In questo paragrafo verranno presi in esame due tipi di contesti, quello ‘interno’ alle produzioni savonesi coeve alla GAT, e quello ‘esterno’, costituito dalle cosiddette ‘associazioni ceramiche’ nelle quali spesso la GAT si trova ad essere inserita e rinvenuta nei contesti di scavo. Ciò che si vuole mettere in luce è come ogni singola tipologia di ceramica può ‘informare’ sulle altre che insieme ad essa costituiscono (nello specifico caso analizzato ma anche ‘generalmente’, analizzando eventuali discrasie) il complesso dei materiali fittili, così come (paragrafo successivo) sugli altri ‘materiali’. Il concetto di ‘associazione ceramica’, per il quale in ambito anglosassone si utilizza il termine ‘assemblage’ è riferito all’insieme delle diverse tipologie di ceramica che si ritrovano in un medesimo contesto, sia esso inteso come un luogo fisico (uno strato, un edificio ecc.) che come un’associazione ricorrente (ad es. per quanto concerne specifiche categorie di siti in determinate aree geografiche e cronologie). Per questo motivo sovente nella ‘vulgata’ archeologica italiana è utilizzato come sinonimo anche ‘contesto ceramico’ o semplicemente ‘contesto’, generando in quest’ultimo caso una evidente ambiguità. Come accennato infatti esso è riferito comunemente, in fase di analisi dei materiali rinvenuti negli scavi, all’insieme di reperti rinvenuti, non necessariamente solo fittili ma anche quando pertinenti a differenti tipologie di materiale.
Solitamente si tratta di reperti rinvenuti nelle unità minime di classificazione archeologica, le Unità Stratigrafiche, ma questo procedimento può essere adottato anche a scale differenti quali le “fasi”, i “periodi” o gli interi siti. Il termine genera una ulteriore sovrapposizione di differenti campi semantici quando la si accosta all’inglese context, che viene comunemente adottato per designare le unità minime di documentazione/indagine archeologica, le US appunto. Da ciò deriva, tornando alla questione iniziale, l’utilizzo nel gergo archeologico britannico, del differente termine assemblage.
Tutte queste considerazioni rivelano ancora una volta l’ambiguità del discorso archeologico, e la necessità di ‘contestualizzare’ ogni volta le informazioni rispetto all’ambito di loro produzione. Rifacendosi al titolo del sottocapitolo “durante”, in questo caso si tratta di un momento contemporaneo, da un lato alla produzione e all’uso (quindi nel passato), dall’altro al rinvenimento archeologico (quindi nel presente) delle varie associazioni ceramiche.
Marco Milanese tratteggia ad esempio il ‘tipico’ assemblage identificabile sulla base delle indagini archeologiche per la Sardegna nordoccidentale nella prima metà del Trecento, nei seguenti termini: “la maiolica arcaica pisana, la graffita arcaica savonese, le smaltate di area catalana e valenzana, le invetriate della Linguadoca Orientale (comprensorio produttivo dell’Uzège), assieme ad invetriate da cottura d’importazione dominano le associazioni ceramiche almeno fino alla metà del Trecento” (Milanese 2010b: 149).
Ho usato in precedenza il termine ‘tipica’ non in modo casuale. Sembra infatti, a giudicare da molte pubblicazioni archeologiche sulla Sardegna, che la prima metà del XIV secolo costituisca una sorta di ‘zona di compromesso’, un collo d’imbuto in cui vanno a confluire tutte le ceramiche più o meno compatibili con quel periodo. Tutte le tipologie ceramiche riconducibili alle nuove produzioni, perlopiù altotirreniche, con l’eccezione dei prodotti iberici, che a partire con forza dal XIII secolo vengono veicolate sulle rotte mediterranee, nello specifico tirreniche. Questo quadro generale, che può essere utile come riferimento di massima ma che spesso viene usato per giustificare i propri rinvenimenti, può infatti sovente collidere con le informazioni archeologiche dei singoli scavi (almeno nel caso di Geridu, cfr. infra). L’obiettivo finale dovrebbe quindi essere quello di ricondurre le informazioni desunte dalle singole indagini ad un quadro generale da ‘criticare’, ossia da mettere in crisi.
