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L E DIFFICOLTÀ DI UN “ DIVORZIO ”, TRA S CUOLA SICILIANA E “ VERSI D ’ AMORE IN

VOLGARE”

È stata una fantasia persistente: la prima lingua che gli uomini hanno parlato era musica, poesia e scienza allo stesso tempo. All’inizio una stessa parola, insegnata

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Su Garzo le ipotesi sono numerose e derivano dal fatto che il suo nome ricorre in alcune strofe di laude, come in Amor dolçe sença pare. Queste ricorrenze possono indicare sia l’autore, sia il cantore, nel senso di garçon e, dunque, di “ragazzo” o, segnatamente, di “ragazzo cantore”. [M.S.LANNUTTI, La letteratura

italiana del Duecento, cit., p. 135.]

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In termini di pura curiosità, ma significativa riguardo all’indice di “popolarità” che la lauda aveva raggiunto nel Duecento e nel Trecento, è una novella del Decameron, quella della fantasima, che narra la storia di una moglie adultera il cui marito è un laudese; questo il ritratto del Boccaccio:

“Egli fu già in Firenze nella contrada di San Brancazio uno stamaiuolo, il quale fu chiamato Gianni Lotteringhi, uomo più avventurato nella sua arte che savio in altre cose, per ciò che, tenendo egli del semplice, era molto spesso fatto capitano de’ laudesi di Santa Maria Novella, e aveva a ritenere la scuola loro, e altri così fatti ufficetti aveva assai sovente, di che egli da molto più si teneva: e ciò gli avveniva per ciò che egli molto spesso, sì come agiato uomo, dava di buone pietanze a’ frati. Li quali, per ciò che qual calze e qiual cappa e quale scapolare ne traevano spesso, gl’insegnavano di buone orazioni e davangli il paternostro in volgare e la canzone di santo Alesso e il lamento di San Bernardo e la lauda di donna Matelda e cotali altri ciancioni, li quali egli avea molto cari e tutti per la salute dell’anima sua se gli serbava moltpo diligentemente”. In questa descrizione il Boccaccio non manca di inserire, tra i tanti “cencioni”, riferimenti abbastanza precisi, citando (probabilmente) il Ritmo di sant’Alessio, le

Lamentationes di san Bernardo e una lauda in onore di Mechtilde di Magdeburg, nota in Firenze,

attraverso i domenicani, per i suoi rapimenti mistici. Così, mentre lo “stamaiuolo” indugiava in laude e preghiere, la bellissima moglie Tessa si incontrava con Federigo di Neri Pegolotti, il quale “ella standogli in braccio la notte gl’insegnò da sei delle laude del suo marito”. [Decameron VII, 1, nell’edizione a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 1980, 2 voll., vol. II, pp. 789-797.]

da Dio o dettata dalla natura, sapeva dire le cose, i sentimenti, le leggi. E, nell’immagine che ci si compiaceva di formarsi di questa facoltà nascente, non solo non erano ancora apparse la distinzione tra parola e canto, la differenza tra potere espressivo e potere di designazione oggettiva (o “funzione referenziale”, come dicono i linguisti), ma l’uso sacro e l’impiego profano del linguaggio non si erano ancora posti come domini separati: nella grande festa dei primi tempi, qualsiasi termine era celebrativo e portava in sé la sostanza del reale designato. Investita di un senso integrale, la parola raggiungeva le cose e godeva della felicità del contatto con esse. Ogni presenza che l’uomo nominava era per lui un dio o un rappresentante di una divinità. Così, grazie a una rivelazione benigna e a una ispirazione esatta, la prima lingua univa in sé la pienezza di un sapere alla pienezza musicale del proprio potere espressivo. Ma questa lingua paradisiaca – testimone di un’età in cui l’uomo non era separato dall’uomo, né era lontano dalla natura o da Dio – è stata da tempo dimenticata, smembrata, dispersa. Gli idiomi molteplici e incompatibili ne hanno preso il posto. La piena luce del senso si è oscurata.97

Così Starobinski apre il suo suggestivo e oltremodo interessante saggio Linguaggio poetico e linguaggio scientifico, in cui evidenzia, attraverso la storia delle idee, le caratteristiche implicite e esplicite di tale rapporto, assegnando, infine, alla poesia un ruolo importante nella vita umana dal momento che, rivelando la “frammentarietà della nostra esistenza”, essa “suscita un richiamo di libertà che proibisce la quiete” e conferisce “un supplemento di senso” all’“aridità delle nostre esistenze quotidiane”98. “Acqua che cambia volto al deserto”, la poesia è una promessa, non un dato scientifico provato e deciso, una “comunicazione universale delle coscienze” che, in un primo tempo era stata un tutt’uno con scienza e musica, almeno fino a quando non è apparsa la distinzione tra parola e canto; da questo momento, ossia da quando la “pienezza del sapere” non è più stata unita “alla pienezza musicale del proprio potere espressivo”, la luce del senso si è oscurata.

