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L’ASCOLTO TRA QUADRO NORMATIVO E PRASSI

2. L’ascolto e la norma

Vengo al problema, ovvio e conosciuto, costituito dall’ascolto di questo soggetto che dovrebbe essere condotto in modo particolare al fine di ridurne l’insita debolezza testimoniale e,

tenendo conto del fatto che il suo ascolto non avviene nel vuoto, ma nel contesto giudiziario con il coinvolgimento dei relativi protagonisti e dei loro diritti. L’art. 111 della Costituzione assicura all’imputato una serie di garanzie (il giusto processo, il contraddittorio nella formazione della prova, il confronto con l’accusante) che non sempre vengono rispettate. L’acquisizione della testimonianza del minore, per il modo in cui in troppi casi si procede all’ascolto, è un preoccupante esempio di come la prassi possa travolgere anche diritti costituzionalmente riconosciuti. Da tempo sono state elaborate linee guida, protocolli, modalità di ascolto idonee a garantire il rispetto del benessere del minore senza per questo ledere i diritti fondamentali dell’imputato. La Carta di Noto ne è un autorevole esempio. Il codice deontologico degli psicologi e le linee guida dello psicologo forense oggi vincolanti (Cass., SS.UU., 11 aprile 2002, n.

8225, Silvestro) hanno chiaramente delineato diritti, doveri, limiti e responsabilità delle figure professionali che intervengono nell’ascolto.

In particolare, la degenerazione sembra aver interessato l’istituto dell’incidente probatorio;

le considerazioni che si leggono sulla Rivista del Consiglio, aprile-giugno 2008, dell’Ordine Avvocati di Milano a proposito della riforma organica del codice di procedura penale sono eloquenti: «Va riaffermato il dibattimento come luogo naturale di formazione della prova; si deve contenere la possibilità di ricorso all’incidente probatorio, in controtendenza a una prassi volta a dilatarne l’impiego in funzione di una sorta di preformazione a rate della prova; limitare in modo rigoroso l’utilizzabilità dei suoi risultati in dibattimento e prevedere in tale fase l’assunzione originaria della prova, quando possibile: è infatti da tutelare il valore dell’immediatezza tra formazione della prova e giudice della decisione (fondamentale per propiziare una decisione giusta) e da salvaguardare l’effettiva partecipazione della difesa al contraddittorio per la prova, assai problematica nell’incidente probatorio. Anche l’udienza preliminare nella sua fisionomia riformata va riesaminata per verificare se agisca effettivamente da filtro contro le accuse infondate o se sia un pletorico passaggio verso il dibattimento con la reale funzione di preformare la prova. Il dibattimento va tutelato contro l’acquisizione sempre più invasiva di prove preformate (nelle fasi anteriori o in altri procedimenti, o tramite il mezzo documentale, che pure va disciplinato in modo più rigoroso in modo da contrastare usi disinvolti di questo mezzo di prova). Si deve rinvigorire la disciplina dell’esame e del controesame per presidiare il ruolo delle parti nella formazione della prova (punto decisivo del modello processuale dialettico) e scongiurare sovrapposizioni del giudice, lesive della sua terzietà, oggi di espressa previsione costituzionale».

Ricordo che nella maggior parte dei paesi europei e negli Stati Uniti il minore viene sentito in dibattimento, ovviamente con le dovute precauzioni, più o meno simili a quelle contenute nell’art. 498, comma 4, del nostro codice di procedura penale. Ma le regole posta dall’art. 498 soffrono molte eccezioni che portano ad un ribaltamento della titolarità della conduzione dell’esame che viene assegnata non più alle parti ma all’organo giurisdizionale.

La prima eccezione è contenuta nello stesso art. 498 cpp in materia di esame testimoniale del minorenne che si propone di salvaguardare questo soggetto dai presunti effetti pregiudizievoli derivanti dall’intervento diretto delle parti nell’escussione probatoria. La violazione del diritto al confronto con la fonte di prova, viene risolta con l’attribuzione di questo diritto al presidente al quale viene affidato il ruolo di «garante e servizievole speaker dell’accusa e della difesa» (Cordero) o di

«filtro diretto a facilitare l’assunzione dell’esame nel rispetto delle regole» (Cass., 14 gennaio 2003, n. 1048, Marasco).

