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D AL CANTO GREGORIANO ALLA MONODIA PROFANA

Rivestito dei paramenti pontificali, con lo stilo e il volumen tra le mani, mentre la colomba (simbolo della divina ispirazione) gli suggerisce i testi e le melodie liturgiche: lo schema iconografico di papa Gregorio I (590-604) trasmesso dalle miniature d’innumerevoli fonti liturgiche medioevali riassume la secolare convinzione che attribuiva a Gregorio un ruolo diretto ed essenziale nella creazione del patrimonio liturgico dell’Occidente, al punto da imporre la denominazione di “gregoriano” al canto della Chiesa di Roma.

L’autenticità di questa tradizione fu per la prima volta posta in dubbio nel secolo XVII (Pierre Goussainville); poi, a partire dal secolo scorso, il problema emerse in modo più radicale e impellente, costringendo gli storici a scegliere tra posizioni contrapposte. Neppure oggi la querelle ha trovato completa e definitiva soluzione, ma le ricerche condotte per suffragare storicamente le rispettive tesi consentono un giudizio più equilibrato e rispondente a verità.129

La tradizionale denominazione di “canto gregoriano”, dunque, non è direttamente riferibile a papa Gregorio Magno, ma con essa si tende, o meglio, si tendeva, ad identificare un po’ tutto il patrimonio del canto cristiano latino e medioevale. La stesse

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In questo contesto è opportuno ricordare che “il secondo Concilio di Tours (567) spalancò le porte non solo agli “ambrosiani” ma ad ogni testo scritto in modo degno e di cui si conoscesse l’autore. [G.CATTIN,

La monodia nel Medioevo, cit., p. 27.]

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innovazioni a lui ricondotte per secoli, ossia l’ordinamento dell’Antifonario romano (la raccolta dei soli testi dei canti liturgici, dato che la notazione ai tempi di Gregorio I non esisteva) e l’istituzione della schola cantorum (il corpo di cantori professionisti che eseguivano e tramandavano, inizialmente in modo orale, il repertorio dei canti) sono state ampiamente messe in discussione. La fonte prima di attribuzione di queste riforme è stato Giovanni Diacono che nella sua Vita Gregorii Magni scrive, riguardo alle innovazioni realizzate dal pontefice: “[…] antiphonarium centonem, cantorum studiosissimus, nimis utiliter compilavit. Scholam quoque cantorum […] constituit”.130 In realtà, quando Giovanni Diacono compilava la Vita erano passati circa tre secoli dalla morte di Gregorio Magno, ed erano stati i secoli piuttosto travagliati delle invasioni barbariche, avari di documenti che possano confermare quanto scritto nella biografia del pontefice.

Sicuramente la figura di papa Gregorio I fu importante per il mondo cristiano, che prima lo insignì del titolo di “Magno” e poi ne fece un santo, per la sua azione umana (e cristiana) esemplare, fin da quando trasformò la casa paterna sul Celio in un monastero per ospitare la regola benedettina, ove rimase in ascesi per poco tempo, dato che fu chiamato come ambasciatore a Costantinopoli e, successivamente, divenne segretario del papa, a Roma, negli anni in cui la città era continuamente assediata da Ostrogoti e Bizantini, correndo il rischio di essere distrutta da re Totila. La sua attività di papa è ampiamente documentata in un epistolario, mediante il quale si può risalire ai contatti che intrattenne con molte chiese d’Italia per appianare controversie e incoraggiare al bene. In questa ottica va vista anche la sua azione cristiana e politica: evangelizzazione dell’Inghilterra, rapporti continui con le chiese d’Africa e d’Oriente, rapporti con i barbari (Longobardi in Italia, Visigoti in Spagna e nelle Gallie) e, infine, la sua attività letteraria, tra omelie, dialoghi, commentari biblici ed epistolari, ma nulla, o quasi, che riguardi da vicino il canto cristiano: se interventi vi furono in quella direzione, furono conseguenza, diretta o indiretta, di iniziative a carattere prettamente liturgico, nella sua opera di generale riordino del rito.

