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40 “Cambiamenti avvenuti nel tempo necessario per saggiare i materiali locali più adatti, sono stati tali, secondo lo schema della figura 11, da non essere possibili senza l’intervento di vasai provenienti da aree dove le nuove tecniche erano ben note” (Gardini Mannoni 1995: 99).

Fig. 6. “Raffigurazione schematica del ciclo produttivo che dalle argille naturali conduce alla realizzazione di generici manufatti ceramici” (tratto da Mannoni, Giannichedda 2003: 79; le evidenziature sono nel libro di seconda mano da cui è tratta l’immagine)

Impasto

Per questo paragrafo valgono naturalmente anche molte delle considerazioni fatte nel paragrafo sulle “materie prime”. Il ciclo produttivo che porta dalle argille naturali alla realizzazione di manufatti ceramici, è raffigurato da un diagramma schematico esemplificativo in Mannoni, Giannichedda 2003 (fig. 6).

Le considerazioni sugli impasti delle ceramiche si giocano solitamente su un duplice livello: Il primo è quello dell’osservazione autoptica, mirato a valutare essenzialmente colore della matrice e colore e grandezza degli inclusi macroscopici, che spesso consentono di determinare l’appartenenza alla categoria della GAT. Il secondo livello è costituito dall’analisi microscopica e archeometrica, che consente di scendere nel dettaglio delle aree di approvvigionamento delle argille.

“L’argilla (o meglio la miscela di più argille - plioceniche e alluvionali) utilizzata per modellare i corpi ceramici è locale, come attestato da analisi archeometriche (Capelli 1997; Capelli, Marescotti 1999). Tali esami, ed altri, però, utilissimi per caratterizzare le materie prime impiegate a Savona, non servono nella ricerca delle trasmissioni tecnologiche, venendo usate, in ciascun luogo, materie prime differenti (locali)” (Berti, Gelichi 2006: 347-348).

“Ad un esame macroscopico, gli impasti mostrano una colorazione piuttosto variabile, da rosso- arancio e rossobruna fino a giallo-crema, giallo-bruna e giallo-rosata. Le argille si presentano in genere abbastanza depurate, con inclusi sabbiosi leucocratici, anche grossolani, e miche fini più o meno abbondanti. Inclusi rossi sono di solito evidenti negli impasti tendenti al giallo” (Capelli 1997: 451).

Repertorio morfologico

Per quanto riguarda la “foggiatura” delle forme dei manufatti,

“ci troviamo di fronte a recipienti destinati ad arredare le mense, esclusivamente in forma aperta (almeno fino al tardo XIII s.). I tipi fondamentali sono relativamente pochi, ma in dimensioni piccole, medie e grandi, senza tesa o, in netta prevalenza, con tesa (Varaldo 1997: 440). Quelli con tesa mostrano frequentemente, in relazione a questa, una fattura particolare, per avere una o entrambi le sue estremità rilevate” (Berti, Gelichi 2006: 348).

In sintesi Gardini e Mannoni riassumono così il campionario delle forme individuate per la GAT:

“Le forme conosciute sono: piatti e scodelle (diam. cm 18-24); catini carenati (diam. cm 24) ed emisferici (diam. cm 26-32); grandi ciotole tronco-coniche (diam. cm 24). La forma più rappresentata è quella della scodella (fig. 1)” (Gardini Mannoni 1995: 96). “Si tratta di una gamma piuttosto ampia di forme, caratterizzata da una spiccata vocazione per i contenitori di grandi dimensioni, che vengono progressivamente a sostituire i grandi bacini islamici di importazione: caratteristica questa che è stata alla base, secondo Alessandra Molinari, dell’affermazione e perdurare sul mercato

romano della GAT proprio come grande contenitore da tavola (Molinari 1986: 214)41.

“Scarsi risultati offre, sul piano cronologico, l’esame dell’evoluzione delle forme, dal momento che si registrano vistose trasformazioni nel tempo, ma una costante staticità morfologica” (Varaldo 1997: 441).

