Esso “è venuto così ad identificarsi con una politica che, con l'aiuto della nobiltà terriera, aveva
realizzato sul suolo inglese le concezioni continentali(spagnole e francesi) dello Stato”65. L'unico momento in cui l'Inghilterra fu veramente vicina al Leviatano, sostiene Schmitt, ha coinciso con la dittatura di Cromwell, ma “lo spirito inglese è lontano dal decisionismo del pensiero
assolutistico. Il concetto di sovranità dello Stato assoluto, come forma concettualmente 'pura' del potere pubblico e in quanto tale escludente ogni commistione ed ogni bilanciamento con altre
forme di Stato, non ha trovato consensi in Inghilterra”66.
E la stessa sorte è toccata ad Hobbes, perché “il suo pensiero non era più quello di un credente, e così ogni fanatico poté gridare contro il suo 'ateismo' per smascherarlo, ogni delatore poté
accusarlo”.
63 Carl Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, op.cit, p.122 64
ivi, p.123
65
Ivi, p.124
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Proprio questo suo intento di creare attraverso il Leviatano un Dio mortale, terreno e quindi
slegato dalla sfera divina, lo allontana dall'accusa di aver teorizzato uno Stato totalitario. Il Leviatano rimane una costruzione del popolo per il popolo, così da garantire una vita sicura
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Leo Strauss lettore di Thomas Hobbes
Ispirato proprio dal lavoro svolto da Carl Scmitt, Leo Strauss decide di studiare approfonditamente la filosofia di Hobbes grazie alla borsa di studio vinta presso la Rockfeller Foundation. Un progetto che lo porterà definitivamente lontano dalla Germania, per vivere a Londra e
Cambridge, con la possibilità di accedere ai fondi e ai manoscritti hobbesiani. Per Strauss Hobbes è principalmente il fondatore del liberalismo e quindi dell’ideale moderno di
civiltà. Di fronte al panorama ‘di crisi’ portato alla luce dalla critica nietzscheana, il filosofo ebreo- tedesco considera Hobbes il primo ad elaborare una filosofia ‘pratica’, che abbia come missione migliorare la condizione umana. Il primo testo pubblicato da Strauss e dedicato esclusivamente a Hobbes è una recensione di un libro di Zbigniew Lubienski: Die Grundlagen des etisch-politischen Systems von Hobbes del 1932. In esso Strauss sostiene come il presunto assolutismo di Hobbes non sia affatto in contrasto con il suo ruolo di primo filosofo liberale, anzi: la necessità di concentrare tutto il potere nella mani di un
singolo altro non sarebbe che una forma di proto-liberalismo, nella sua forma più radicale. Nel commento al libro di Lubienski, Strauss studia la forma moderna dello Stato attraverso la
ricostruzione storica dei principi della teoria hobbesiana(teoria delle passioni, critica della
religione) intorno al conflitto tra la sfera del ‘politico’ e quella dell’ ‘economico’: la prima fondata sulla vanità, la seconda sulla paura della morte violenta. Un approccio destinato a cambiare in The Political Philosophy of Hobbes del 1936, in cui i principi chiave della teoria delle passioni saranno ritenuti fondativi soltanto della politica, considerando l’economico soltanto un principio morale espresso dalla filosofia politica. Il punto di continuità tra il commento del 1932 e l’importante opera del 1936 è invece segnato dal carattere antitradizionale della filosofia di Hobbes, ritenuto fondatore dell’illluminismo e
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dell’ideale moderno di progresso, precursore dell’utilitarismo. In The Political Philosophy Strauss sostiene con forza il ruolo di fondatore della filosofia politica
moderna di Hobbes, in quanto l’inglese è stato il primo a disdegnare la virtù, non più ritenuta fondamento della vita associativa. Nella teoria politica hobbesiana l’origine della giustizia non ha
sede nella magnanimità, ma piuttosto nella paura, collegata all’eguaglianza naturale. La teoria della natura umana, alla base della filosofia politica di Hobbes, è fondata innanzitutto
sull’appetito naturale, che nell’interpretazione straussiana è definito come diverso dall’istinto animale, in quanto illimitato e indefinito, e per questo all’origine di un desiderio insaziabile e irrazionale di potere. L’impulso è ‘vanità’ e indica il desiderio umano di trovare piacere nella considerazione della propria superiorità sugli altri. Oltre all’appetito naturale, l’altro postulato di Hobbes è la ragione naturale, che afferma il
principio di autoconservazione in quanto paura della morte violenta.
