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Roma, fin dalla sua fondazione, aveva avuto contatti frequentissimi con la civiltà greca e non solo per ragioni belliche. La penetrazione della cultura greca in Italia centrale fu, inoltre, favorita anche dalla mediazione degli Etruschi, che contribuirono in maniera determinante alla formazione delle istituzioni civili, religiose e sociali del mondo romano.

Nella società romana, costruita attraverso l’influenza della civiltà greca e la mediazione degli Etruschi, non mancavano le occasioni per intonare canti rituali, monodici e corali, anche se di essi ben poco ci è stato tramandato: solo alcuni testi

cantati e alcune, sommarie, indicazioni di esecuzione. Una delle forme “pre-letterarie” più interessanti è sicuramente quella dei carmina sacrali legati, in qualche modo, alle Leggi delle XII Tavole47 le quali, a loro volta, presentano, nella versione sicuramente rimaneggiata a noi giunta, alcuni interessanti espedienti metrici e ritmici, come mostrano i seguenti esempi:

Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino: igitur em capito.

Se (l’accusatore) lo cita in giudizio (l’accusato) ci vada. Se non ci va, (l’accusatore) chiami dei testimoni, quindi l’afferri.

Adsiduo vindex adsiduus esto. Proletario quis volet vindex esto.

A un possidente sia garante un possidente; a un nullatenente sia garante chi vorrà.

Si nox furtum faxsit, si im occisit, iure caesus esto.

Se di notte uno facesse un furto e il derubato lo uccidesse, l’uccisione sia ritenuta legittima.48

È interessante notare come le allitterazioni e le assonanze contribuiscano, in questi testi rapidi e sentenziosi, a fornire una musicalità che, unita al ritmo dei cola49 paralleli e divisi, produce un sicuro effetto mnemonico, oltre che emotivo. Se si valuta che le Leggi delle XII Tavole sono tra le prime testimonianze della lingua latina, anche se non si tratta di latino classico, può risultare agevole considerare quanto questa lingua, fin dalle sue origini (o forse, soprattutto alle origini, anche se non ci sono fonti precise ad attestarlo), fosse particolarmente adatta al canto50. E sicuramente legati al canto sono,

47

Le Leggi delle XII Tavole costituiscono il fondamento primo della società culturale romana, esse costituiscono la più antica forma di diritto derivante da una serie di norme consuetudinarie scritte, appunto, su dodici tavole di bronzo. La loro importanza era tale da far sì che i dotti romani le analizzassero per secoli e i giovani le imparassero a memoria.

48

G.B.CONTE e E.PIANEZZOLA, Storia e testi della Letteratura latina, Firenze, Le Monnier, 3 voll: vol. 1, Alta e media repubblica, 19982, p. 5.

49

Il colon, cola al plurale, è una parte del periodo che la tradizione ha individuato in una sequenza di più di tre parole che, all’interno del periodo può assumere le funzioni di protasi (premessa o ipotesi) o di apodosi (conseguenza della condizione esposta in premessa); è il caso dei due periodi ipotetici appena citati (va aggiunto che la protasi, in poesia, nella poesia epica in particolare, ha la funzione di annunciare i fatti che stanno per essere narrati, unitamente ad una invocazione alle Muse, affinchè queste diano la capacità e la forza di narrare le grandi gesta degli eroi). Nella metrica classica il colon può indicare anche una sequenza metrica con una sua individualità ma che, tuttavia, non è ritmicamente autonoma e fa parte di una struttura metrica più ampia, come nel caso del verso lirico. [Cfr. G.B.CONTE e E.PIANEZZOLA,

Materiali e strumenti per lo studio della Letteratura latina, allegato a ID.,Storia e testi della Letteratura

latina, cit.,vol. 1, Alta e media repubblica, 19982, p. 74].

50

“Parlando proprio delle Leggi delle XII Tavole, Cicerone le definisce un carmen. Ma le stesse XII Tavole, a loro volta,, definiscono carmina le formule magiche, di cui decretano la messa al bando.” [G.B. CONTE e E.PIANEZZOLA, Storia e testi della Letteratura latina, cit., vol. 1, Alta e media repubblica, 19982, p. 5.]