La quasi totalità delle forme si presenta quindi ‘aperta’, mentre la ‘forma chiusa’, nello specifico il boccale, è praticamente assente42. Si tratta di una particolarità che avvicina questa produzione

più alle tipologie ceramiche che la precedono che a quelle che la seguiranno, prima su tutte la maiolica arcaica (soprattutto pisana, MAP), che vede entrambe le tipologie di foggiatura e che secondo alcuni proprio in questo fattore troverà un forte elemento di affermazione (cfr. infra il paragrafo dedicato al “servizio da tavola” e le parole in merito di Enrico Giannichedda, anche riguardo all’associazione fra forma aperta di GAT e forma chiusa di MAP).

La particolarità dell’assenza del boccale per la GAT, che invece forse potrebbe essere esplorata in prospettiva non solo ‘commerciale’ (come prodotto non redditizio), non ha mai generato particolari considerazioni, specie considerando, come si accennava poco sopra, al contemporaneo successo di tale morfologia presso gli atelier dei ceramisti pisani. In definitiva tratta di un prodotto che ha una comparsa tardiva (nel tardo XIII secolo) e una scarsa diffusione in termini quantitativi, che si salda a livello interpretativo-economico ad uno scarso ‘successo’ (Varaldo 1997: 439; Varaldo 2011: 27).

Bisogna poi tenere sempre in conto che la terminologia utilizzata nella descrizione delle forme ceramiche è una ‘convenzione’ in uso in specifiche comunità scientifiche. Come ad esempio nel caso della distinzione archeologica in “classi” di materiali differenti (alla quale ad esempio si è opposto Ian Hodder, che propone un approccio che studi insieme tutti gli elementi di un medesimo contesto, anche se costituito da elementi di materiali differenti...). Una distinzione contemporanea che poteva non sussistere in antico, dove le divisioni potevano sussistere basandosi su altre caratteristiche e categorie. Ad esempio secondo criteri funzionali, di valore ecc. In altri termini ha più senso studiare insieme vasellame ceramico e ligneo che venivano utilizzati nello stesso contesto piuttosto che studiare insieme anfore da trasporto e piatti da mensa da un lato e ciotola e tacco da scarpa in legno dall’altro (cfr. supra il paragrafo “ceramisti”). Stesso discorso riguarda ad esempio l’uso di termini quali “tesa” per indicare specifiche parti della ceramica, a cui si fa riferimento sempre in termini estetico-classificatori per eventuali confronti ma non nell’ottica di significati sociali o funzionali.

41 Sembra quindi che il motivo dell’affermazione della GAT sia da ricercare da un punto di vista non più ‘ornamentale’ (ossia per la preferenza data alla decorazione, come avveniva probabilmente in precedenza per le ceramiche bizantine/orientali), quanto piuttosto funzionale (la maggiore ampiezza/capienza) e quindi implicitamente morfologico. Tuttavia non sono chiarite ulteriormente, nel testo, le motivazioni poste alla base di tali conclusioni.

42 Per forma aperta si intende comunemente, nella descrizione della ceramica, un contenitore in cui il diametro massimo coincide con il diametro dell’apertura (come ad esempio nel caso tipico del piatto). Nelle forme chiuse invece (di cui il boccale costituisce l’esempio più noto e diffuso per il medioevo, come l’anfora per l’età classica), il diametro massimo non coincide con il diametro dell’apertura. Si tratta ovviamente, ancora una volta, di una distinzione a posteriori dell’archeologo, una delle molte possibili per inquadrare la ceramica in categorie e che non pare potesse avere un uso corrente in antico. Sebbene a tale distinzione di massima talvolta corrispondano anche differenze fisiche o tecnologiche, non sembra che la divisione in forme aperte e chiuse abbia una reale utilità in fase interpretativa. Si vedano anche più avanti nel testo altre considerazioni sparse in merito all’utilizzo delle categorie tassonomiche ‘esogene’ per lo studio e la classificazione della ceramica.

Quello delle forme, o meglio della loro denominazione, è uno dei campi in cui storici e archeologi si sono più spesso confrontati fin dalle prime esperienze di archeologia medievale. Anche in quest’area Tiziano Mannoni è stato un precursore, cercando di saldare, nella sua fase costruttiva, lo studio contestuale dei due aspetti per erigere una conoscenza in un campo pressoché inesplorato (Mannoni 1975: 131-149; Mannoni Sorarù, Barbero 1973; Mannoni, Mannoni 1976). Importante anche il contributo di Catia Renzi Rizzo per Pisa, il cui lavoro ha fatto da contraltare alle ricerche di Graziella Berti ed altri (Berti, Renzi Rizzo 1997).