È certo che, a seguito dell’opera di Gregorio Magno, a Roma, si ebbe una rapida evoluzione del canto cristiano, proprio grazie ad una sorta di gerarchia che si era stabilita tra i cantori del pontefice (da qui, probabilmente, la cosidetta “istituzione” della schola cantorum romana); alcuni di essi, come l’arcicantor Giovanni e il sotto-priore

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Simeone131, spostandosi in Inghilterra e nelle Gallie, introdussero in queste terre il “canto gregoriano”. È, quindi, successivamente alla morte di Gregorio I, tra l’VIII e il IX secolo, quando in Svizzera e nell’Italia del Nord appare un Antiphonale Missarum, nel quale sono attribuite al pontefice le melodie, che nasce la definizione (e l’attribuzione) di canto gregoriano; di fatto, però, il canto cristiano s’incammina verso le Gallie, al punto che si potrà parlare di canto romano-franco.

Un’altra figura storica, dopo Gregorio, si rivela importante ai fini del percorso storico della poesia per musica ecclesiastica, si tratta di Carlo Magno che, divenuto imperatore nell’800, impose in tutto l’Impero d’Occidente, due o tre anni più tardi, in una fase di riordino e stabilizzazione politica e religiosa, con una serie di atti legislativi, il canto romano. Questo processo, in realtà, si era già avviato nel secolo precedente, con i viaggi dei cantori romani nelle Gallie e con l’azione riformatrice dei vescovi Rémi, di Rouen, e Crodegango, di Metz (quest’ultima città fu considerata, per tutto il IX secolo, centro d’irradiazione del canto romano in Francia). Giacomo Baroffio, in un recente e interessante saggio, nel quale non manca di definire, in maniera netta, la dimensione storica del canto gregoriano tout court, sottolinea proprio questo passaggio:

Le melodie gregoriane – e anche quelle di altri riti latini medievali – sono tramandate da fonti molto tardive rispetto alla presunta data di composizione. Il processo redazionale “definitivo”, inoltre, ha cercato di coniugare insieme nova et

vetera nell’amalgamare, attraverso un linguaggio il più possibile unitario, impulsi

creativi contemporanei e patrimonio tradizionale con una lunga storia alle spalle. Tale operazione è avvenuta presumibilmente tra la seconda metà del VII secolo (a Roma) e la prima metà del secolo successivo (in territorio franco).132

La definizione di canto gregoriano, dice Baroffio, nasce da un “coniugare insieme nova et vetera”, vale a dire quello che c’è stato prima con quello che c’è attualmente (ponendo come attualità l’VIII secolo) e, forse, con quello che ci sarà in futuro, insomma almeno dieci secoli di canto cristiano. Ciò, come abbiamo visto, non è possibile perché prima del riordino della liturgia, effettuato da S. Gregorio e, due secoli dopo, da Carlo Magno, sia pure in un quadro più vasto di riassetto politico, non vi era, in Oriente e Occidente, nessuna uniformità liturgica, cosa che si rifletteva nel canto; addirittura erano presenti nicchie particolari che raccoglievano varie influenze: si pensi a Benevento e Aquileia. Particolare era anche la liturgia gallicana e il suo canto si

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Ivi, p. 67.

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G.BAROFFIO, Segno ed espressività nella liturgia. L’orizzonte simbolico del canto gregoriano, in G. BORIO e C.GENTILI, Espressione, forma, opera. Storia dei concetti musicali, Roma, Carocci, 2007, pp. 15-30, p. 15.

intrecciava con il canto cristiano di Roma, questo incontro, o trasposizione che sia, non essendovi ancora notazione scritta, avveniva principalmente attraverso l’oralità e la memoria dei cantori, con una differenza sostanziale tra testo e melodia, tenendo ben presente che il testo del canto liturgico è “parola” di Dio, mentre la melodia è il “contesto” nel quale tale “parola” si inserisce e chiaramente:

Le stesse parole in un contesto diverso possono esprimere differenti sottolineature che di volta in volta scoprono nuovi aspetti dell’infinita ricchezza del messaggio. Questa diversificazione operata in forza dell’aderenza al particolare contesto liturgico non produce tuttavia un repertorio con un numero troppo elevato di melodie, il che potrebbe creare inutili problemi nella memorizzazione e nella trasmissione orale del repertorio, come di fatto è avvenuto fino al XII secolo circa. A un numero assai grande di canti (alcune migliaia) corrisponde, infatti, un repertorio relativamente ridotto di melodie. Tecniche raffinate di composizione permettono al cantore di creare melodie con elementi ripetitivi che sono utilizzati secondo modalità diverse condizionate spesso dall’oralità che interessava sia la produzione delle melodie sia la loro diffusione […]133