fin dall’etimologia del nome, i carmina51 citati sopra e legati principalmente alle occasioni religiose. Tuttavia, con il termine carmen gli antichi latini si riferivano oltre che a preghiere, giuramenti e profezie, anche alle sentenze solenni dei tribunali, nonché a proverbi, scongiuri e insegnamenti pratici. Ne deriva che i carmina più antichi affrontano contenuti molto diversi tra loro, pur conservando identica forma che, ancor più delle Leggi delle XII Tavole, consiste in una prosa fortemente ritmata con reiterazioni di suoni (allitterazioni e assonanze) e con ripetizioni morfologiche che contribuiscono alla corrispondenza dei cola della frase, dal punto di vista della lunghezza e della composizione sintattica, ottenendo, così, un forte effetto di parallelismo verbale. La poesia arcaica, al contrario, ha una struttura metrica molto debole, che si riflette dal punto di vista ritmico; la ragione di tale “debolezza” è stata individuata nel verso saturnio, caratterizzato da una struttura metrica non rigida. Del verso saturnio, in realtà, non si sa molto, sebbene in saturni siano composti i primi due testi epici romani di cui restano frammenti, ossia la versione dell’Odissea di Livio Andronico e il Bellum Poenicum di Gneo Nevio. Per lungo tempo il saturnio è stato considerato un verso autoctono delle genti italiche, in particolare del Lazio, fino a quando si è scoperto che si trattava di un verso di origine greca trapiantato nel senso ritmico romano, offrendo una sintesi di elementi greci e romani.52

Quel che interessa, da quanto esposto, è proprio quel “senso ritmico romano” che caratterizza soprattutto la prosa arcaica, consentendo una certa vicinanza con una poesia, al contrario, molto debole dal punto di vista ritmico. Esemplare, riguardo alla ritmicità della prosa e al suo parallelismo verbale, è questa preghiera di purificazione dei campi, riportata da Catone nel De agri cultura:

uti tu morbos visios invisosque viduertatem vastitudinemque calamitates intemperiasque

prohibessis difenda averruncesque

che tu [o Marte] possa fermare, tener lontano e stornare malattie visibili e invisibili, sterilità e desolazione, flagelli e tempeste53

51

Il termine carmen contiene, nella sua radice etimologica, il termine cano che si traduce in “canto” e si può estendere, oltre che alla modulazione della voce, anche alla “voce poetica”, ossia alla poesia in generale.

52

Cfr. G. PASQUALI, Preistoria della poesia romana, con un saggio introduttivo di Sebastiano Timpanaro, Firenze, Sansoni, 1981.

53

G. B. CONTE e E. PIANEZZOLA, Storia e testi della Letteratura latina, cit., vol. 1, Alta e media

Probabilmente nel definire carmina le sentenze popolari, le formule magiche, le preghiere, gli scongiuri e molte altre pratiche sociali e religiose, vi è stato un certo arbitrio, da parte di studiosi e critici, arbitrio storico causato principalmente dalla carenza di fonti ma che, tutto sommato, non mette in discussione le caratteristiche formali di questi componimenti. Se si guarda a queste caratteristiche, si può agevolmente notare che i carmina rappresentano il più forte tratto di continuità tra le origini e la storia letteraria di Roma, infatti nel momento in cui gli influssi greci si sovrappongono a costituire un nuovo humus dal quale nasceranno i testi classici, il carmen è un elemento distintivo della cultura latina arcaica che perdura, rappresentando, nel suo modo di esporre e di scrivere (un modo che, oltre ad avere funzione mnemonica, si può considerare “ad effetto”, che colpisce i sensi, in particolare l’udito) versi e prosa, l’espressività dei Romani e, forse, di altri popoli italici. Questo tratto di continuità traccia una rete di collegamenti che conduce ai classici della letteratura latina: anche leggendo, o meglio, ascoltando, Plauto, Ennio, Catullo e Virgilio si possono avvertire certe cadenze, o addirittura dei veri e propri canti, sotto forma di nenie e filastrocche, riconducibili alla tradizione dei carmina largamente intesa, tradizione che sarà spesso rievocata anche in epoca medievale.

Isomma, i carmina, per la cultura latina arcaica, assurgono al ruolo di una vera e propria poesia sacrale (altro elemento di corrispondenza con la latinità cristiana e i primi secoli del Medioevo), in quanto dedicati soprattutto ad occasioni religiose e rituali. Sono sostanzialmente due i carmina rituali più importanti, più o meno attestati dalle fonti: il Saliare e l’Arvale.