In via di principio, il legislatore attribuisce al presidente – che si può avvalere dell’ausilio di un familiare del minore o di un esperto in psicologia infantile – il potere – dovere di condurre l’esame del minorenne sulla base delle domande delle parti, ferma restando la possibilità, in corso d’opera, di ristabilire la regola della conduzione diretta alle parti e, successivamente, di revocarla sulla scorta della situazione in concreto verificabile per quanto concerne il bilanciamento tra le contrastanti esigenze richiamate (art. 498, comma 4, cpp).

Si tratta, in ogni caso, di una disciplina macchinosa e poco funzionale in cui il giudice, non informato sui fatti, dovrà condurre l’esame su domande delle parti secondo l’ordine dell’art. 498, comma 2, e 496 cpp, con le eventuali contestazioni. Esiste, tuttavia, anche se come

ipotesi residuale, la possibilità che le parti conducano direttamente esame e controesame. Una volta che il presidente abbia sperimentato, conducendo di persona l’esame, che il teste in relazione alla natura della materia trattata, sia in grado di sopportare l’esame diretto, potrà disporre con ordinanza la prosecuzione dell’atto nelle forme ordinarie.

Non è questa la sede per approfondire un tema di questo impegno anche se interessa da vicino l’argomento di cui stiamo parlando. Mi limiterò a richiamare alcuni punti fondamentali.

Premesso che il diritto al confronto è un diritto fondamentale costituzionalmente garantito, occorrerebbe chiarire, in caso di deroga, quale sia la giustificazione per una sua compressione nel caso in cui questo diritto riguardi il confronto con un teste “vulnerabile”.

«La nozione di equo processo implica la possibilità per l’imputato di essere messo a confronto con i testimoni alla presenza del giudice che si pronuncerà nel merito delle accuse e ciò al fine di permettere a quest’ultimo di formarsi un’opinione circa la credibilità dei testimoni fondata su un’osservazione diretta del loro comportamento sotto interrogatorio (principio dell’immediatezza)» (Corte EDU, 10 febbraio 2005, n. 10075/02, Graviano).

Come ha autorevolmente ricordato Ronald Dworkin401, una volta che un ordinamento si sia assunto la responsabilità di garantire al cittadino un diritto “fondamentale”, tale diritto va rispettato, con la conseguenza che ogni sua successiva limitazione basata su un potenziale conflitto con l’”interesse pubblico” è giuridicamente, oltre che politicamente, inaccettabile402

Ma anche il questo caso, si dovrebbe procedere ad un bilanciamento dei rispettivi diritti ricorrendo a modalità di conduzione dell’esame non semplicemente ablative del principio del contraddittorio.

. Una limitazione di un diritto fondamentale non potrebbe comunque, in nessun caso, andare al di là di quanto é strettamente indispensabile per la protezione di diritti individuali fondamentali di portata equivalente. Il fondamento della compressione del diritto al confronto nel caso di teste

“vulnerabile” si giustifica con il presupposto – scientificamente indimostrato – che in questi casi, oltre che inutile, il confronto sarebbe dannoso per l’equilibrio psichico e la salute del dichiarante.

Solo in quest’ottica, ove supportata da ricerche e studi attendibili e verificabili, sarebbe ammissibile una deviazione dal paradigma del contraddittorio nell’assunzione della prova.

Nel processo per abusi sessuali su minori che vedeva imputato la rock star Michael Jackson, l’opinione pubblica americana ha assistito a cinque giorni di esame e controesame del teste d’accusa, un fanciullo di tredici anni all’epoca dei fatti, e diciassettenne al momento del processo.