Un tentativo di classificazione più analitico riguardo alle tipologie morfologiche della GAT è rintracciabile nell’articolo di Carlo Varaldo. Il lavoro di quest’ultimo, che sicuramente è stato lo studioso ad aver dedicato i maggior sforzi per una sistemazione analitica delle varianti formali della GAT, costituisce il punto di arrivo della prima fase di studio di questa tipologia ceramica e pone le basi classificatorie per eventuali ragionamenti seguenti (Varaldo 1997: 439-441):

“Per quanto riguarda la morfologia (fig.1), si tratta essenzialmente di forme aperte (il boccale viene introdotto solo nel tardo XIII secolo), tipologicamente assai ridotte, con netta prevalenza della scodella nelle varie dimensioni:

1. Scodellino (al di sotto dei 12 cm di diametro) (fig.1/a) 2. Scodella (con diametro entro i 19 cm):

• Scodella con tesa tendenzialmente piana (fig.1/b)

• Scodella con tesa inclinata e cavetto accentuatamente emisferico (fig.1/c) • Scodella con tesa inclinata e parete del cavetto tendenzialmente rettilinea

(fig.1/d)

• Scodella con tesa inclinata ed orlo esterno segnato da una gola (fig.1/e) • Scodella con orlo inclinato, priva dei caratteristici spigoli rilevati della tesa

(fig.1/f) 3. Scodellone:

• Scodellone con tesa inclinata e cavetto emisferico (fig.1/g)

• Scodellane di ancor più grandi dimensioni (diametro di 35 cm), con tesa allineata con la parete rettilinea del cavetto (fig.1/h)

4. Piatto con tesa (fig.1/i)

5. Piatto-ciotola a sezione conica (fig.1/l) 6. Ciotola emisferica (fig.1/m)

7. Bacino emisferico (diametro di 20-24 cm) (fig.1/n) 8. Bacino leggermente troncoconico (fig.1/o)”.

Ingobbio

L’ingobbio (o anche ingobbiatura) è un rivestimento steso sulla superficie del pezzo ceramico destinata alla decorazione. Il termine trae origine dal francese engobe, che a sua volta deriva dal verbo engober (ricoprire con della terra)43, e figura nella letteratura archeologica italiana

sia nella forma “ingobbiata” che in quella, più frequente in passato ed ormai quasi in disuso, “ingubbiata” (ad es. in Mannoni 1975).

“Gli scarti di fornace mostrano come l’ingobbiatura fosse eseguito a crudo” (Varaldo 1997: 443).

43 Dal fr. engobe, deverbale di engober «ingobbiare1», der. dell’ant. e dial. gobe «zolla», col pref. en- «in-1». http://

Fig. 7. I primi centri produttori italiani di ceramica con ingobbio e vetrina (tecnica 1) o con smalto (tecnica 2) tra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo (da Berti BERTI ET AL. 1995a);

“Il corpo ceramico è ricoperto, sulla superficie principale, da un rivestimento argilloso (detto “ingobbio”) con caratteristiche peculiari (Capelli, Marescotti 1999). Il suo colore solo in pochi casi è bianco puro, presentando, spesso, sfumature rosate o crema. Il rilievo più interessante è, comunque, che non si tratta di una terra depurata caolinitica (come in altri casi), ma di una materia prima con molti inclusi, con minerali argillosi, priva di caoliniti. Le caratteristiche mineralogico-petrografiche evidenziate rendono possibile una provenienza da zone vicine a Savona. Questi nuovi dati stimolano delle riflessioni in relazione alle trasmissioni tecniche: quali potevano essere i suggerimenti per ricercare in loco i materiali più adatti ad essere usati come “ingobbi”? Se nel luogo di origine dei “trasmettitori” delle tecniche in questione si fosse usato del caolino, si sarebbe stati in grado di operare una sostituzione, non trovando in sito una terra analoga? Gli studi in corso potranno forse aiutarci a dare una risposta a quesiti del genere” (Berti, Gelichi 2006: 348).

