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Traghetti e vigaròli

Ancora ai tempi della dominazione napoleonica a Venezia, i canali erano molto più numerosi di adesso e i primi ponti tra le varie isole furono costruiti a partire dal IX secolo, molto più tardi quindi rispetto alla data della presunta fondazione mitica della città nel V secolo. Per passare da una riva all’altra di un canale ci si serviva di barche, oppure, nel caso il rio fosse sufficientemente stretto, di ponti improvvisati con tavole mobili.

Dalle testimonianze dei cronisti emerge che, anticamente, qualsiasi mezzo di transito su acqua veniva considerato traghetto, termine che indicava, come riportato dal Boerio, il “passaggio da una all’altra riva del canale”. Con tale termine si intendeva, e s’intende tutt’ora, sia il posto di stazionamento della barca sia il servizio stesso di traghettamento. I traghetti potevano essere da viaggio (collegavano Venezia a Mestre, Treviso, Padova, Portogruaro e Vicenza) oppure da bagatin (per i cittadini che volevano spostarsi all’interno di Venezia).

Fu a partire dal XIV secolo che i traghettatori decisero di consociarsi in fraglie e di darsi uno statuto. La prima mariégola conosciuta è quella del traghetto di S. Sofia, risalente al 1348).

Furono i traghettatori a “inventare” il trasporto urbano: a differenza delle carrozze di terraferma di uso esclusivo padronale, le barche da traghetto avevano orari e tariffe ben definiti ed erano a disposizione di chiunque ne facesse richiesta. Effettuavano un servizio pubblico da vòlta, secondo un orario giornaliero, o da nolo, su richiesta del passeggero. Del primo traghetto si ha traccia su documenti ufficiali a partire dall’anno 1293: si tratta del traghettum Sancti Benedicti. Vengono poi i traghetti di S. Barnaba (1298), S. Sofia (1348), S. Felice, S. Stae, S. Marcuola (1349), S. Tomà (1354), S. Lucia (1374), della Pietà (1390), S. Geremia (1393), S. Gregorio (1400). La maggiore concentrazione di traghetti si aveva sul Canal Grande, dal momento che in quel periodo era, fino oltre Rialto, il porto commerciale di Venezia. Infatti, lungo le rive di Rialto, che conservano tutt’oggi il nome delle merci che vi giungevano (riva del vin, del carbon, de l’ogio) e lungo le quali erano dislocati i fonteghi più importanti, erano posizionati gli stazi dei traghetti de fora, ovvero di quei traghetti che assicuravano i trasporti con le città della terraferma, attraverso la rete fluviale interna.

Il prezzo del traghettamento era originariamente concordato tra colui che offriva il servizio e chi ne faceva richiesta; in seguito venne fissato dalle varie fraglie e solo nel

1577 lo Stato intervenne per fissare una tariffa: da allora in poi, lo Stato legifera in merito ad assunzioni, vendita e numero di libertà. La libertà poteva essere concessa soltanto a chi avesse compiuto i trent’anni e avesse servito, quale barcarolo di casada, per almeno quattro anni. Ogni traghetto, in base al numero delle sue libertà, doveva fornire un certo numero di galeotti (uomini da remo per le galere pubbliche), così come doveva fornirli l’Arte degli squeraroli.

I barcaroli – solo più tardi, quando la gondola diventa l’unica barca da traghetto a Venezia, saranno chiamati gondolieri – non possono portare armi durante il servizio, né giocare a carte, devono assicurare a turno il servizio notturno e devono prestare giuramento di obbedienza e pagare una tassa alla fraglia a cui appartengono.

Saranno poi la costruzione di ponti in pietra e l’interramento di alcuni canali a far scemare l’importanza di questa rete di trasporti su acqua, fino a ridurla al minimo. Oggi sopravvivono solo alcuni traghetti ed è presente in città una ventina di stazi per gondole da guadagno, riservate quasi esclusivamente ai turisti.

