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Dialogo sul remo di Cristoforo Canal

Cristoforo Canal fu ammiraglio italiano nel XVI secolo. Fu autore di una profonda riforma della marina da guerra veneziana, che prevedeva l'impiego dei condannati sui banchi delle galere. Fu autore dell'opera in quattro volumi “Della Milizia marittima, libri

quattro, di Cristoforo Canal gentiluomo veneziano”, edito per la prima volta nel 1930 a

cura di Mario Nani Mocenigo. Due copie di questo manoscritto sono conservate nella Biblioteca del Museo Correr. Il testo fu scritto dal Canal attorno al 1553-1554. Si tratta di un trattato scritto sotto forma di dialogo tra un ristretto gruppo di persone che discutono i problemi legati alla marineria. Lo stile è colto ed erudito. La cornice scelta per l’ambientazione della vicenda – durata quattro giorni – è quella di palazzo Cappello a San Lorenzo, a Santa Maria Formosa. I quattro interlocutori sono Vincenzo Cappello, un vecchio generale ormai morente, Marc’Antonio Corner, senatore impegnato nella diplomazia, Giacomo Canale, zio di Cristoforo, e Alessandro Contarini, valoroso uomo di mare (quest’ultimo è sepolto nella basilica del Santo a Padova. È proprio Contarini a paragonare la galea ideale a “una giovane leggiadra la quale in tutti i suoi gesti dimostri

prontezza e vivacità et sia tutta snella, ma non però che non tenga una parte di convenevole gravità”. Il testo fornisce poi indicazioni su misure, forme e materiali di ogni

parte della galea, e così del picciol (la cabina degli ufficiali), del focone (la cucina), della

chiesuola (dove sono custoditi gli strumenti nautici) e della pavesata (che protegge lo

scafo nella parte di sopracoperta). Viene successivamente affrontato il tema del

palamento, ossia l’insieme dei remi della galea: “Io vorrei inoltre che il palamento cioè i remi fossero più sottili di quello che usiamo noi et con la pala più picciola (come a punto li usano li ponentini33) et dalla parte di dentro detta il zirone, che è il terzo della lunghezza del remo, con le loro galaverne (che come sapete sono quelle due bande di legno che si conficcano l’una di sotto et l’altra di sopra di detto zirone più o meno grosse secondo che fa di mestiero di peso per giustare il remo a cui son poste) senza che faccia di bisogno di tenere, come fanno li nostri, alquante libbre di piombo fitto nel collo di essi remi per dar loro il giusto contrapeso, senza il quale niuno per gagliardo che fosse non

potrebbe longo spario adoperarli. […] poiché la sottigliezza et la picciolezza delle pale rende i remi più leggeri et conseguentemente affaticano meno i galeotti, oltre che durano più perché la sottigliezza fa che più si piegano, ne’ così facilmente nel mandar la voga si condannano o si rompono come i grossi remi con grosse pale li quali impediscono ai galeotti il piegarsi et causano che si rompono”. Il legno più adatto per la produzione di

remi più sottili ed elastici, continuava il Contarini, era quello di faccio34, o, in alternativa, quello d’acero (che però tendeva ad assorbire acqua e ad appesantirsi), la cui disponibilità, però, si andava sempre più limitando: “Vorrebbero appresso essere i remi più tosto di fò

che di aere (o faggio o acero come dicono i toscani) perché il fò è di gran lunga più forte tanto che meno condannabile al mare dell’aere, il quale sebbene è più pieghevole, essendo, nondimeno men forte, riceve in sé l’acqua et gonfiandosi in processo di tempo diviene molto più greve, oltre che vi sia di questo legno maggior penuria che dell’altro benché le nostre galere usino i remi di quello contra il parere anco del nostro Fausto35, il quale ha prudentemente anco pensato che i remi si possono fare anco di abete et di larice o una parte di uno et l’altra dell’altro o vero tutti d’un solo”. In circostanze

estreme, infatti, si potevano demolire le case e utilizzare le travi di abete e di larice per fabbricare i remi: “Perché se bene per la natura del legno, questi non si agguagliano di