In Italia, parlare di controesame nel caso del minore significa cadere nella categoria del wishful thinking, del credere vero qualcosa che si desidera intensamente ma che non è reale. Non è reale perché nella prassi ormai in uso nel nostro Paese l’idea, non dico di un vero e proprio controesame, ma neppure di una sua pallida imitazione, in pratica non esiste perché lo stravolgimento dell’istituto dell’incidente probatorio consente alla difesa –quando chi esamina il minore non ritenga che sia troppo stanco per continuare – di controesaminare attraverso la consegna di domande, in genere scritte, all’interrogante confidando che le voglia trasmettere al minore e con implicita licenza di formularle come meglio crede. Come se un controesame fosse fatto da una sola domanda, formulata al minore da altri senza la possibilità, una volta ottenuta una risposta, di approfondirne il senso con altre conseguenti domande. In processi in cui l’unico protagonista e mezzo di prova del presunto abuso è il minore, il modo di procedere che spesso

401 R. M. DWORKIN, Taking rights seriously, Cambridge, 1978, p. 184 s. Il libro è disponibile anche in traduzione italiana, cfr. R. M.

DWORKIN, I diritti presi sul serio (trad. a cura di F. ORIANA), Bologna, 1982. In particolare, tre sono secondo l’A. gli scenari che giustificano la restrizione di un diritto fondamentale: (a) quando è dimostrato che, nel caso di specie, i valori protetti dal diritto fondamentale non sono in realtà a rischio, o lo sono solo in forma assolutamente attenuata; (b) quando i diritti fondamentali di altri individui sono con esso in conflitto; (c) quando il costo per la società è talmente elevato da eccedere in maniera assolutamente sproporzionata quanto la stessa società aveva previsto di spendere per tutelarlo.

402 In casi del genere «la mancata tutela di quel diritto[…]dimostrerebbe come il suo previo riconoscimento fosse pura ipocrisia», così R. M.

DWORKIN,Taking rights seriously, op. cit., p. 200.

caratterizza l’incidente probatorio (sarei contenta di sbagliare) integra una palese violazione del cardine del processo accusatorio rappresentato dal diritto al contraddittorio, al confronto con l’accusatore sancito dall’art. 111 della Costituzione.

Nulla quaestio sull’esigenza – che non credo sia sancita a livello come invece lo è il diritto dell’accusato al giusto processo – di procedere nel massimo rispetto della personalità e della salute del minore. Ma questa doverosa attenzione non può ricadere, negandolo, sul diritto di difesa che, fino a propria contraria, non è gestito da una categoria di biechi maltrattatori di bambini ma da professionisti in grado di condurre il rapporto con il minore, nel modo più appropriato e rispettoso. Ricordo che la Carta di Noto si conclude con la citazione del Protocollo alla Convenzione dei Diritti del Fanciullo, ratificata dallo Stato nel 2002 che al punto 6 dice: «Nessuna disposizione del presente articolo pregiudica il diritto dell’accusato ad un processo equo o imparziale o è incompatibile con tale diritto”.

Si potrebbe arrivare ad un equo bilanciamento degli interessi in gioco a condizione di ricordare che:

a) l’accertamento processuale della verità si realizza principalmente con l’assunzione della prova nella fase dibattimentale e nel pieno contraddittorio tra le parti e che la tutela del minore postula che la prova venga assunta tenendo conto delle sue particolari caratteristiche. Nel bilanciamento di questi valori, il legislatore ha ritenuto che per limitare la prima esigenza non sia sufficiente il solo fatto che l’assunzione della testimonianza riguardi un minore, ma ha richiesto anche che il reato in accertamento attenti alla sua sessualità;

(b) il fatto che il dibattimento avvenga a notevole distanza di tempo è circostanza che dipende dalle singole esperienze giudiziarie, e non può giustificare uno sbilanciamento generale del sistema normativo invertendo il rapporto fra eccezione (incidente probatorio) e regola (dibattimento);

(c) le modalità di assunzione della testimonianza non dipendono, di per sé, dal ricorso o meno all’incidente probatorio, essendo possibili modalità speciali, idonee a proteggere la personalità del teste minorenne, anche nel dibattimento;