Un esempio preso invece dal contesto siciliano (Aleo Nero 2016) illustra come il concetto di “associazione tipica” per quanto riguarda la GAT sembri oscillare notevolmente, a seconda dei contesti geografici certo, ma probabilmente molto anche sulla base delle tipologie ceramiche che la “accompagnano”. Nel caso di Palermo (discarica di Via Candelai) esaminato dall’autrice, si fa riferimento infatti ad una associazione tipica della prima metà del XIII sec. costituita da boccali di maiolica arcaica pisana, spiral ware e GAT (Aleo Nero 2016: 51)48. Come si può notare
siamo un secolo avanti alla datazione per la Sardegna proposta da Milanese e riportata sopra. In entrambi i casi figurano GAT e MAP, nel primo caso accompagnate da smaltate spagnole (catalane e valenzane) e invetriate provenzali, nel secondo caso da spiral ware di produzione campana. Si direbbe che in un certo senso, nel loro essere classi di riferimento cronologico per il basso medioevo, GAT e MAP annacquino però il loro potenziale datante e diventino delle classi “neutre”, con la cronologia che viene così a dipendere da altri elementi peculiari dei singoli contesti. Ma in un certo senso allora verrebbe a decadere il significato dell’associazione ceramica e si tornerebbe al valore cronologico puntuale del singolo reperto (o classe), questa volta relegato però a classi come spiral ware o smaltate spagnole.
Un ottimo esempio di uso di categorie come strumento epistemologico, come problema di metodo ‘interno’ all’archeologia e in relazione al contesto, è in Benente 2017, in merito all’assemblage della discarica degli Embriaci.
“Nei contesti della “torre degli Embriaci” la graffita arcaica tirrenica compare in un momento successivo rispetto a produzioni ingobbiate e invetriate monocrome e risulta preceduta dalla presenza delle ceramiche decorate a lustro metallico di origine andalusa (vedi supra). Questo dato deve essere accolto con una certa cautela: se interpretato in maniera troppo rigida, indicherebbe una diffusione della graffita arcaica tirrenica nel contesto Embriaci a partire almeno dal secondo/terzo decennio del XIII secolo. In alternativa, bisognerebbe anticipare alla fine del XII secolo la datazione delle ceramiche andaluse decorate a lustro. In entrambi i casi si paleserebbero problemi di cronologia. Occorre ricordare che siamo di fronte ad un contesto chiuso, legato al consumo di un nucleo ristretto. Possono esserci, quindi, altri fattori che vanno individuati nelle modalità di formazione del deposito stratigrafico, nelle “scelte” e nel “gusto” dei fruitori originali” (Benente 2017: 26).
Un altro tipo di ragionamento, di tipo ‘verticale’ invece che orizzontale, andrebbe poi fatto per i singoli siti a livello quantitativo, ossia con attenzione alle percentuali relative delle varie classi ceramiche, in una prospettiva comparativa fra differenti siti49. Monica Baldassarri evidenzia
correttamente quali siano i pericoli congeniti delle pubblicazioni archeologiche per quanto riguarda lo specifico problema della ceramica:
“Molte delle pubblicazioni tendono infatti a non indicare la quantificazione dei materiali rinvenuti nei contesti archeologici, ma piuttosto i materiali scelti per rilevanza all’interno della classe o per importanza ai fini della datazione della sequenza stratigrafica […] In altri casi ancora, infine, si rendono noti i rinvenimenti solo in percentuale tramite grafici, anche qualora si tratti di pochi pezzi: tali usi per numeri inferiori alle decine è così non solo è di scarso aiuto, ma può essere addirittura fuorviante” (Baldassarri 2013). 48 Una affermazione/attestazione che suona molto come la constatazione (tautologica) che nel Tirreno di XIII secolo circolino prodotti veicolati dalle repubbliche marinare tirreniche.