I battelli da traghetto facevano capo a Chioggia e si usava più spesso definirli batèi

da Vigo, e i quattro vogatori che li conducevano erano definiti vigaròli, ben noti per essere

bevitori assidui, bestemmiatori e forti vogatori. La loro mariégola, del 1517, prevedeva che le barche fossero “bone et sufficienti per ogni tempo de fortuna et ben fornite de soi

remi et vella”. Nel 1784 furono censiti centosettantuno vigaròli. I traghetti persero di

importanza con l’arrivo a Venezia del primo vaporetto della Società veneta di navigazione

lagunare, ma ancora nei primi anni del XX secolo c’era un ultimo battello, di un certo Barba Cencio salàdo, che faceva il viaggio giornaliero per Venezia, partendo da

Chioggia.

Le barche di uso cittadino portavano al massimo due remi nel loro normale esercizio, e la conduzione a un solo remo non richiedeva particolare sforzo fisico39. La sola eccezione era costituita dalla peàta, una grossa imbarcazione da traporto40 che richiedeva ai peatèri di maneggiare i remi più grandi che un remèr potesse costruire. Si trattava di una voga a due remi, detta voga a la valesàna (a Venezia) o voga a remi in

crose (fuori Venezia), condotta da un unico uomo di equipaggio.

39 La tecnica della voga alla veneta si differenzia dalle altre perché il vogatore è in piedi, con i remi appoggiati nei tipici scalmi chiamati fórcole. L’uso di un solo remo si era reso indispensabile a Venezia per la ristrettezza dei canali.

CAPITOLO V

TOPONOMASTICA VENEZIANA

V.1 Storia della toponomastica

La storia della toponomastica inizia con le origini di Venezia, nel IX secolo, quando l’isola di Rialto, sulla riva sinistra del Canal Grande, cioè dalla parte opposta dell’insula Rivoalti di insediamento posteriore, impose il proprio nome (già testimoniano nell’819) all’aggregato urbano che finì per chiamarsi civitas Rivoalti, sinonimo di civitas

Veneciarum.

In questa prima fase, di fondamentale importanza per indicazioni certe e stabili, vi erano gli edifici di culto; dopo la metà dell’anno Mille, la città venne suddivisa in circoscrizioni territoriali corrispondenti alle parrocchie, che rimasero settanta fino all’età napoleonica, lasciando denominazioni che sono sopravvissute alla chiusura e alla demolizione delle rispettive chiese, ovvero fino all’editto napoleonico del 1806. Dello stesso periodo è l’origine dei toponimi comuni di Venezia: calle (il latino callis, “sentiero”, è documentato già nel 1039), fondamenta (striscia di terreno tra le case e un canale, testimoniato nel 1078), rio (dal latino rivus, testimoniato sempre nell’XI secolo), piscina (laghetto dove stagnavano le acque, solo più tardi interrato; il termine resistette anche dopo gli interramenti giungendo fino ai nostri giorni), campo, campiello,

campazzo, (XII secolo), corte, ruga1 e rughetta (strade di media larghezza fiancheggiate da case e botteghe), salizada (strada fra le prime a essere selciata; deve il proprio nome al fatto di essere tra le prime strade a essere stata selciata, cioè lastricata da pietre, i masegni; prima di venire selciate, tutte le vie della città erano di terra battuta), ramo (piccolo angolo di calle che spesso mette in comunicazione due strade, oppure un campo; talvolta non ha via d’uscita), rio terà (canale interrato; molti rii furono interrati nel corso dell’Ottocento; al di sotto spesso vi scorre ancora l’acqua dell’antico canale).