Il secondo dei brani riportati illustra chiaramente, nella parte finale, come al di là delle mere considerazioni formali e tecnologiche (comunque fondamentali) sia possibile cercare di inferire informazioni (o quantomeno porre domande) relative ad un contesto più ampio che non quello della bottega produttiva.

Come per altri elementi specifici della GAT, anche il rivestimento tramite ingobbio ha visto un gran numero di ricerche archeometriche, condotte da Claudio Capelli in collaborazione con gli archeologi maggiormente coinvolti nel tentativo di determinazione delle origini di tale tecnica per le ceramiche medievali italiane e nello specifico liguri (Mannoni, Berti e Gelichi).

L’uso dell’ingobbio ha una tradizione lunghissima e, dal punto di vista archeologico, la definizione di “ingobbiata” può essere riferita ad esempio anche alle produzioni di sigillata africana di età romana che alle ceramiche potmedievali slip ware, definizione che, tradotta, significa letteralmente ‘ceramica ingobbiata’ (slip = ingobbio; ware = termine usato per indicare usualmente le tipologie ceramiche).

Come tutte le componenti formali e tecnologiche a cui si fa riferimento, soprattutto quando riferite ad oggetti prodotti nel passato, esistono due piani di lettura per le denominazioni ‘create’ per definire/interpretare ed organizzare gli oggetti. Quello coevo al loro utilizzo originario e quello contemporaneo a colui che studia l’oggetto. Spesso peraltro la terminologia di questo secondo gruppo va a costituire un campo di indagine quasi autonomo o comunque alimenta dibattiti in molti casi autoreferenziali andando a costituire una sorta di sandbox per i ceramologi. Ma su questo tema torneremo in relazione alla definizione specifica della ‘tipologia’ “GAT”. Allo stesso tempo è interessante sottolineare come in un certo senso l’utilizzo di termini ‘tecnici’ quali appunto ‘ingobbio’ o ‘vetrina’, senza parlare di specialismi come i nomi delle varie forme ceramiche (bacini scodelle piatti ecc.) o ancora più delle decorazioni (non tanto quelle ‘descrittive’ quali graticcio, floreale ecc. utilizzate per le GAT quanto quelle ‘datanti’ come “loza

azul, tipo Pula, malagueno primitivo” ecc. usate ad esempio per le ‘ispano-moresche’) servano in

un certo senso a creare uno ‘stacco’ sociale fra gli archeologi, o meglio (peggio?) i ceramologi, e la ‘gente comune’ o gli archeologi meno esperti/preparati sull’argomento. Argilla, tornio, boccale sono termini appartenenti al linguaggio comune, ma già entrando nella distinzione fra ciotola e scodella o fra catino e bacino si entra in un terreno minato. Spesso peraltro le definizioni sono assolutamente ‘convenzionali’ e create ex novo per la disciplina (nei suoi primi anni) o ancora non hanno una chiara definizione interna44.

44 Non mancano, oggi come in passato, tentativi di sistematizzare la disciplina in modo più scientifico. Purtroppo tali tentativi passano quasi sempre attraverso la richiesta di maggiori sforzi agli archeologi in fase

Fig. 9. I differenti passaggi decorativi che coinvolgono i piatti di GAT: ingobbiatura, pittura e graffitura.

INGOBBIO

ORNAMENTO

COLORATO

ORNAMENTO

GRAFFITO

Una sorta di ‘linguaggio iniziatico’ che ha sicuramente una base di utilità (la datazione) ma che sembra quasi di poter leggere come tentativo di dare ‘credibilità’ scientifica o quantomeno tecnica ad una disciplina (o sottodisciplina, la ceramologia) ma che spesso ricade in un gioco fine a sé stesso.

Non è l’obiettivo di questo lavoro quello di ricostruire puntualmente la storia degli studi in merito alle varie definizioni, ma una generale carrellata può comunque aiutare a comprendere come dietro a classificazioni apparentemente semplici si agitino diversi discorsi divergenti, che spesso costituiscono solo l’elemento esteriore di fratture ben più profonde e connesse a importanti ma sottovalutate questioni teoriche. Non è comunque quest’ultimo il caso specifico del termine ‘ingobbio’.