49 Ad esempio si veda Gardini, Mannoni 1995 per un confronto fra le percentuali di GAT nella discarica dei Fieschi di Via Ginevra ed il sito di Palazzo Ducale.
Sulla questione dei metodi e delle categorie utilizzati per lo studio delle ceramiche e le pubblicazioni archeologiche si rimanda al brano di Graziella Berti e Sauro Gelichi citato in precedenza (Berti, Gelichi 2001: 38).
Un altro importante problema generale è quello della definizione di serie documentarie archeologiche, che essenzialmente sono tre nella pratica corrente: la sequenza stratigrafica per il sito/scavo; il censimento di Unità Topografiche per la ricognizione del territorio/“paesaggio”; l’insieme dei materiali ceramici per un sito/scavo/territorio (assemblage, contesto….)
In particolare l’archeologo deve forse recuperare, in questa fase storica della ricerca, la coscienza dell’importanza delle proprie serie documentarie stratigrafiche. Dello scavo come archivio e soprattutto di come ogni luogo in cui si agisca archeologicamente costituisca un archivio. Infine, delle informazioni che si possono trarre in merito ai processi storici e non solo alle statiche sovrapposizioni orizzontali di strati o alle tipologie di oggetti.
Altri oggetti della ‘mensa’
Pur costituendone il relitto più comune, nel suo contesto d’uso originario la ceramica costituiva solo una parte del corredo da mensa medievale, arricchito non solo da manufatti fittili ma anche da altri realizzati in legno, vetro, metallo e pietra (ollare). Non è questa la sede per una rassegna dettagliata delle varie tipologie di stoviglie e recipienti in uso in antico50. Tuttavia è utile
contestualizzare l’oggetto che viene qui indagato (GAT), sia nel contesto d’uso originario che in quello di rinvenimento (e di ‘uso archeologico’), per potere ad esempio valutare appieno il ruolo dei processi formativi nella costruzione del registro archeologico e al contempo riposizionare la ceramica all’interno dei vari meccanismi di selezione e ri-uso dei materiali.
In passato (come oggi del resto) la ceramica era tenuta sostanzialmente fuori –salvo rari casi (cfr.
infra il paragrafo sulla “polifunzionalità”) - dai processi di riconversione degli oggetti dismessi,
come avveniva ad esempio nel caso dei metalli e del vetro per riutilizzarne la materia prima51.
Sulle tavole medievali i contenitori in ceramica coesistevano con altri realizzati in legno, pietra, vetro e metallo. In questo capitolo si fa più volte cenno al fatto che spesso le distinzioni che operiamo oggi usualmente nella ricerca archeologica, basate cioè a partire dalle differenti tipologie di materiali utilizzati per la realizzazione dei manufatti52, collidono probabilmente
con le categorie utilizzate ab antiquo, come d’altronde avviene per la terminologia correntemente in uso per definire oggetti pensati e utilizzati nel passato.
In altri termini è utile un richiamo alla consapevolezza nell’analisi, al “prendere le distanze” dalla ceramica in maniera critica, sminuendone la portata di “fossile-guida” oggettivo e valutandone di caso in caso (contestualmente)53 le potenzialità informative. Il riconoscimento
dell’assetto originario della ‘tavola’ non può coincidere con l’obiettivo ultimo della ricerca, ma deve costituire un passo propedeutico alla comprensione di quei meccanismi (storici) di 50 Si rimanda a Lusuardi Siena 1994 per una trattazione dei vari elementi della tavola, in particolar modo ai capitoli relativi a pietra ollare, suppellettili in vetro e manufatti in legno.