(d) l’esigenza di non ripetere più volte la testimonianza, per evitare il rinnovo di situazioni di tensione e disagio psicologico, non è di per sé assicurata dal ricorso all’incidente probatorio, che, da un lato, potrebbe sopravvenire – al pari dell’istruttoria dibattimentale e come quasi sempre avviene – dopo che nel corso delle indagini preliminari il minore sia già stato sentito e il più delle volte, senza che resti traccia delle sue dichiarazioni; dall’altro lato, non esclude la ripetizione della prova in dibattimento. Infatti, la regola speciale, sancita dall’art. 190 bis, comma 1 bis, del codice di procedura penale, secondo cui l’esame testimoniale in dibattimento è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni, ovvero se il giudice o una delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze, è dettata, testualmente, solo per il caso in cui si procede per i reati sessuali ivi indicati;

(e) la opportunità di assumere la testimonianza a breve distanza di tempo dal fatto e senza necessità di ripeterla non può dirsi che esprima una necessità costituzionale tale da imporre una ulteriore deroga alle regole generali del processo informate al principio dell’assunzione delle prove nel dibattimento. L’incidente probatorio è strumento eccezionale, previsto solo per le ipotesi stabilite dalla legge, in vista, principalmente, della necessità di assicurare una prova che potrebbe essere dispersa o alterata se rinviata al dibattimento.

Ma il rispetto di queste considerazioni non basta ad assicurare né la genuinità del materiale narrativo offerto dal minore né la tutela dei suoi diritti se non si garantiscono tre ulteriori condizioni e cioè: 1) la corretta modalità di ascolto così come specificata dai protocolli nazionali e internazionali; 2) la videoregistrazione di tutte le occasioni di ascolto fin dalla fase preliminare; 3) la specifica competenza dell’esperto incaricato dell’ascolto.

Sul primo punto: lo stralcio di esame che segue, tratto da un recentissimo incidente probatorio di una bambina di non ancora quattro anni chiamata a raccontare un evento

presuntivamente accaduto quasi un anno prima (quando era nella fase dell’amnesia infantile) è più eloquente di qualsiasi discorso.

L’incipit, così come si legge nel verbale stenotipico è il seguente:

Giudice: Facciamo finta che sia un’intervista alla bimba.

Giochiamo con un foglio, non so...

Psic.: Rosa, siediti. Questo si chiama il gioco del microfono e bisogna dire la verità. Cos’è il gioco della verità?

Se io dico che i miei capelli sono biondi ho detto la verità?

Rosa: Neri

Giudice: Deve rispondere alle domande come se fosse una cantante che risponde a un’intervista

Dott.: Questo è il gioco del quiz e io faccio le domande e tu rispondi (la bambina si vuole mettere le cuffie e insiste nella richiesta)

Psic.: Allora giochiamo tu senza cuffie. Rosa, questo non si tocca.

Giudice: Le faccia vedere la telecamera che magari stiamo registrando come in televisione e lei deve guardare nella telecamera.

Psic.: Tu devi guardare lì che c’è telecamera.

Giudice: Così poi si rivede in televisione.

Psic.: Vedi? Poi andiamo pure in televisione.

Giudice: Le dica che deve parlare al microfono e dire il suo nome, così...

Psic.: Rosa, adesso andiamo di là e iniziamo questo gioco.

Interrogare in questo modo una bambina di quella età impostando l’audizione protetta come un gioco, addirittura il gioco della verità, con la prospettiva del vedersi in televisione che oggi ammalia qualsiasi bambino, significa sollecitare nel modo più inappropriato la fantasia e l’innata tendenza confabulatoria dei bambini. Non è possibile che uno psicologo forense non sappia che un bambino di quella età, a causa di un non ancora compiuto sviluppo di certe aree cerebrali, non è in possesso della memoria dichiarativa ma solo di quella emotiva. Attribuire ad un bambino di quattro anni competenze che al momento del presunto evento non erano ancora sviluppate o lasciar credere che un soggetto di tre anni sia in possesso della memoria dichiarativa significa, per non fare altre ipotesi, che l’esperto non ha aggiornato le proprie conoscenze in età evolutiva e sulla memoria in generale. La conseguenza del mancato aggiornamento non è solo una nota critica alla preparazione dell’esperto; quello che preoccupa è che ignorare evidenze (peraltro, come quella del caso dell’amnesia infantile, scientificamente accertate e provate fin dai primi anni ‘80) contribuisce negativamente al processo decisionale, innalza il rischio di errori giudiziari (già preoccupante) e discredita la figura dell’esperto.