Un’analisi archeometrica condotta su alcuni frammenti di ceramiche bassomedievali da mensa savonesi, ha evidenziato alcune caratteristiche comuni degli ingobbi usati. Questi mostrano caratteri piuttosto costanti e peculiari, suggerendo una derivazione dalle stesse argille. Dal punto di vista tecnologico è stato stabilito che tali rivestimenti necessitassero di temperature di cottura inferiori agli 850°. Per quanto riguarda la zona di provenienza invece, le analisi non permettono di individuarla con certezza, ma non escludono allo stesso tempo, considerata la loro scarsa qualità e la compatibilità dei loro costituenti con le litologie affioranti nel Savonese, un’origine locale di tale materia prima (Capelli, Marescotti 1999: 389).

Ornamenti graffiti + Repertorio decorativo

Relativamente alla graffitura, “dopo avere steso lo strato di “ingobbio”, sullo stesso venivano tracciati dei disegni, utilizzando uno strumento a punta. Non compaiono mai sulle GAT decorazioni eseguite “a stecca” o “a fondo ribassato”” (Berti, Gelichi 2006: 348).

Il repertorio decorativo è illustrato diffusamente da Varaldo (1997), in una esposizione che sicuramente ha un grosso merito di analiticità ma che (a parte rari casi, spesso comunque legati al rintracciare il ‘modello’ che influenza una determinata decorazione) non sembra discostarsi molto da un’analisi formale di tipo meramente storico-artistico poiché tale studio di varietà dei motivi decorativi non porta a considerazioni utili alla ricostruzione storica (cfr. infra, Varaldo 1997 p. 441-447).

Repertorio decorativo

“Quelli presenti sulla graffita arcaica sono motivi piuttosto semplici che si ispirano per la maggior parte a repertori decorativi d’influenza orientale, presenti sia sulle ceramiche bizantine, sia su quelle islamiche. Motivi decorativi che sono diffusi ed attestati in tutto il bacino mediterraneo (Turina Gomez 1986)” (Gardini Mannoni 1995: 96).

È bene ricordare che la scelta descrittiva di Varaldo è circoscritta al ‘disegno graffito’ e non ai di analisi e classificazione, motivo per cui la loro effettiva applicazione pratica non viene accolta. Ad esempio si vedano le considerazioni di Berti su rapporti dimensionali fra base ed altezza delle forme di Maiolica Arcaica Pisana per cercare di stabilire una tipologia basata su criteri di classificazione ‘oggettivi’ (in questo caso dimensionali) e soprattutto “aperta”, “all’interno della quale fosse possibile cioè inserire in una precisa posizione della sequenza qualsiasi forma, anche al moneto sconosciuta”. “Queste nuove formule…appaiono più specifiche per la caratterizzazione dei singoli tipi. I vantaggi che fornirebbero procedure del genere sono evidenti e non necessitano di commenti. D’altra parte, distinguere i tipi con sigle di fantasia non costituisce di

certo una prassi più corretta. Se l’impiego di quelle proposte può apparire indaginoso le stesse potranno essere

tratti di colore, in quanto questi ultimi sono presumibilmente considerati di carattere secondario e non determinanti. Tuttavia sarebbe bene interrogarsi se questa parte delle decorazioni abbia o meno un significato peculiare o svolga una funzione meramente ‘riempitiva’ che risponde dal punto di vista decorativo ad una disposizione casuale dei pigmenti. Quale significato potrebbe essere dato a questo fatto?

Come nel caso delle tipologie morfologiche, Carlo Varaldo ha contribuito nel 1997 a fissare il repertorio decorativo della GAT:

“lo schema maggiormente documentato è quello articolato su tesa e cavetto e relativo, quindi, alle forme 1, 2, 3 e 4 (scodellino, scodella, scodellone, piatto con tesa), per le quali sono stati individuati i seguenti motivi.

1. Graticcio (fig.2/a):

• sulla tesa e nel cavetto (il motivo più diffuso) • solo sulla tesa

• solo nel cavetto accompagnato, sulla tesa, da semplici filettature, archetti a doppia linea, festoni doppi isolati

• più raramente il graticcio al centro del cavetto è rinforzato da corone di ar- chetti o picchi a doppie linee.