Il Carmen Saliare era il canto di un collegio di dodici sacerdoti (Salii54) istituito da Numa Pompilio, questi sacerdoti, nel mese di marzo (in onore del dio Marte) di ogni anno, recavano in processione dodici scudi sacri cantando, appunto il carmen (che in realtà non doveva essere sempre lo stesso, si presume che essi avessero a disposizione diversi carmina, per questa ricorrenza) e praticando una sorta di danza rituale scandita in tre tempi (tripudium), battendo tre volte ritmicamente i piedi a terra seguendo le percussioni delle lance sugli scudi. Con questo canto, del quale si hanno tracce linguistiche di difficile interpretazione, i sacerdoti invocavano tutte le divinità, badando bene di non dimenticarne nessuna per non irritarla. Per questa ragione, data la

54

Il nome Salii deriva dall’etimologia di salio, ossia saltare, che era quello che, grosso modo, facevano questi sacerdoti durante i loro rituali.

complessità della religione romana arcaica, che prevedeva un sistema di numina55 molto articolato e alquanto numeroso, i carmina dovevano essere numerosi anch’essi e anche piuttosto lunghi.

Il Carmen Fratrum Arvalium era il canto di purificazione dell’arva, ossia dei campi, che la leggenda vuole istituito da Romolo, ed era praticato nel mese di maggio da un gruppo di 12 sacerdoti (Fratres Arvales) che invocavano la protezione di Marte e dei Lari, gli spiriti degli antenati defunti, invocati per proteggere la casa e la famiglia. Interessante è il ritmo ternario56 (allo stesso modo del tripudium saliare), mediante il quale venivano eseguiti questi canti, dal momento che la triplicazione di parole e gesti era considerata come una sorta di garanzia di efficacia per le pratiche magico-religiose, come si può rilevare da questo carmen, composto e inciso sul marmo in occasione di una cerimonia, del 218 d. C.:

E NOS LASES IVVATE E NOS LASES IVVATE E NOS LASES IVVATE

NEVE LVE RVE MARMAR SINS INCVRRERE IN PLEORIS NEVE LVE RVE MARMAR SINS INCVRRERE IN PLEORIS NEVE LVE RVE MARMAR SINS INCVRRERE IN PLEORIS

SATVR FV FERE MARS LIMEN SALI STA BER BER SATVR FV FERE MARS LIMEN SALI STA BER BER SATVR FV FERE MARS LIMEN SALI STA BER BER SEMVNIS ALTERNEI ADVOCAPIT CONCTOS SEMVNIS ALTERNEI ADVOCAPIT CONCTOS SEMVNIS ALTERNEI ADVOCAPIT CONCTOS E NOS MARMAR IVVATO

E NOS MARMAR IVVATO E NOS MARMAR IVVATO TRIVMPE TRIVMPE TRIVMPE TRIVMPE TRIVMPE

55

Nel termine Numen è racchiuso il concetto di “potenza divina” che si estese, nella fase arcaica della cultura e della religione romana, alla divinità non rappresentata da un dio specifico, ma da una entità indefinibile e potente. Tale divinità era riconoscibile negli elementi e nei fenomeni naturali, come la terra e il fuoco, oppure il tuono e il fulmine. Erano, tuttavia, molte le personificazioni divine (il fuoco, Vesta; la terra, Tellus, il cielo, Giove, e così via), pertanto il sistema delle divinità, e le occasioni rituali ad esse legate, erano piuttosto numerose e complesse.

56

Il ritmo ternario, in musica, è determinato da tre pulsazioni per ogni battuta, per la poesia è l’alternarsi di una sillaba forte e due deboli, l’accento forte, cioè, cade ogni tre pulsazioni.

Traduzione successiva a trascrizione in latino classico (con alcune incertezze interpretative), senza la triplice ripetizione dei versi:

Oh, Lari, aiutateci!

E tu non permettere, Marmar, che peste e rovina aggrediscano il popolo ancora. Sii sazio, Marte feroce, balza sulla nostra soglia e là, là sta a nostra difesa. Tutti i Semòni, a turno, egli chiamerà a sé.

Oh, Marmar, aiutaci! Trionfo, Trionfo!57

Oltre a questi e ad altri carmen sacrali, gli antichi romani intonavano canti conviviali, i cosiddetti carmina convivalia che erano cantati, con l’accompagnamento della tibia58, presso l’aristocrazia romana ed erano, in genere, di argomento epico- eroico, volto alla glorificazione delle gesta degli antenati e, in generale, della romanità. Accanto a questi vi erano i carmina triumphalia che, come dice il nome, erano dei canti di trionfo, di vittoria, intonati dai legionari romani. In questi canti il condottiero che aveva guidato la battaglia vittoriosa, oltre ad essere lodato, era schernito e preso in giro, al fine di moderare l’esaltazione dei soldati e la superbia del condottiero stesso. Infine, erano praticate le neniae (lamentazioni) funebri, ma di queste e della maggior parte dei canti citati sopra ben poco si conosce, dal punto di vista documentario, soprattutto per ciò che riguarda la musica.