Questo discorso, riferito al linguaggio nella sua portata universale e primigenia, è perfettamente rapportabile ad un linguaggio, quello poetico-musicale, che da tempi remoti si è sviluppato lungo una linea di concrezione e sintesi, generando una simbiosi che è stata riconosciuta e identificata, forse, solo mediante uno sguardo retrospettivo dovuto ad una esigenza “divisoria” unicamente umana, sorta da una “infermità linguistica” nella quale il linguaggio appare necessariamente come “un luogo di separazioni molteplici” che trovano unità solo nella leggenda di una felice “età dell’oro”:

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J. STAROBINSKI,Le ragioni del testo, a cura di Carmelo Colangelo, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 69-70.

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Una simile leggenda di un privilegio originario poteva essere elaborata soltanto da uomini che si sentivano votati a una sorta di infermità linguistica, e a cui il campo del linguaggio appariva solo come un luogo di separazioni molteplici: separazione tra musica e parola, scarto tra linguaggio elevato e prosa bassa quotidiana, tra mito poetico e ragionamento elaborato. Il fatto di appartenere a un mondo le cui parole designano in maniera imperfetta ciò a cui si riferiscono, in cui non ci si comprende da una regione all’altra, in cui la natura rifiuta di lasciarsi tradurre nella parola umana, spinge gli uomini a pensare la propria infelicità come una calamità (meritata o immeritata) sopraggiunta in un momento fatale della loro storia. Essi allora retrospettivamente ricompongono un tempo immaginario in cui la mancanza provata nel presente non esisteva e l’unità era data, un tempo in cui la comunicazione era così perfetta che persino gli animali parlavano. Ed è necessario inventare una qualche catastrofe – Diluvio o Babele – per rendere conto della scissione che ha lasciato soltanto tracce sparse della lingua assoluta – pagliuzze d’oro nel fango.99

Incomprensibilità e mancato interscambio tra linguaggi diventano, in questo modo, conseguenza di un dato evento, traumatico e irreversibile (Diluvio, Babele) necessario a spiegare una scissione che forse non c’è mai stata o, più probabilmente, è avvenuta in maniera non necessariamente traumatica, ma naturale, proprio per uno sviluppo ulteriore, successivo a quei processi di concrezione e sintesi cui il linguaggio stesso era sottoposto. Così, in fondo, non esiste “momento fatale”, a meno che questo non sia pura invenzione umana, sorto per fornire ragioni coerenti con quell’infermità linguistica madre di scissioni e separazioni anelanti ad un’immagine esotica e perduta di unità.

Suggestione e leggenda, prendono allora il posto di una realtà linguistica nient’affatto occasionale, come quella del linguaggio poetico-musicale, in cui le due componenti, poesia e musica, vengono identificate in due linguaggi diversi solo in retrospettiva, oppure in ragione di una idealizzazione di un passato mitico. In realtà entrambe le ipotesi, seguendo il discorso di Starobinski, appaiono veritiere: poesia e musica si riconducevano, per l’antichità classica ad un orizzonte comune, che trovava numerosi punti di contatto in quel linguaggio, definito da noialtri, come poetico- musicale, e qui l’idealizzazione, che pure esiste, è frenata dalla pratica della civiltà greca, da un vero e proprio uso del linguaggio poetico-musicale da parte di tale civiltà. Lo sguardo in retrospettiva, d’altro canto, induce a notare, in tempi più recenti come quelli medioevali, in che modo quell’unico linguaggio si sia lentamente scomposto idealizzando, nel contempo, il proprio passato. In questo caso i limiti dell’idealizzazione sono stabiliti dalle fonti, la loro presenza – e talvolta anche la loro assenza, come nel