L’oralità, caratteristica di trasmissione riferita soprattutto alla musica, almeno fino alla diffusione della notazione, non consentiva il proliferare incontrastato di melodie. Questa mancata prolificità, e il limitato numero di melodie esistenti, consentiva una più agevole trasmissione delle stesse e, di conseguenza, una maggiore possibilità di contaminazione tra le varie forme di canto cristiano occidentale, accomunato, ormai, dalla stessa lingua d’uso, ossia il latino, cosa che avvenne, tra il canto romano e il canto gallicano:

In una parola, parallelamente a quanto avvenne per i testi e gli ordinamenti liturgici, bisogna ammettere che una profonda contaminazione si sia verificata tra la tradizione melica romana e quella gallicana. Secondo l’ipotesi sempre più attendibile ne sarebbe nato il repertorio che ora chiamiamo “gregoriano”, che viene perciò a costituire, in sede musicale, l’esatto pendant della liturgia romano- franca.134

E fu proprio in questa contaminazione, in questi ambiti geografico-culturali, tra Roma e Metz, in piena età carolingia, che si cominciò ad avvertire l’esigenza di fissare sulla carta particolari melodie che accompagnavano il testo: il cantore, come accennato, non si affidava alla sua personale ispirazione, nell’esecuzione melica, ma si rifaceva a delle formule melodiche tramandate oralmente, con l’ausilio della memoria; Roma e Metz detenevano l’identità vera della tradizione gregoriana e, quindi, le formule “esatte” di cui sopra, cui i cantori facevano riferimento. Il nome di Gregorio Magno costituiva il necessario collante che teneva insieme questo sistema, in un’aura di

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Ivi, p. 30.

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sacralità che ne garantiva la scupolosa conservazione. Fu proprio in area franca che, nel pieno delle riforme carolinge, intorno all’800, nacquero le prime forme di notazione. La difficoltà nel conservare mnemonicamente alcuni brani che venivano raramente eseguiti fu la ragione che spinse ad utilizzare primordiali forme di notazione: nacque così la notazione neumatica, che germinava proprio da una sorta di “arte della memoria”135 legato al movimento della mano (chironomia) che indica nello spazio la melodia nelle sue direttrici di ascesa e caduta.

La notazione neumatica è un sistema molto complesso di segni (neumi) che variò da regione a regione, spingendo alla definizione dei modi musicali e all’invenzione (XI secolo) del tetragramma per l’apposizione delle note. Interessante è il rapporto che si stabilisce, nel canto liturgico in esame, tra neumi e parole, si tratta di un rapporto che sottolinea, nella sua multiformità, un nesso inscindibile tra testo poetico e melodia che si trapianterà, in modi e forme varie, nel successivo canto monodico profano. Nella monodia liturgica la frase musicale è composta per ornare il testo, partendo da questo assunto di base risulta evidente che il ritmo vive e si rivela in funzione delle parole del testo e, precisamente, nel rapporto che intercorre tra sillaba e segno neumatico, perché è proprio la sillaba che fornisce al neuma la misura, influendo sulla qualità melodica. Infatti la sillaba tonica è naturalmente pù alta, più elevata, della sillaba atona e, dunque, in un contesto prettamente verbale, come quello del canto gregoriano, è proprio l’intensità della sillaba, unita alla sua posizione ritmica all’interno della parola, a fornire il valore del neuma. Naturalmente questo rapporto testo-neuma è legato alla disposizione delle parole nel verso e, quindi, alla punteggiatura, alla coordinazione ritmica delle sillabe e alla loro articolazione: più il testo è chiaro, in queste sue caratteristiche, più l’interpretazione musicale di esso diventa fedele e naturale. Ne discende che nel canto gregoriano si può incontrare spesso, se non sempre, una coincidenza pressoché perfetta tra cadenza testuale e cadenza musicale, evento che, naturalmente, si riflette sulle melodie. Questa coincidenza ritmico-melodico tra testo e musica induce a pensare che il processo creativo dei due elementi sia unitario, ipotesi sicuramente fondata:

Nel periodo classico della produzione gregoriana il lungo esercizio e l’assiduo tirocinio ponevano il cantore-solista nelle condizioni adatte per ricreare in forma artistica la melodia per il testo liturgico, anche se egli utilizzava formule

