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Il mestiere delle Impiraresse

Alla fine dell’Ottocento, a Murano, apre la più grande fabbrica di perle di vetro: la Società Veneziana per le industrie delle Conterie. Le conterie erano infilate in mazzi dalle impiraresse. Il termine impiraressa viene fatto derivare dal verbo in dialetto veneziano impirar, infilare, a sua volta da piròn, forchetta. Quest’ultimo termine viene fatto derivare dal gr. peronion, che indicava un arnese simile a una forchetta. Leggenda narra che un doge veneziano avesse sposato una principessa bizantina di lingua greca. Al pranzo di nozze sarebbero state presenti, appunto, queste forchette a due punte.

Le impiraresse lavoravano generalmente presso il loro domicilio e, durante la bella stagione, era possibile vederle davanti all’uscio di casa, lungo le calli, riunite in gruppi (a fare bozzolo), con la stessa pettinatura, il cocòn raccolto sulla nuca, intende a infilar perle e a sprotare (chiacchierare) o cantare, riempiendo le vie di Venezia delle

ciacole delle done. Le impiraresse erano assoldate dalle mistre, le intermediatrici che

ricevevano le perle dalle conterie di Murano e le portavano alle impiraresse affinché le infilassero e ne producessero dei mazzi per la distribuzione commerciale. Le impiraresse versavano le perle, distinte per colore, nella sessola24, una scatola di legno con fondo curvo, e le infilavano negli aghi, sottilissimi fili d’acciaio lunghi 18 cm e di diversa grossezza a seconda delle perle da infilare.

24 Dal lat. sextula, sesta parte di un’oncia; variante regionale di ‘sassola’, sia arnese a conca per svuotare l’acqua entrata nelle imbarcazioni, sia strumento utilizzato per setacciare la farina.

L’Impiraressa Marisa Convento al lavoro nel suo negozio in Calle della Mandola, a Sant’Angelo, nel sestiere di San Marco: sta sistemando il ventaglio di aghi che poi andrà a infilare nella

sessola

Le perle venivano fatte scivolare lungo un filo di lino (le sedète, da seda, seta, a cui il filo somigliava): “da una parte il filo viene passato per la cruna degli aghi, si fa un

nodo e si attortiglia il capo, (se fa un gropo e se intorcola el cao) e dal lato opposto si unisce la fine della matassa, formando una specie d’occhiello detto asola”25. Gli aghi, da 40 a 60, si tengono a nella mano destra, disposti a formare la palmeta, ovvero un ventaglio

25 Irene Ninni, L’Impiraressa: The Venetian Bead Stringer, BEADS: Journal of the Society of Bead

che viene immerso rapidamente nella sessola. Quando il ventaglio è riempito di perle, si ottiene un’agàda. Due agàe formano un marin, che conta 40 filze, cioè 40 fili di perle. L’unione di più marini genera un mazzo (generalmente 240 fili): “quando l’impiraressa

ha finito il primo marin forma, sulla stessa longa [la matassa aperta lunga due metri], un laccio detto galan, ne ricomincia un altro, e così via fino al termine della matassa, la quale porta a un dipresso dieci agae cioè cinque marini. Con le forbici allora, taglia il galan, ne attortiglia i due capi, facendo un picciolo detto manego del marin. Talvolta vi unisce del filo argentato ed allora si chiama marin inarzentà”26. Successivamente, l’impiraressa lega assieme (fa il coleto), con un filo rosso, una data quantità di fili secondo il numero richiesto. Si dice colana quando il coleto tiene insieme cinque fili di perle. Si chiama giardineto l’unione di marini di colori diversi.

Il mazzo di perle

26 Ibid.

Il mestiere dell’impiraressa era uno dei lavori a domicilio meno pagati (il ricavato del giorno bastava appena per comprare il pane), con uno sfruttamento della manodopera a basso costo, che iniziava fin dall’infanzia: “Meschino è il guadagno delle impiraresse

pensando alla fatica materiale di queste poverette, che dall’alba a tarda ora di notte stanno sedute con la sessola sulle ginocchia, e non ricavano che una lira al giorno. Senza contare che spesse volte all’estate no i mete fogo, cioè nelle fabbriche non accendono le fornaci ed allora manca ad esse il lavoro. L’impiraressa veneziana ha la ferma convinzione, che lungi di qui, dove si spediscono le perle, i ricchi si valgono dell’opera sua, disponendo i mazzi e i marini in lunghi festoni nelle loro sale, sostituendoli ai quadri, alle tappezzerie e ad ogni opera d’arte. Oltre che lavorare in casa, vi sono scuole apposite per le giovani impiraresse, dove la direttrice, la mistra, non soltanto insegna alle sue allieve, ma anche le paga”27.

La maggior parte delle impiraresse lavorava a Castello. La motivazione è da ricercare nelle mutate condizioni politiche della città di Venezia dopo l’invasione di Napoleone. Quando arriva Napoleone, chiude le scuole dei mestieri e le confraternite religiose, mentre fa dell’Arsenale il proprio cantiere. Agli arsenalotti non rimane che collaborare coi dominatori, oppure dedicarsi a piccoli lavori. È quello che fanno le donne, che diventano impiraresse.

Le impiraresse potevano essere da fin (si occupavano dell’infilatura delle perle più piccole), da fiori (infilavano le perle, senza servirsi degli aghi, direttamente su fili di ferro che poi modellavano per ottenere fiori e foglie) o da frange, che hanno un ampio utilizzo negli anni venti del Novecento.

Le impiraresse furono anche partigiane e tenaci sostenitrici dell’emancipazione femminile, come dimostra lo sciopero del 1904 guidato da una certa Angela Ciribiri. Alle

impiraresse si devono alcuni canti di lotta, come quello raccolto nel disco “La donna nella tradizione popolare” (1978) a cura di Luisa Ronchini: “Semo tute impiraresse”28.

27 Ibid.

28 Sono venuta a conoscenza di questo testo grazie alla cantautrice veneziana Angela Milanese e alla raccolta di canzoni e leggende veneziane “Un bocciolo di rosa. Storie, misteri e canzoni per Venezia”, Azzurra Music 2015, un cd-book nel quale le canzoni di Angela Milanese e del contrabbassista Maurizio Nizzeto, si intrecciano ai racconti dello scrittore Alberto Toso Fei. Nella raccolta è presente una rivisitazione raggae del tradizionale “Impiraresse VS Anguelanti”, con il contributo di un’icona della venezianità moderna: Sir Oliver Skardy (da www.angelamilanese.com).

Semo tute impiraresse semo qua de vita piene tuto fògo ne le vene core sangue venessiàn. No xè gnente che ne tegna

quando furie diventèmo, semo done che impiremo e chi impira gà ragion. Se lavora tuto il giorno come macchine viventi ma par far astussie e stenti

tra mille umiliasiòn. Semo fìe che consuma dela vita i più bei anni per un pochi de schei che no basta par magnar.

Anca le sessole pol dirlo quante lagrime che femo, ogni perla che impiremo

xè na giossa de suòr. Per noialtre poverette

altro no ne resta che sbasàr sempre la testa

al siensio e a lavorar Se se tase i ne maltrata

e se stufe se lagnemo come ladre se vedemo a cassar drento in preson. Anca le mistra che vorave tuto quanto magnar lore co la sessola a' ste siore su desfemoghe el cocòn!