Dal 1100 in poi, per una più precisa individuazione dei luoghi, le vie di terra e d’acqua presero il nome da botteghe e attività lavorative, chiese (che, in genere, davano il nome al campo antistante), famiglie patrizie, osterie, locande, fondachi e teatri. Molti luoghi portano il nome “della Madonna” o “del Cristo” per la presenza, attuale o nel

1 Dal b. lat. ruga e rua, dal class. Ruga, ‘crespa’, che più tardi deve aver preso il significato di strada; Ottorino Pianigiani (1845-1926), Vocabolario etimologico della lingua italiana, Roma, 1907.

passato, di capitelli o tabernacoli; molto frequenti sono i nomi derivanti dalle botteghe e dalle attività artigianali più popolari (Forner – si incontra 13 volte, Forno – si incontra trenta volte, Pistor - 10, Magazen – 20, Malvasia - 18, Spezier - 11, Caffettièr – 11, Tintor,

Calegher, Pignater, Marangon, Remer2). Invece, è raro trovare a Venezia toponimi che derivino da nomi propri, a meno che non siano riferiti a personaggi della storia recente (l’unica via di Venezia è Via Garibaldi).

Nel tempo si verificarono alcune mutazioni nella toponomastica, talvolta per iniziativa popolare, altre per decisioni governative, altre ancora per la modificazione dei luoghi: per esempio, l’abbattimento di una casa isolata comportava la sparizione di quattro calli.

L’attuale numerazione progressiva dei sei sestieri (Cannaregio, San Marco, Castello, Santa Croce, San Polo, Dorsoduro) fu introdotta sotto il dominio austriaco nel 1841; una prima suddivisione in sei parti era stata fatta già nel 1170, a fini tributari e amministrativi; la numerazione per sestieri comportò la semplificazione degli indirizzi, con l’abbandono, sempre più frequente, del nome della calle, campiello o fondamenta, in quanto il numero civico si accompagnava al solo nome del sestiere3.

Dopo l’annessione di Venezia al Regno d’Italia nel 1866, sono avvenute alcune innovazioni nella toponomastica, perché si volle che fossero ricordati alcuni nomi del Risorgimento, ma solo come sovrapposizione a nomi già esistenti e che non hanno fatto presa nell’uso popolare. Ad esempio, la Via Vittorio Emanuele continuò a essere detta Strada Nova.

Importanti innovazioni avvennero nel 1889, dopo il lavoro decennale di una commissione municipale. Ma esse trovarono riscontro nell’uso solamente se la nuova denominazione corrispondeva a una concreta trasformazione anche nella topografia, oppure se si sovrapponeva a nomi generici, come pistor, malvasìa, forno, o ancora quando andava a sostituire i nomi poco graditi come Calle sporca e Calle delle Scoazze. Le

2 G.P.Nadali, R.Vianello, Calli, campielli e canali, Helvetia Editrice, 2015.

3 Esistono due tipi di numerazione civica: a “stradario” e a “insulario”; la numerazione civica a “stradario” prevede che l’indirizzo sia composto dal nome della strada (specie – via, calle, campo, fondamenta, campiello, salizada, piscina - e denominazione) e dal numero civico. La numerazione civica a “insulario”, invece, utilizza l’indicazione del Sestiere o della Località, accompagnata dal solo numero civico. L’indicazione del Sestiere o Località è prioritaria rispetto all’indicazione dell’onomastica dell’area di circolazione, anche perché aree di circolazione con lo stesso nome possono essere presenti in Sestieri diversi, o addirittura ripetute nello stesso Sestiere; “Organizzazione della numerazione civica nel comune

cessioni a privati di calli cieche e di corti e le varie demolizioni di edifici hanno fatto sparire molti nomi.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si decise di riformare la toponomastica, tentando di ricondurla alle forme dialettali del passato; ma questa iniziativa ha trovato molta resistenza a causa dell’italianizzazione che il dialetto ha subito dopo l’unità d’Italia: si dice San Giovanni e Paolo e non più San Zanipolo; si usa Greci e non Greghi, San Giuseppe e non Sant’Isepo.