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Per una trattazione esaustiva dell’argomento, cfr. A. M. BUSSE BERGER, La musica medievale e l’arte

stereotipate. Il suo talento si rivelava appunto nella capacità di trasformare isolate aggregazioni formulari in una creazione unitaria. Ciò rimane vero anche per la fase della tradizione scritta. Il fondo antico del patrimonio gregoriano è nato dalla geniale e inesauribilmente varia elaborazione del bagaglio formulare tradizionale in una foram d’arte nuova e perfetta; meno scoperta e faticosa è la sutura tra l’informe materiale mnemonicamente appreso, o desunto da preesistenti canti, più alto è il grado di perfezione d’un brano. Pertanto, pur nell’adozione di questa tecnica compositiva denominata usualmente «centonica», rimaneva ampio spazio per la genialità del melografo, il cui intervento creativo è insostituibile e la cui impronta originale rimane incancellabile. Del resto nella lunga storia della formazione del repertorio gregoriano si danno pure i casi di creazioni musicali affatto indipendenti da formule e modelli: non c’è dubbio che, in tale processo, la melodia è strettamente dipendente dal testo, ch’essa interpreta e commenta.136

Da quanto esposto risultano chiare ed evidenti due modalità compositive incontrovertibili, riguardo al canto gregoriano: la prima vede una notazione musicale che segue il testo letterario nel suo procedere scritto, la seconda coinvolge il processo creativo in un unicum tra testo e musica, come conferma lo stesso Baroffio:

Se nel campo della notazione è chiaro che la scrittura musicale segue la scrittura di testi letterari e in parte si basa su quei modelli, non è per nulla scontato che l produzione musicale segua quella testuale, nel senso che dopo aver composto un testo si sia pensato a metterlo in musica. Soprattutto ion campo poetico non è escluso che l’artista concepisse un testo letterario in musica, in un processo creativo, cioè che vede sbocciare nel canto il testo stesso. È pertanto difficile stabilire per i canti liturgici una priorità del testo, a meno che non si tratti dell’elaborazione di un brano biblico.137

Un’analisi attenta e sistematica dei neumi, della loro derivazione regionale, della loro classificazione138, nonchè nei loro rapporti con tempo e ritmo del canto gregoriano, per quanto interessante, condurrebbe il discorso in dimensioni lontane da quelle preposte. In questa sede basterà sapere che le prime forme (IX secolo) di notazione musicale, e i successivi adattamenti e miglioramenti, tesi ad uniformarne il linguaggio, consentirono di estrarre dal buio della trasmissione orale le melodie e le musiche del canto cristiano; nel permettere di individuare e conoscere il loro rapporto con il testo, crearono anche le condizioni sufficienti per la trasmissione del canto profano. Il canto profano molto deve al canto gregoriano, inteso nella sua accezione più vasta, non solo per la sua capacità di conservazione e di trasmissione attraverso i secoli delle pratiche e,

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G.CATTIN, La monodia nel Medioevo, cit., p. 90.

137

G.BAROFFIO, Segno ed espressività nella liturgia. L’orizzonte simbolico del canto gregoriano, in G. BORIO e C.GENTILI, Espressione, forma, opera. Storia dei concetti musicali, cit., p. 22.

138

Per una classificazione sistematica dei neumi cfr. G.CATTIN, La monodia nel Medioevo, cit., pp. 78- 106.

soprattutto, delle teorie e musicali greco-romane: basti pensare a Sant’Agostino139, Boezio140, Cassiodoro141 e Isidoro di Siviglia142 che, con il loro pensiero, mutuato da

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Eminente Padre della Chiesa, sant’Agostino, vescovo di Ippona (354 – 430) esercitò, una profonda influenza sul pensiero medievale, soprattutto attraverso Le confessioni e il De civitate dei. Il De musica, imponente trattato musicale in sei libri, affronta soprattutto questioni riguardanti il metro, il ritmo e il verso, infatti, è considerato per lo più un trattato di metrica. Centrale è, nel trattato, la definizione di musica come scienza che, in quanto tale, coinvolge la ragione, non semplicemente i sensi, che pure sono interessati da essa. La musica è, per sant’Agostino, l’arte del movimento ben regolato, ossia l’arte dei rapporti numerici e dei tempi e, in definitiva, l’arte del numero che può generare piacere solo mediante l’ordine, l’armonia del movimento stesso, del suono che deve ridursi a rapporti numerici semplici, gli unici che possono essere valutati buoni dalla ragione. La musica, insomma, assume dignità di scienza proprio in quanto numero e perciò oggetto della ragione. Importante è, in un più ampio contesto culturale, l’incontro, mediato dal De musica, tra la mistica dei numeri di radice pitagorica con la mistica cristiana. [Cfr. E.FUBINI, L’estetica musicale dall’antichità al Settecento, cit., pp. 63-71].