Il passaggio dalla poesia e dalla musica greca fu segnato in particolar modo dal teatro: battute scherzose e farse paesane inscenate tra attori e pubblico, come nel caso dei Fescennini59, erano accompagnate, in un clima di ampia improvvisazione, da canti e danze; canti e danze che incontrarono una loro legittimazione con l’istituzione dei ludi scenici,60 nel 364 a. C., realizzati per far cessare una grave pestilenza che attanagliava la

57

G. B. CONTE e E. PIANEZZOLA, Storia e testi della Letteratura latina, cit., vol. 1, Alta e media

repubblica, 19982, p. 12.

58

La tibia è uno strumento a fiato, derivante dall’aulós greco, molto simile ad una sorta di oboe doppio (infatti è denominato anche oboe doppio lidio) e aveva canne di uguale lunghezza e i fori per le dita in identica posizione, sulle canne stesse. [Cfr. C.SACHS, Storia degli strumenti musicali, cit., pp. 157-158].

59

I Fescennini versus, erano dei versi mediante i quali, con battute sboccate e licenziose, venivano improvvisate delle scenette teatrali, prima dagli Etruschi e poi dai Romani. Sull’origine del nome vi sono numerose congetture (dalla città di Fescennia, tra Etruria e Lazio, oppure dalla parola fascinum, intendendo per essa sia il malocchio che il membro virile, dandole, così, un riferimento fallico facilmente comprensibile nelle battute di scherno), la cosa certa è che questi versi, che rivelavano anche una funzione apotropaica, non raggiunsero mai una dignità letteraria (la loro matrice fortemente popolare glielo impediva), ma concorsero in qualche modo alla nascita della drammaturgia latina. [Cfr. G. B. CONTE e E.PIANEZZOLA, Storia e testi della Letteratura latina, cit., vol. 1, Alta e media repubblica, 19982, p. 13.]

60

I primi ludi, nel senso più proprio di “giochi” risalgono addirittura all’età di Romolo e consistevano in giochi sportivi, corse di cavalli e similari. Con Tarquinio Prisco essi divennero i ludi romani e si trasformarono in una vera e propria festa che si celebrava in settembre, fino a quando, nel 364 a. C., appunto, in essi furono inserite delle forme teatrali legate ai Fescennini e consistenti un sequenze di danze, canti, balli e scenette farsesche che ben presto, data la loro eccessiva licenziosità che conduceva ad

città di Roma. In questi ludi degli attori, di origine estrusca, danzavano accompagnati dal suono della tibia al quale fu presto affiancato, dai giovani romani, un canto ritmicamente variato. I danzatori assunsero la denominazione, sempre di origine etrusca, di histriones61, mentre le loro composizioni vennero chiamate saturae.62 Questi spettacoli improvvisati durarono fno alla metà del III secolo a. C., quando, dopo la prima guerra punica, furono gradualmente sostituiti da tragedie e commedie in latino, mutuate dal teatro greco. Importante fu, da questo punto di vista, il primo autore della teatro latino: un greco di Taranto che rispondeva al nome di Livio Andronico, condotto a Roma come schiavo e, in seguito, liberato. Con Livio Andronico nasce la letteratura latina, anche se stabilire dei primati porta in sé delle inevitabili forzature, tuttavia non si può non considerare che la traduzione dell’Odissea in versi italici, ossia in saturni, ebbe una portata storico-letteraria enorme, se si pensa che sull’Odusia di Andronico (l’Odissea tradotta) studieranno le generazioni a venire. Accanto alla traduzione del testo omerico, Livio diede anche avvio alla drammaturgia latina, aprendo la strada a poeti come Nevio, Ennio, Plauto, Cecilio Stazio, Pacuvio, Accio e Terenzio, veri protagonisti della vita culturale romana tra il III e il II secolo a. C.

Il teatro romano, punto d’incontro tra poesia e musica, si muoveva ancora secondo coordinate greche, anche se non in maniera conforme alle strutture originali dei testi classici. Gli autori romani, in particolare i poeti comici, usarono la tecnica della contaminatio, che consisteva nel “contaminare” diverse trame tratte dal ricco repertorio attaccare parodisticamente personaggi in vista, decretarono la loro fine per mano dei severi legislatori romani. Anche i ludi ebbero origini etrusche e, pur non assumendo mai la dimensione teatrale vera e propria, contribuirono molto alla nascita di una drammaturgia latina. [Cfr.G.COMOTTI, La musica nella

cultura greca e romana, cit., pp. 53-54].