fortezza a quelli di fò o d’aere, tuttavia nei bisogni sarebbon di grandissima utilità, percioché avvenendo alle volte che mancasse la maniera di fabbricarli, in cotai accidenti non mancharebbono le travamenta delle case”. Questa parte del dialogo si conclude con

un altro intervento del Contarini sul problema di come sia meglio disporre i remi quando la galea è ferma o procede sotto vela. Contarini propone di fornellare36 i remi con le pale

alte sopra il mare, e paragona la galea a un grande uccello con le ali spiegate: “Vorrei in

oltre che questo mio palamento si fornellasse tutto sopra la coperta della galera, che diciamo noi propriamente quando i remi si fermano alti dal mare et fanno parere la galera quasi un uccello che apra e stenda l’ali”.

Nessuno dei quattro interlocutori vivrà il tempo sufficiente per vedere quanto sarebbe accaduto a Lepanto (1571), la più grande delle battaglie navali tra navi a remi, che segnò tuttavia l’inevitabile inizio del loro progressivo abbandono.

34 Retroformazione dall’it. [faggio]: si tratta di un’ipercorrezione; il dialettale fò è esito regolare dal lat.

fagus: fagus > *fago > *fao > fò.

35 Vettore Fausto, umanista del XVI secolo, ideatore della quinquereme.

I due metodi fondamentali di attrezzare il palamento erano quello alla sensìle e quello alla galòzza, detto anche a scalòccio. Il primo metodo fu abbandonato alla fine del XVI secolo e consisteva nel disporre tre remi di lunghezze scalari (pianèro, postìzzo,

terzìcio) su ciascun banco, con un galiòto che vogava su ciascun remo. Il metodo alla galòzza prevedeva invece un solo remo per banco manovrato da una équipe da due a sei

uomini, dei quali solo quello che impugnava l’estremità del remo era un vogatore di mestiere, che regolava il tempo e il movimento, mentre gli altri erano condannati o prigionieri di guerra. Questi remi erano più massicci di quelli impegnati nel palamento

alla sensìle ed erano per questo dotati di una particolare maglia laterale per le diverse

impugnature, detta galòzza. Il movimento dei rematori sulla galea si diceva a monta e

casca, e si arrivava a circa ventitrè palate al minuto.

La tradizione della grande voga a remi ebbe una battuta d’arresto dopo la fine definitiva delle galee e fu ripresa più tardi nella prima Vogalonga, una regata con imbarcazioni a remi non competitiva che si tiene a Venezia nel mese di maggio37. Al giorno d’oggi persistono alcune imbarcazioni governate a remi, quali il sàndolo38, una barca a fondo piatto che si può considerare la barca di base della laguna veneta, la

disdotóna, una gondola da parata spinta da diciotto rematori (in dialetto veneziano, disdòto) e la caorlìna, un’imbarcazione a fondo piatto, con la prua e la poppa uguali e

rialzate, governata da quattro o sei rematori, originaria, come dice il nome stesso, di Caorle, un tempo terza isola del dogado dopo Venezia e Chioggia.

37 La voga agonistica dei Veneziani vanta la storia più antica.

38 Sàndolo o sàndalo, dal lat. sandalium, calzatura, che richiama la forma piatta del fondo della barca. Il Boerio lo descrive come “battello assai leggero usato da’ Cacciatori nelle valli dell’Estuario”. In uso nella laguna veneta dal 1292. Col termine non ci si riferisce a un’imbarcazione specifica, ma a una tipologia di barche; per esempio, un tipo di sàndalo è il sàndolo da barcariol, una barca verniciata di nero destinata al trasporto dei turisti. Stesso termine si trova anche in altri dialetti settentrionali [sandón] a indicare i mulini natanti: erano gli scafi che sorreggevano la ruota del mulino; cfr. Temanza (1705-1789), “super sandonos”, ‘sopra barche’; cfr. G. B. Gallicciolli, Delle memorie venete antiche, profane ed ecclesiastiche, Appresso Domenico Fracasso, 1795, “sandon de molin”, padovano. Cfr. M. Cortelazzo, L’influsso linguistico greco