Procedere in questo modo significa non aver nessun riguardo per il bambino che viene adoperato – anche male – come un oggetto da far parlare a tutti i costi, fingendo di ignorare che per lui si tratta, in ogni caso, se è stato davvero abusato, di un’esperienza se non dolorosa, certamente disturbante e, quel che è peggio, inutile ai fini probatori. In casi come questi, purtroppo tutt’altro che infrequenti, la difesa non dovrà andare in cerca di controfatti e di raffinate strategie difensive. Il lavoro è già stato fatto. Sono stati violati i diritti costituzionali della difesa e il bambino non ha ricevuto tutela alcuna. Anzi, il contrario. Il rischio concreto per la salute psichica e il benessere del bambino di un modo di procedere, nella sostanza, indifferente a garantirne la protezione, è dimostrato dal costrutto del process legal trauma elaborato negli anni ‘80 negli Stati Uniti da Richard A. Gardner403

403 R. A. GARDNER, Protocols for the Sex-Abuse Evaluation, Cresskill, New Jersey, 1994. Per approfondimenti L. DE CATALDO

NEUBURGER, L’esame del minore, Padova, 2005.

e da tempo studiato e applicato anche nel nostro paese. Si è in presenza di un legal process trauma quando i sintomi

traumatici non compaiono, come sarebbe logico, dopo l’evento di abuso, ma si manifestano successivamente, come conseguenza degli interrogatori cui viene sottoposto il bambino da parte di familiari, di giudici, psichiatri, psicologi, operatori sociali e terapeuti.

Sul secondo punto: mi limito a richiamare una considerazione fatta dal Procuratore Generale (Cass. penale n. 127/07) il quale ha commentato che l’assenza di documentazione relativa alle dichiarazioni del minore nella fase delle indagini preliminari rende inutile sapere cosa il minore abbia riferito nel corso dell’incidente probatorio.

Sul terzo punto: Continua ad essere segnalata anche dalla giurisprudenza di merito e di legittimità la tendenza degli esperti ad elaborare valutazioni segnate da un alto tasso di soggettività (a mio parere e in base alle mie esperienze) che da sempre ha pesato, negativamente, sul lavoro dello psicologo e sulla utilizzabilità delle sue valutazioni. In altri tempi questo “vizio” di soggettività poteva essere giustificato dagli strumenti, obiettivamente opinabili, di cui disponeva lo psicologo. Oggi è inaccettabile l’ignoranza o l’indifferenza verso gli apporti offerti dal sapere di nuove discipline neuro-cognitiviste (memoria, neurobiologia della menzogna, verificabilità della testimonianza, amnesia infantile, simulazione ecc.) che consentono una significativa riduzione del tasso di errore. In particolare, nuove acquisizioni a livello scientifico e nuovi strumenti operativi permettono un esame del minore meno autoreferenziale e consentono la raccolta di dati clinici più attendibili e soprattutto, verificabili. Per evitare i rischi, gravi e dimostrati, derivanti dalla mancanza o insufficienza della preparazione specifica dell’esperto, al momento del conferimento dell’incarico, come avviene in altri paesi, il giudice deve accertare che il perito possegga le competenze necessarie, essere certo che utilizzerà criteri e strumenti approvati e riconosciuti dalle associazioni scientifiche di riferimento, che sia in grado di precisare la qualità e il contenuto scientifico del suo apporto conoscitivo.

Se la psicologia che entra nel processo deve rispondere a precisi requisiti formali e sostanziali, oggi di natura “vincolante”, se esiste un impianto normativo in civile e in penale che prevede la responsabilità professionale, potrebbe essere necessario approfondire l’argomento sia a tutela della migliore informazione dell’esperto che degli eventuali diritti di persone terze.

IV.CRIMINALITÀORGANIZZATA,VITTIMADIREATOETESTIMONE