2. Nodo di Salomone (fig.2/b), uno dei più complessi motivi decorativi della graffita per la difficoltà di realizzare un preciso intreccio sovrapposto (di conseguenza la qualità dei relativi reperti è piuttosto scadente). Varia dal semplice nodo, arric- chito da foglioline, al nodo sovrapposto ad una losanga e arricchito, al centro, da foglioline e motivi a squame.

3. Articolata è la serie degli intrecci e motivi geometrici (fig.3) che, proprio per la varietà dei temi, non può essere rigidamente codificata. Frequente è il rosoncino a otto spicchi, abbinato, sulla tesa, agli archetti accavallati, al festone di archetti, ai picchi, così come il doppio cerchio con corona di archetti che presenta all’interno l’asterisco, motivi informali e la sequenza di picchi isolati sulla tesa. Più affrettata e schematica la losanga e archetti con le sbarrette sulla tesa. Abbastanza frequenti i graticci delimitati da triangoli associati anche ad intrecci; gli asterischi e i motivi radiali, intrecci vari, accanto ad una rara campitura di cerchietti. Di grande qualità un grande bacino con tesa interamente ricoperta da intrecci geometrici contornata da fasce a treccia e a graticcio.

4. Ancora più ampia e varia è la sequenza dei geometrico-floreali e floreali stilizzati (fig.4, 5/a), dal semplice fiore a quattro petali lanceolati, spesso inseriti entro lo- sanghe e archetti, al fiore alternato a foglie, al bocciolo e petali, alle quattro foglie contrapposte, ai due fiori alternati ad altrettante foglie, al rosoncino più o meno stilizzato, ecc.

5. Sempre nell’ambito dei motivi floreali può essere isolato il motivo ad alberello fo- glialo (fig.5/b)

6. Motivi zoomorfi (fig.6/a-b), rappresentati soprattutto dal volatile, che tiene spesso una foglia nel becco (strettamente derivato dall’iconografia della graffita bizan- tina), e dal pesce squamato che campisce il centro del cavetto; non mancano più rare raffigurazioni animali, quali la testuggine.

7. Motivi araldici (fig.6/c), con particolare frequenza dell’arma della famiglia genove- se degli Spinola, dalla quale derivò un ramo savonese.

9. Non mancano comunque decori più occasionali e rari che non è possibile inqua- drare nelle precedenti tipologie.

Più in particolare, per i motivi che compaiono sulla tesa è possibile completare la tipo- logia presentata nel 1986, portando da 20 a 36 gli schemi individuati (fig.7):

10. semplici filettature 11. graticcio

12. losanghe 13. zig-zag

14. archetti a doppia o triplice linea, che possono essere disposti isolati, continui e ac- cavallati

15. festoni a doppia linea, che possono essere disposti isolati, continui e accavallati 16. archetti e festoni alternati

17. picchi a 2, 3 o 4 linee 18. galloni a 2 o 3 linee

19. sbarrette parallele, isolate e continue 20. sbarrette disposte a spinapesce o ad angolo 21. doppia sbarretta alternata con foglioline 22. doppia sbarretta alternata con nuvoletta 23. nuvolette isolate

24. intrecci (di festone e archetti continui o “a caramella”) 25. matassa spezzata

26. matassa continua

27. motivo geometrico (archetti e festone contrapposti) 28. serie di 3 o 4 archetti isolati

29. archetti continui 30. archetti staccati 31. archetti accavallati 32. archetti sovrappposti

33. coppia di archetti sovrapposti 34. catenella

35. treccia

36. foglie lanceolate isolate 37. foglie lanceolate continue 38. foglie lanceolate stilizzate 39. foglie ondulate

40. sbarrette isolate 41. sbarrette continue

42. motivo a S singolo, doppio, continuo 43. semicerchi a graticcio alternati a cerchietti 44. motivo ondato

45. picchi a doppia linea alternati a cerchietti

Molto meno ricca la gamma decorativa delle ciotole e dei grandi bacini emisferici e troncoconici, dove ritroviamo, con poche eccezioni, buona parte degli schemi decorativi già esaminati per le scodelle, come la semplice filettatura, il graticcio, le losanghe, gli archetti, i festoni, i galloni, le sbarrette, la treccia, le foglie lanceolate; non mancano decori nuovi, come gli anelli continui, la linea ondulata, volute calligrafiche o vari motivi floreali stilizzati più articolati” (Varaldo 1997 p. 441-447).