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L’Arte dei battiloro e degli indoratori

Tiraoro e battioro avevano sede comune a San Stae; la loro Scola dell’arte risale

al 1711, ma non è noto l’anno di costituzione di questa corporazione. Non si conservano nemmeno gli statuti tardomedievali né le mariégole quattro-cinquecentesche in volgare41. Rimangono, tuttavia, alcune testimonianze dell’esistenza di alcuni documenti che regolavano l’attività dell’arte: in una “memoria” del 1700, il gastaldo dell’arte dei tira e

battioro fa esplicito riferimento al frontespizio miniato della loro mariégola, mentre, in

un inventario dei beni di un artigiano di metà Cinquecento, viene elencata fra i libri di bottega una copia della mariégola dei batiori.

Nella “memoria” del 1700, il gastaldo ricorda che, prima del 1596, l’arte si chiamava dei battioro a foglia42, i cui addetti “principiavano, continuavano e

terminavano il suo lavoro sempre in piano”, modellando “un pezzo di piastra d’argento indorata da una parte sola; battevano e ribattevano col martello quella piastra, sinché la riducevano come foglia sotile et poi tagliavano essa folgia con le forbici e così tagliato minuto l’oro e l’argento si dava da filare”. In quell’epoca, fu introdotta da maestranze

presumibilmente di area germanica la lavorazione in tondo, in seguito all’introduzione di macchinari a ruota: si avvolgeva il pezzo arrotondato di argento grezzo (chiamato bolzon) con l’oro. Il rapido affermarsi di questa tecnica causò un’importante contrazione fra gli addetti alla produzione a foglia, molto più costosa, i quali, ridotti a una decina di maestri, furono autorizzati, nell’ottobre 1596, a unirsi in un’unica arte con i tiraoro. Invece, la produzione delle sottili lamine battute divenne prerogativa di un’altra corporazione (XVI secolo), quella dei battioro da sfogio o battioro alemanni (originariamente l’arte era costituita da artigiani provenienti dal Trentino o da territori di lingua tedesca: come preciserà il loro gastaldo, “fu sempre costume dell’arte nostra di ascrivere

indifferentemente il suddito e l’estero, costume forse ereditato dai primi componenti l’arte stessa che furono alemanni”). Questa corporazione rimase autonoma fino alla

soppressione nel 1807.

Nella seconda metà del XVIII secolo, la consistenza numerica di quest’arte era piuttosto ridotta: nel 1782 si registrano undici capimaestri, tredici lavoranti e un solo

41 Pietro Lucchi, “L’arte dei tira e battioro: sulle tracce della mariégola perduta”, in Con il legno e con l’oro, Cierre edizioni, 2009.

42 La grande codificazione scritta delle arti conserva anche tracce dell’evoluzione linguistica dei nomi delle stesse.

garzone. Il gastaldo dell’arte imputerà questa decadenza al variare del gusto nelle decorazioni e alla contrazione nei tradizionali canali d’esportazione, causata “dall’introdotto genio delle miniature e vernici, dal perduto commercio con l’isola di

Malta ed altre del Levante, dalle diminuite commissioni di specchi con dorate cornici per Lisbona, Cadice ed altri porti di Ponente, dall’estinta professione de cuoridoro che provedeva a circa battiargento numero 20”.

Ad alcune fasi della produzione partecipavano anche donne, come testimonia la deliberazione del 4 gennaio 1758, con cui l’inquisitor alle arti Polo Querini, dispone che “per l’avvenire tutte le donne ch’entrassero di nuovo nell’arte sudetta de battiloro e non

fossero figlie de capi maestri” fossero esentate e che “in riflesso al lavoro solito farsi da esse, non possano esser mai tansate più di lire 2 all’anno quando non arrivassero ad esser capaci di esercitarsi col martello”43.

Originariamente le arti de battiori a foggia e tiraori e battiori a tassetto (piccola

incudine), poi confluite nell’unica corporazione dei tira e battioro con scuola, erano

distinte. Della corporazione dei tira e battioro con scuola facevano parte anche i mercanti

da oro, che commercializzavano il prodotto finito. Gli artigiani iscritti a quest’arte

producevano i sottilissimi fili d’oro, o d’argento dorato, che venivano utilizzati nella fabbricazione di tessuti e passamanerie: “tirar per trafila e a cilindro li bolzoni d’oro e

d’argento formati e sazzati nella pubblica Zecca, per ridurli al filo inserviente ai drappi, galloni ed altre manifatture”44. Sul finire del XVIII secolo, i tira e battioro registrati erano trecentoquaranta, con quarantasei botteghe attive.

Nell’archivio della Milizia da mar si registra anche la piccola corporazione dei

partioro (costituitasi alla fine del Seicento), che impiegavano per la loro attività carbone

e macine (masene). Avevano il compito di fondere l’oro e l’argento.