61

Histriones deriva dal termine etrusco hister e sta principalmente per mimo e ballerino. Pare che il nome derivi dalla regione Histria, ai confini dell’Illiria, ossia dalla località donde provenivano i primi commedianti. È interessante notare che essi, nella civiltà romana arcaica, assunsero il ruolo di mimi perché il volgo romano non intendeva la lingua etrusca, per cui i commedianti si facevano capire con il linguaggio del corpo. Successivamente il termine si estese a tutti gli attori, da tragedia e da commedia. [Cfr. G. B. CONTE e E.PIANEZZOLA, Storia e testi della Letteratura latina, cit., vol. 1, Alta e media

repubblica, 19982, p. 18.]

62

Satura quidem tota nostra est, diceva orgogliosamente Quintiliano nel I secolo d. C., ed è

effettivamente un genere tutto romano che ha, però, radici etrusche in quanto, prima di assumere dignità letteraria, era un insieme o, più propriamente, un “miscuglio” di poesia, musica, danza e recitazione, legate anche ad una forma di improvvisazione. Il termine satura deriva da un piatto costituito da un insieme variegato di frutti (da qui il significato di “miscuglio”) da offrire agli dei. Anche nella satira è possibile riconoscere lo spirito farsesco dei fescennini e dei ludi scenici soprattutto nei tempi in cui essa era usata per le celebrazioni in onore della dea Cerere. Probabilmente a questa sua ambivalenza di origine arcaica è dovuta la divisione tra satira drammatica, legata alla rappresentazione, e satira letteraria, destinata alla lettura. Il primo autore a darle dignità letteraria fu Ennio, dopo di lui fu elaborata in forme e contenuti diversi da Pacuvio, Lucilio e Varrone, fino a giungere ad Orazio, in età augustea. [Cfr. G.B. CONTE e E.PIANEZZOLA, Storia e testi della Letteratura latina, cit., vol. 1, Alta e media repubblica, 19982, p. 343.]

della commedia greca, queste trame venivano, cioè, integrate (talvolta sostituite) da alcune scene di altre commedie dello stesso autore o di autori diversi, il tutto in un processo di traduzione dal greco al latino. Del resto, anche la divisione delle parti della commedia, tra recitate e cantate, subì una forma di contaminatio, nel senso che gli autori latini, non rispettando fedelmente il modello (e il testo) greco, affidarono al canto anche alcune parti destinate alla recitazione. Interessante, a questo proposito, è la distinzione tra cantica e deverbia rispetto ai quali si pronuncia in maniera inequivocabile il grammatico Elio Donato63:

Deverbia histriones pronuntiabant, cantica vero temperabantur modis non a poeta sed a perito artis musicae factis.

Gli attori recitavano i deverbia, i cantica venivano adattati ad una musica composta non dal poeta, ma da un musicista.64

La musica, sempre secondo quanto attestato da Elio Donato, era ben presente nella commedia,: i canti venivano accompagnati da suono della tibia o del flauto e anche le parti recitate erano presentate dalla musica, mediante l’utilizzo di un flauto destro e un flauto sinistro. Quando la commedia entrava in una parte seria, il flauto di destra lo annunciava con un suono grave, mentre le parti comiche erano preannunciate dal suono acuto del flauto sinistro. Quello che più colpisce, in questa divisione tra cantica e deverbia è, però, l’utilizzo dei metri poetici: le parti recitate, in genere, erano composte in senari giambici, mentre quelle cantate in metri diversi (cretici e bacchei, ad esempio), ma spesso venivano utilizzati anche settenari e ottonari giambici. Ora, mentre la distinzione tra cantica e deverbia, in alcuni manoscritti (alcune commedie di Plauto), è attestata dalle sigle DV (deverbia) e MMC (mutatis modis canticis, che stava ad indicare anche la varizione delle musiche) poste accanto al testo, per le altre parti – proprio quelle in settenari e ottonari giambici – questi riferimenti erano assenti. Tale assenza ha portato a pensare, ma la questione è controversa, che per questi metri si potesse pensare a qualcosa di molto simile al “recitar cantando”, ossia al recitativo dell’opera lirica, e probabilmente questo recitativo – visto che non è indicato diversamente – doveva entrare a far parte di una delle due divisioni, oppure dovevano esistere due tipologie di cantica (solo cantato e cantato più recitativo) e due tipologie di deverbia (solo parlato e parlato più recitativo). Esemplari sono, in merito, proprio le commedie plautine, nelle quali la varietà di ritmi e metri, nonché la loro repentina

63

Cfr. Ivi, p. 25-26.

64

alternanza, producono notevoli effetti emotivi nello spettatore. Tuttavia, proprio questa ricchezza di variazioni spinge a pensare che non tutte le parti accompagnate dalla musica potevano essere cantate, per cui, è plausibile che alcune parti, recitate con