“Non la razionale e perciò sempre incerta conoscenza che la morte è il più grande e supremo male, ma la paura della morte, cioè l’impressionante, inevitabile e perciò necessaria e certa, avversione alla morte è l’origine della legge e dello Stato. (…)Questa paura della morte violenta, prerazionale nella sua origine, ma razionale nelle sue conseguenze, e non il principio razionale
dell’autoconservazione, è, secondo Hobbes, la radice dell’intero diritto e inoltre dell’intera morale. Egli trasse tutte le sue logiche conclusioni da ciò: negò definitivamente valore morale a tutte quelle virtù che non contribuiscono alla costruzione dello Stato, al consolidamento della pace, a
proteggere l’uomo dal pericolo della morte violenta, o, detto più esattamente, egli rifiutò valore morale a tutte quelle virtù che non derivano dalla paura della morte violenta”67
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Spinto verso la vanità, l’uomo perde la consapevolezza del bene primario, ovvero la conservazione
della sua vita, che può riconquistare solo quando vede la sua esistenza in pericolo. Ma l’uccisione dell’avversario non risolve il problema, perché il pericolo della morte violenta si
ripropone ogni volta che si verifica un confronto con gli altri uomini: da lì scaturisce la necessità di trovare una soluzione pacifica per ‘regolare’ lo stato di natura. Nella visione straussiana, la paura di essere uccisi, intesa come origine della legge e dello Stato,
assume un significato che si potrebbe definire morale. Il fondamento della filosofia politica di Hobbes consiste così nell’antitesi tra ingiusta vanità e giusta
paura della morte violenta. Per Strauss gli ideali della filosofia hobbesiana possono essere definiti ‘borghesi’: l’uomo deve
riconoscere la propria condizione precaria senza illusioni, solo così può comprendere che l’unica
soluzione alla sua precarietà è l’autoconservazione. La morale di Hobbes ha un tono utilitaristico, che fonda lo Stato sulla pace e la sicurezza, interna
ed esterna, che permette benessere e libertà di arricchimento personale. Le condizioni per l’esercizio dell’interesse della classe media sono rese possibili esclusivamente dall’obbedienza ad un potere politico super partes: il principio individualistico su cui si fonda lo Stato invita i cittadini ad impegnarsi nella vita di tutti i giorni per mantenere saldo il proprio status.
“La filosofia politica hobbesiana è diretta contro le norme della vita aristocratica in nome delle norme della vita borghese. La sua morale è la morale del mondo borghese. Anche la sua tagliente critica della borghesia non ha, in fondo, nessun altro scopo che quello di ricordare alla stessa borghesia la condizione elementare per la sua esistenza.(…) Per questa ragione il potere sovrano deve essere ammesso come potere senza restrizioni, capace di disporre anche della proprietà, perché è solo a questa condizione che il potere sovrano può realmente proteggere la vita dei sudditi.(…)Hobbes preferisce gli orrori dello stato di natura alle false gioia della società. Hobbes
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preferisce questi terrori dello stato di natura perché solo sulla consapevolezza di questi errori può basarsi una vera e stabile società. L’esistenza borghese che non ha più da tempo esperienza di questi terrori durerà solo fino a quando avrà ricordo di essi”68
Si può dunque ritenere che la paura della morte violenta, in quanto origine della legge e dello Stato, sia una forma di autocoscienza che rappresenta con particolare acutezza il problema del ‘politico’ sollevato da Schmitt contro la tradizione liberale. Ma che rappresenti anche il problema della controversa identificazione tra individuo e comunità, tra interesse privato e interesse pubblico: lo Stato nasce da un patto che, per eliminare l’incertezza dello stato di natura, trova fondamento nelle passioni e nella ragione umana.
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Hobbes nelle guerre civili del '900
Leggere alcuni eventi drammatici della storia del ventesimo secolo attraverso il pensiero di Thomas Hobbes. Questo il tentativo di Jonathan Glover nel suo “Humanity-Una storia morale del
ventesimo secolo”, a partire da uno studio hobbesiano sulla guerra in Iugoslavia degli anni '90.
Due gruppi 'tribali', come i serbi e i croati, che si affrontano “allo stesso modo in cui due uomini
facili all'ira vengono alle mani dopo lo scontro fra le loro auto”69. I conflitti tribali raramente esplodono. Anzi spesso, secondo Glover, sono i politici ad alimentare
l'ostilità attraverso la loro retorica nazionalistica. I gruppi potenzialmente rivali sono dunque spaventati l'uno dall'altro, nel timore che la pace possa
rompersi da un momento all'altro tramite un intervento militare unilaterale. E, sostiene Glover, proprio in questo modo si cade nella 'trappola' della paura hobbesiana. Ovvero quando due gruppi rappresentano ciascuno una minaccia potenziale per l'altro e la paura
reciproca che ne consegue dà ad entrambi un motivo per colpire per primi. E' la paura hobbesiana a generare il “nazionalismo difensivo-offensivo”70negli stati balcanici. La manipolazione, da parte dei politici, del tribalismo etnico-religioso porta ad una situazione
esplosiva e ad un conflitto che si rivelerà drammatico. Tutto comincia nel 1991, con la dichiarazione unilaterale di indipendenza della Slovenia,
riconosciuta dalla comunità internazionale e alla fine anche dalla Serbia, potenza egemone nei Balcani. Contemporaneamente la Croazia si dichiara unilateralmente indipendente, e da qui
cominciano i problemi. Visto che la Croazia non era etnicamente omogenea, la Serbia interviene a tutela della minoranza
serba nel paese.