Riguardo alla musica come scientia bene modulandi, tenendo presente che per Agostino d’Ippona

modulazione significava movimento, non passaggio di tonalità, è emblematico il dialogo tra Discepolo e

Maestro, contenuto nel primo libro del De musica:

M.: Rispondimi dunque: ti sembra che moduli bene la sua voce l’usignolo in primavera? Il suo canto è ritmico e delizioso: se no erro ben s’addice alla stagione.

D.: Mi sembra davvero.

M.: Forse l’usignolo è esperto di quest’arte liberale? D.: No.

M.: Vedi dunque che il concetto di scienza è assai necessario alla definizione. D.: Perfettamente.

M.: Ora, ti prego, dimmi una cosa: non ti sembrano simili all’usignolo tutti quelli che cantano bene, sorretti soltanto da un certo istinto (c’è ritmo e dolcezza in quel che fanno) ma che interrogati sui ritmi impiegati o sugli intervalli dei suoni acuti e gravi, non sono in grado di rispondere?

D.: Assai simili li giudico.

M.: Che dire allora di coloro che, privi di conoscenze specifiche, volentieri li ascoltano? Vediamo gli elefanti, gli orsi e alcune altre specie di animali muoversi secondo il ritmo musicale, e gli stessi uccelli si dilettano del loro canto (infatti se non vi riconoscessero qualche utilità non canterebbero così, come cantano, senza un certo piacere): quegli uomini non sono forse da paragonare alle bestie? [AUGUSTINUS AURELIUS, De musica, a cura di Giovanni Marzi, Sansoni, Firenze, 1969, p. 100.]

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Le opere di Boezio (circa 475 – 525), De consolazione philosophiae su tutte, hanno notevolmente influenzato la filosofia cristiana del Medioevo. Alla base del pensiero filosofico di Boezio era il principio della natura come oggetto della fisica costituita da sette elementi a loro volta suddivisi in due gruppi, quello del quadrivium, che comprendeva aritmetica, geometria, musica e astronomia, e quello del trivium che comprendeva grammatica, logica e retorica. Il suo De institutione musicae è un trattato di armonia nel quale sono distinti tre generi diversi: una musica mundana, una musica humana e una musica

instrumentalis o instrumentis constituta. Boezio “è l’erede più fedele del pensiero classico e sembra del

tutto indifferente al significato e alla portata religiosa della nuova musica. La famosa suddivisione della musica secondo tre generi diversi, che tanta importanza conservò durante tutto il Medioevo e ancora nel Rinascimento, è anch’essa di derivazione classica e pitagorica e non presenta alcun addentellato teologico. La suddivisione in tre musiche, quella mondana, quella umana e quella degli strumenti, ci riporta infatti a ben più antiche distinzioni e lo sfondo concettuale su cui si articola è sempre il medesimo, cioè la svalutazione del lavoro manuale e di ciò che cade sotto i nostri sensi e il relativo privilegiamento della pura ragione e del soprasensibile. La musica mondana, la prima nell’ordine di preferenza per Boezio, non è altro che la musica delle sfere e si identifica al limite con il concetto stesso di armonia in senso lato. […] non è prodotta solo dal movimento degli astri ma anche dal succedersi delle stagioni e da tutti i movimenti cilici e ordinati della natura. Prerciò questo «suono» va identificato piuttosto con il concetto di armonia e la sua udibilità diventa un fattore del tutto secondario, addebitabile comunque all’imperfezione della natura umana, incapace di cogliere a pieno l’armonia cosmica.” [E. FUBINI,

L’estetica musicale dall’antichità al Settecento, cit., pp. 72-73]. La musica mundana si pone, così, ad

essere l’unica vera musica e le altre due sono un suo riflesso, in relazione alla loro partecipazione all’armonia del cosmo. Ecco che, allora, la musica humana rappresenta la mescolanza, nell’uomo, di corpo e anima, mescolanza derivante dal rapporto fra elemento fisico ed elemento intellettuale e, pertanto, percepibile solo con un'attività di introspezione in quanto, rappresentando l’armonia dell'uomo con se

quello di Pitagora, Aristotele e Platone, influenzeranno tutta la teoria – e non solo – musicale del Medioevo143, bensì per il gradiente di libertà intrinseco nel suo stesso linguaggio che è in grado di condurlo in territori lontani da quelli originari (il canto profano, appunto) come sottolinea Baroffio:

Repertorio anonimo, il gregoriano assurge a utopia del linguaggio musicale anche