51 Cfr. alcune considerazioni in merito in Molinari 2003: 519. Anche la rappresentatività del complesso ceramico rinvenuto in sé è in realtà da considerarsi criticamente, dato che: “Salvo i casi di abbandoni violenti, che non hanno neppure permesso recuperi parziali di oggetti, anche per la ceramica i depositi archeologici riflettono piuttosto i diversi livelli di “frangibilità” delle classi ceramiche (ad es. le pentole si rompono più spesso degli orci), che non il corredo ceramico veramente in uso” (Molinari 2003: 519, nota 4).
52 Una metodologia di analisi che è stata ad esempio contestata da Ian Hodder, il quale propone da tempo un’analisi dei vari contesti comprensiva di tutte le tipologie di materiali e manufatti e svincolata dalle categorie della “subspecializzazione” archeologica.
selezione che furono alla base di tale assetto, di quelle scelte consapevoli o inconsapevoli che orientarono la selezione e dei motivi (economici, sociali, culturali) che orientarono tali scelte54.
Altre ‘graffite arcaiche’
Agli albori della definizione dell’esistenza di una categoria di Graffite Arcaiche (GA) medievali, si pose la questione di quali fossero i centri di produzione di tale ceramica. Anche una volta operata la distinzione di massima, che resiste ancora oggi, fra GA di area padana e GA di area tirrenica, per quest’ultima si pose l’interrogativo riguardo all’eventuale presenza di più centri di produzione per una ceramica che poteva essere definita ‘tirrenica’ a partire dalla sua area di maggiore diffusione. Allo stato attuale delle conoscenze (archeologiche e archeometriche), Savona risulterebbe essere l’unico centro riconosciuto. Sull’argomento tuttavia non c’è ancora chiarezza, ma certo la presenza di altri centri produttivi non potrebbe che cambiare drasticamente l’attuale idea di Savona come centro monopolista di tale prodotto. L’impatto di un eventuale altro (altri?) centro di produzione non potrebbe che complicare (costruttivamente) la questione. Le indicazioni documentarie in merito sono assenti, mentre dal punto di vista archeologico sussiste una certa opacità, che pero non fa escludere la possibilità di una seconda produzione di GAT.
Della questione si è occupato ad esempio Fabrizio Benente, osservando riguardo alle Protomaioliche liguri che il loro impasto “non è assimilabile a quello “tipico” delle produzioni ingobbiate e graffite savonesi, ma è analogo a quello documentato su alcune “Ingobbiate monocrome verdi” e nelle “Graffite arcaiche tirreniche monocrome con decorazione a croce centrale” presenti nel contesto della torre degli Embriaci.
“Si pone, quindi, il problema della possibile presenza di un gruppo di oggetti di produzione ligure, ma non ascrivibili alle manifatture savonesi “tipiche”. In sostanza, Savona può anche non essere l’unico centro di produzione ligure attivo nel XIII sec., anche se è sicuramente quello che realizza con il tempo il monopolio della produzione ceramica medievale della Liguria (Benente 2017: 27).
La possibile presenza di un centro di produzione differente da quelli genericamente attribuiti al savonese è confermata anche dalle analisi archeometriche effettuate su alcuni reperti provenienti dal sito di Casteldelfino (Capelli, Mannoni 1999).
“Se si ammettesse una provenienza dal Savonese anche per questa produzione, risulterebbe comunque un dato finora mai messo in evidenza: la contemporanea presenza nell’area di almeno due fornaci (o gruppi di fornaci) diverse, che utilizzavano argille completamente differenti, non solo per l’impasto, ma anche per l’ingobbio (ibidem).
54 Si vedano ad esempio le riflessioni in Benente 2017: 23 sulle “scelte” del vasellame da tavola e delle dotazioni della cucina e della dispensa (in un arco di almeno cinque o sei decenni).
Produzioni savonesi
Per lo stesso periodo cronologico per il quale sono attestate le GAT, gli scavi archeologici hanno restituito una serie di manufatti simili a questo tipo ceramico per forme ed impasti (e, laddove presenti, per decorazioni), ma differenti per una o più caratteristiche.