69
Jonathan Glover, Humanity, Il Saggiatore, 2002, p.162
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Ne nasce un conflitto che dopo disumani episodi di 'pulizia etnica' si conclude con il riconoscimento dell'indipendenza della Croazia e l'espulsione della minoranza serba.
Ma la guerra continua e tra il 1992 e il 1994 si sposta in Bosnia-Erzegovina dove musulmani, serbi e croati si scontrano sanguinosamente violando spesso e volentieri i più basilari diritti umani. Per mettere fine all'atroce strage si arriva nel 1995 alla firma della pace a Parigi, che determina un
precario equilibrio dell'area tutelato dalla massiccia presenza dei militari delle forze Nato. Il compromesso raggiunto garantiva l'integrità territoriale della Bosnia, divisa tra una parte serba
ed una musulmana, ma non cancellava certo i rancori di stampo etnico alimentanti in quegli anni. Per quella tragica situazione creatasi Glover biasima l'Onu per non essersi comportato da
'Leviatano della comunità internazionale', comminando pene esemplari di fronte alle continue
violazioni dei diritti umani messe in atto dalla Serbia. “Sarà difficile persuadere i governi ad accettare una simile proposta, ma la creazione di un
Leviatano è l'unico modo per imporre al mondo intero il rispetto della legge”71. Senza gli strumenti per imporre il rispetto delle norme vigenti, la trappola hobbesiana della paura
potrebbe colpire nuovamente, con effetti ancora più catastrofici. Una situazione analoga si è vissuta per anni in Irlanda del Nord, fa notare Glover, dove cattolici e
protestanti hanno guerreggiato per anni, incitati all'odio da interessi politici. Ricostruendo la storia di quest'area, si può dire che tutto inizia nel 1922, quando con la nascita della Repubblica d’Irlanda, sei contee del Nord dell’Irlanda(Atrim, Armagh, Down, Fermanagh, Londonderry e Tyrone) restano parte integrante del territorio della Gran Bretagna, anziché essere incluse nell’Eire. La vera esplosione del conflitto avviene negli anni ’60, quando l’ondata di
rinnovamento sociale e culturale diffusasi in tutti gli Stati occidentali, investe anche i giovani cattolici nord-irlandesi che, in minoranza, venivano discriminati all’interno del proprio Paese e
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rivendicavano l’unione all’Eire . La comunità cattolica inizia così a chiedere sempre più
insistentemente l’aiuto dell’Ira(Irish Republic Army),che in quelle circostanze sembrava essere la
sola forza in grado di proteggere i cittadini cattolici dalle violenze della polizia. A partire dal 1968 e per i successivi venti anni, i disordini infiammano le strade delle sei Contee,
contrapponendo, da una parte, l’Ira e, dall’altra, l’Uvf (Ulster Voluteers Force) e la Ruc(Royal Ulster Constabulary) . All’inizio degli anni ’70 il governo di Londra decide l’invio dei militari inglesi con l’apparente compito di riportare l’ordine ed il controllo, ma l’effetto sortito è esattamente contrario. Sono gli anni degli scontri più violenti, degli scioperi della fame che portano alla morte di 10 detenuti in seguito alla decisione della Gran Bretagna di abolire lo status di “prigioniero
politico” per i detenuti paramilitari, sono gli anni degli attentati dell’Ira. Il 30 gennaio del 1972 l'episodio più noto: la ‘Bloody Sunday’, giornata in cui la polizia uccide
brutalmente a Londonderry 13 manifestanti cattolici. Nel 1992 inizia, finalmente, il processo di
pace e così, tra sporadici scoppi di violenza si giunge all’accordo di Belfast del 10 aprile 1998. E' l'Accordo del Venerdì Santo, che porta alla pacificazione delle due comunità nord-irlandesi. In casi come questo, in cui un piccolo stato è frantumato da rivalità intestine e divorato dalla paura reciproca, tra diverse fazioni dello stesso popolo “la soluzione ideale consisterebbe
nell'incoraggiare una certa tolleranza dell'ambiguità”72 argomenta Glover. Si tratterebbe in pratica di rinunciare ai confini rigidamente delimitati di uno stato nazionale,
all'idea che ogni pezzo di territorio debba per forza appartenere ad un paese o all'altro. “La nascita di stati nazionali dai confini 'morbidi' sarebbe l'espressione di una politica mirante ad adattare lo stato alla gente, anziché imporre alla gente di adattarsi allo stato”73 chiosa Glover.
72
Jonathan Glover, Humanity, op.cit, p.175
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