Altre fonti per l’epoca tardo medievale e rinascimentale sono lo statuto degli addetti (suprastantes) al controllo sulla produzione di manufatti in oro e in argento e il

capitolare dei soprastanti all’arte della foglia d’oro, un organo con funzioni di controllo

sulla produzione e non corporazione di mestiere. I capitolari dei massari all’oro e dei

soprastanti alla foglia d’oro offrono preziose informazioni riguardo la produzione e gli

43 Si vietava la vendita a forestieri delle schiave che avessero appreso il mestiere, i quali “per condurle in

li suoi paessi per far il mestier in le sue terre il ditto mestier le strapagano”; ASVE, Provveditori in zecca,

reg. 7, cap. XXXVIII.

accordi fra i commercianti e gli artigiani. Tali accordi dovevano essere registrati nell’ufficio dei Provveditori di comun, al fine di “schivar scandoli et li errori che occorre

tra li marcadanti che fa far il mistier della fogia dal oro con li soi lavoranti et fanti che lavora del ditto mestier”45.

Altri documenti ricchi di utili indicazioni sono gli inventari compilati in caso di eredità giacente o successione: in uno dei più antichi, redatto nel 1527, dopo la morte di Elisabetta, vedova di Marco a Serena, fra i beni immobili viene citata “una casa in contrà

de San Marcuola, zoso del ponte dal Axedo appresso el forner, in la qual se affina oro”46. Da un altro inventario si comprende quanto l’utilizzo di metalli preziosi semilavorati fosse diffuso nella confezione di tessuti. Tale inventario riporta una lista degli oggetti rilevati nel 1528 nella bottega del defunto Francesco Bono, ubicata nella contrada di San Bartolomeo: sede grosse, sede crude da oro e da oro sotil, 26 braza di panni d’oro e otto

di panno d’argento, 9 libbre e mezzo di oro e argento filadi, 2 anchuzeni (incudini), 16 martelli da batioro, dieci crogiuoli (“corezuoli da scolar arzento”), “2 canali da gitar arzento” e “più pexi de fero per el mestier”47.

Risalente al 17 settembre 1529, un altro inventario, redatto dal notaio Francesco Blanco, dei beni del defunto Alvise Negro (“Aloysii Nigri indoratoris”), descritto anche come depentor, arte di cui gli indoradóri erano uno dei colonelli48. Del 1530, l’inventario

45 ASVE, Provveditori sopra la giustizia vecchia, Provveditori in zecca, b. 7, Capitolario, cit. capitolo 9. 46 ASVE, Cancelleria inferiore, Miscellanea notai diversi, b. 34, n. 30, inventario redatto il 13 febbraio 1526 more veneto (=1527) dal notaio Lodovico Blanco “nomine suo et aliorum commissariorum nominatorum

in ultimo testamento dicte quondam domine Helisabethe”.

47 ASVE, Cancelleria inferiore, Miscellanea notai diversi, b. 34, n. 59: “Inventarium rerum et bonorum

quondam domini Francisci Bono ab auro de confinio Sancti Bortolamei”, redatto dal notaio Francesco di

Zorzi il 4 luglio 1528.

48 Gli indoradóri o doradóri, ossia quelli artigiani che applicavano la foglia d’oro o d’argento su altri manufatti, non ebbero mai una corporazione autonoma, ma furono sempre uno dei colonelli dell’arte dei

dipintori, e, nel 1773, contavano trentacinque botteghe. All’arte dei dipintori appartenevano anche i

miniatori (miniadori), i fabbricanti di maschere o scudi (mascareri o targheri) e di pannelli di cuoio decorato (cuoridoro) e i disegnatori di stoffe. Nel 1682, si staccarono da quest’arte i pittori veri e propri, i cosiddetti pittori di figure. Il mestiere dei doradori ebbe un discreto sviluppo nella Venezia di età tardo barocca, con trentatré botteghe attive. Anche i doradori erano sottoposti alla prova d’arte che consisteva “pei doratori ho saputo da uomini vecchi – testimoniava Agostino Sagredo a metà Ottocento – la prova

aver consistito nello apparecchiare ingessate due strisce di legno, una piana, concava l’altra, intagliate, con ornamento, nel raschiare il gesso, indorarle e pulirle” (Sagredo, Sulle consorterie). Dal Tassini, “La prova di maestranza pegli Indoratori consisteva nell’apparecchiare due strisce di legno intagliate con ornamenti, l’una piana, concava l’altra, raschiarle quindi dal gesso, indorarle e pulirle”. Ma è scarna la

documentazione sull’attività di questo colonello, dal momento che non si costituì mai in corporazione autonoma. Tuttavia, il Cicogna tramanda l’esistenza della seguente iscrizione: ARCHA DELLA SCUOLA DELLI DORATORI RESTAURATA L’ANNO MDCLVI (Emanuele Antonio Cicogna, Delle iscrizioni

veneziane, il quale aveva letto sul pavimento della chiesa di San Luca, rifatto nel 1834-35, un’altra

del battioro Crapht Rot, di origine germanica, che aveva bottega a San Lio. Di notevole interesse storico e linguistico, è l’inventario dei beni del defunto Alessandro di Gelo

quondam Sansonetto, alla cui redazione avevano concorso due battioro, Lorenzo di Gio.

Battista da Firenze e Bernando di Bartolomeo da Brescia. Fra i libri de botega inventariati, ossia le scritture contabili e i fascicoli processuali manoscritti, va segnalata “la copia della mariegola et scriture de batiori, ligate a uno”.