Le considerazioni su queste classi sono state molteplici, ma tutte riconducibili ad una lettura delle stesse come ‘varianti povere’ del tipo principale, la GAT.
Riferendosi a queste produzioni (nell’ambito del caso di studio dei bacini ceramici decorativi utilizzati nelle architetture lucchesi), che forse nel linguaggio economico contemporaneo potremmo leggere nella chiave di una “diversificazione”, Graziella Berti ha utilizzato la pregnante definizione di “espressioni collaterali”. Una gamma di prodotti che condivide le caratteristiche dell’impasto, scelte tecnologiche come il trattamento privo di rivestimento per le superfici esterne ed il repertorio sia morfologico che decorativo:
“Ritornando alle produzioni liguri, se nella massima parte dei casi si tratta di esemplari graffiti arricchiti di tocchi in verde e in giallo-arancio, non si può certo prescindere dal considerare insieme pire manufatti graffiti monocromi o addirittura semplicemente ingobbiati e rivestiti di vetrine piombifere, incolori o colorate in verde oppure in giallo-bruno, privo di disegni. Tutti infatti sono verosimilmente usciti pressoché contemporaneamente dalle medesime fabbriche. Tali espressioni collaterali alla principale rientrano in un unico quadro che conviene, come in altri casi, considerare nel suo complesso” (Berti, Cappelli 1994: 152).
Ingobbiata Chiara
Si tratta di una tipologia molto ambigua, riconosciuta agli albori della ricerca archeologica sulle ceramiche medievali in Liguria (Mannoni 1975) ma la cui stessa esistenza è oggi messa in dubbio da molti studiosi. Come ad esempio nel caso delle prime distinzioni fra Graffite Arcaiche Tirreniche e Liguri poi ricomposta in seno alla ceramologia, l’esistenza di tipologie ambigue è, qualora ce ne fosse bisogno, un chiaro segnale di come la questione tipologica e tassonomica sia profondamente cangiante e, soprattutto, esito di traiettorie di ricerca costruite dagli stessi archeologi. Questi ultimi, più che ‘scoprire’ entità e categorie preesistenti in natura, di fatto realizzano arbitrarie suddivisioni di insiemi di fenomeni (o in questo caso oggetti) che si sono creati seguendo altre logiche, perlopiù interne agli stessi insiemi.
Tornando all’ingobbiata chiara, questa tipologia costituirebbe una sorta di trait d’union con le produzioni bizantine diffuse in Liguria nei decenni immediatamente precedenti alla comparsa della GAT (Varaldo 2001c: 158), in un certo senso una sorta di ‘prova generale’ di installazione di una produzione ceramica a Savona.
Ingobbiata monocroma
Parallelamente alle GAT i (medesimi?) centri ceramici savonesi generano prodotti con le stesse caratteristiche tecniche e morfologiche. “Con ogni probabilità si tratta di oggetti, la forma predominante è la scodella (fig. 3), di più semplice lavorazione, che venivano immessi sul mercato ad un costo minore” (Gardini, Mannoni 1995: 96)55. I due autori non riportano
55 “Le ingubbiate monocrome verdi, giallo-marroni e chiare rappresentano una produzione notevole anche rispetto alle graffite”
la fonte a cui si ispirano per tali affermazioni e potrebbe trattarsi di un’intuizione di ‘buon senso’, di matrice funzionale, non necessariamente poggiata su una documentazione storica di riferimento. In altri termini tale affermazione potrebbe essere dettata dalla logica, considerando il minore impegno in termini tecnologici richiesto dall’ingobbiata monocroma, che prevede l’assenza dell’operazione di graffitura e dell’utilizzo del pigmento giallo-marrone.
“Le “Ingobbiate monocrome verdi” che precedono e, poi, accompagnano la presenza della “Graffita arcaica tirrenica savonese”. Si tratta di piatti e scodelle, spesso con una caratteristica tesa a rialzi (interno ed esterno) marcati, cavità a calotta più o meno accentuata e piede ad anello, talora piuttosto schiacciato (cfr. Capelli et alii 2001: 28-29, gruppo 4, fig. 2). L’esterno è quasi sempre privo di rivestimento, ma spesso sono presenti caratteristiche colature e macchie di ingobbio, riscontrabili – ad esempio – nei prodotti dell’area egeo anatolica. Questi reperti necessitano di una sistematica campagna di studio archeometrico, finalizzata a distinguere le produzioni del Mediterraneo orientale, quelle della costa del Levante e quelle liguri. Le prime attestazioni di “Ingobbiate monocrome verdi” raggiunsero Pisa e Genova nel primo quarto del XII secolo, mentre una decisiva crescita del fenomeno di importazione è testimoniata nell’ultimo quarto del XII e nei primi decenni del XIII. In questa fase comincia una produzione locale. Alcuni esemplari presentano caratteristiche di impasto – macroscopicamente assimilabili a quelle di alcune “Graffite arcaiche tirreniche” - che qui abbiamo chiamato “ad impasto atipico” e alle “Protomaioliche liguri” (vedi infra). Questa analogia composizionale degli impasti è già stata notata nello studio delle ingobbiate provenienti dallo scavo di Palazzo Ducale a Genova (Capelli, Gavagnin, Gardini, Mannoni 2001: 29) ed apre l’ipotesi di produzioni del XIII secolo legate alla tecnica dell’ingobbio, forse di area ligure, ma non assimilabili agli impasti considerati “tipici” delle manifatture savonesi” (Benente 2017: 25).
Sembra interessante rilevare in queste affermazioni di Benente uno schema che prevede una sequenza “importazione produzione locale evoluzione nelle GAT” la cui solidità andrebbe verificata meglio per capire se poterne estrarre un’interpretazione utile relativamente alla fase di gestazione della GAT.
Le indagini archeometriche effettuate su alcuni campioni provenienti dal sito di Casteldelfino (Milanese 1982), hanno messo in evidenza come, contrariamente a quanto supposto in un primo tempo, le ingobbiate monocrome non sono tutte prodotte assieme alla graffita arcaica, né necessariamente a Savona56.
Ingobbiata policroma
Le ingobbiate policrome presentano strette somiglianze con la GAT, sia dal punto di vista delle morfologie identificate che da quello degli impasti. Le forme afferenti a questa tipologia presentano una semplice decorazione e macchie o linee di verde e giallo abbinate a una vetrina incolore. In sostanza sono ceramiche del tutto simili alle GAT, se non fosse che su di esse non è stata praticata la graffitura. Non è dato sapere se dietro a questa precisa scelta tecnica vi siano delle motivazioni di tipo pratico, simbolico o commerciale. E’ una produzione numericamente secondaria rispetto alla GAT ed alle ingobbiate monocrome, tuttavia “si tratta di materiali, 56 “Nel contesto di Casteldelfino, in particolare, sono stati distinti tre gruppi, uno solo dei quali sembra avere un’origine da Savona; per quanto riguarda gli altri due, non vi sono dati per escludere concretezza tale possibilità, ma non vi sono stretti condotti con tutte le terre e le produzioni, finora studiate dal punto di vista archeometrico, di sicura origine savonese” (Capelli, Mannoni 1999).
anche se non prodotti in vasta scala come i due tipi precedenti, abbastanza frequenti negli scavi medievali liguri dove è presente la graffita arcaica savonese” (Gardini, Mannoni 1995: 96). Graffita arcaica monocroma
La Graffita arcaica monocroma è una variante della GAT che, come si può intuire dal nome, prevede motivi incisi simili a quelli della GAT (Pringle 1977: 124, tav. XII-86) ma ricoperti semplicemente da una vetrina gialla o marrone invece che decorati in policromia verde-marrone e quindi rivestiti con vetrina trasparente.
“È una produzione piuttosto rara delle officine ceramiche savonesi nella quale si può forse