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caso della musica – evidenzia la convivenza di due linguaggi trasmessi in maniera differente. Qui, in questa diversa modalità di trasmissione (in parte scritta per la poesia, ma soprattutto orale riguardo alla musica), non più foriera di immaginazioni e/o idealizzazioni di sorta, quel linguaggio unico si presenta scomposto, non ancora diviso, in due componenti: la poesia e la musica. Ora, seguendo un asse diacronico privo di sostanziali fratture traumatiche (nessun Diluvio o Babele), le nuove forme metriche (tropi, sequenze, canso provenzale, ecc.) e la notazione neumatica rendono ancora più evidente, tra la fine del primo millennio d. C. e, soprattutto, nei primi due secoli del secondo, la convivenza di due linguaggi strutturalmente diversi. Tale diversità, con l’intensificarsi dell’uso della notazione e con l’apparire di altre forme metriche (la lauda, e segnatamente il sonetto), nonché con la formalizzazione di queste ultime, induce a pensare ad una separazione tra parola e suono, tra poesia e musica, elementi e, successivamente, “discipline” le cui differenze sostanziali sono prodotte dalla loro codificazione di note (o neumi) e parole (o versi), codificazione100 di due linguaggi che si incontrano nella zona neutra dell’interferenza101, con la complicità della tradizione.

In questo quadro di formalizzazione dei due codici e, in particolare, di formalizzazione delle forme metriche in volgare italiano si inserisce il cosidetto “divorzio” tra poesia e musica nel Duecento italiano102. È questo quell’evento traumatico, quella “catastrofe” che genera scissione lasciando “tracce sparse della lingua assoluta”. Ebbene, pur non essendo necessariamente così definitivi, nel senso che, pur rifacendosi ad una età dell’oro della poesia per musica, non si può parlare di “lingua assoluta”, rimane vero che questa separazione è stata vista limitatamente ad un fenomeno pur centrale in merito alla nascente poesia italiana, ossia in riferimento alla Scuola siciliana, ma che tuttavia non rappresenta la totalità dell’esperienza poetica italiana del Duecento. Come rilevato, in ambito sacro e devozionale popolare, la

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Chiaramente ci si riferisce alla codificazione scritta, universalmente riconosciuta, ma la musica medievale ha vissuto a lungo uno stato di conservazione affidato alla memoria – cosa che, del resto, ha in comune con la poesia – in cui la forma di “codificazione” più avanzata poteva essere rappresentata da accorgimenti e pratiche legate alla mnemotecnica. Cfr. A. M. BUSSE BERGER, La musica medievale e

l’arte della memoria, Roma, Fogli Volanti, 2008.

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In linguistica l’interferenza è una “sovrapposizione di codici diversi che provoca deformazione nella comunicazione” [G. BÁRBERI SQUAROTTI,et al. (a cura di), Dizionario di retorica e stilistica, Torino,

UTET, 1995, p. 175]. Esiste, tuttavia, una interferenza che genera un trasferimento positivo tra i codici coinvolti, in modo tale che la loro sovrapposizione – se di vera sovrapposizione si tratta, ma spesso può essere anche un rapporto simbiotico – produce nuovi codici o sottocodici. È questo il caso delle cosiddette “interferenze disciplinari” che riguardano, ad esempio, poesia e pittura, cinema e letteratura e, nella fattispecie, poesia e musica.

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A. RONCAGLIA,Sul “divorzio tra musica e poesia” nel Duecento italiano, in A. ZIINO (a cura di),

lauda103 rappresenta sicuramente un genere di poesia per musica coevo e, addirittura, posteriore all’esperienza della “magna curia” siciliana. Inoltre, recenti scoperte104 hanno messo in luce un sottobosco poetico, non necessariamente riferibile alla dimensione letteraria siciliana, ma che fa chiaramente riferimento a collegamenti con la musica. Infine, i rapporti musica-poesia non si interrompono con la Scuola siciliana: il Trecento, dentro e, soprattutto, fuori dal grande fermento polifonico dell’Ars nova, è un pullulare di canti, sia in ambito popolare, ove la tradizione orale non ha lasciato molte fonti, che in ambito “colto”, come dimostrano i numerosi riferimenti alla musica, e alla poesia per musica, contenuti nelle opere di Dante, Boccaccio e Petrarca105. Certamente, la tesi del “divorzio” non è pura invenzione, non è affatto la “fantasia persistente”, cui si riferisce Starobinski, tuttavia può trattarsi di un “persistente pregiudizio che, facendo aurea eccezione per la poesia cantata di tipo trovadorico, tende a considerare come inferiore ogni poesia destinata ad associarsi alla musica.”106

Così, nel pregiudizio Nino Pirrotta rileva lo “scarto”, il “luogo delle separazioni molteplici” afferenti al campo del linguaggio – dei linguaggi, nel caso in esame – e tale scarto deriverebbe “da un filologico impulso a distinguerre e separare tale poesia [quella di Dante e Petrarca] da ogni intrusione di valori che non siano quelli poetici.”107 In quest’ottica la poesia della Scuola siciliana, nella quale il citato divorzio si è consumato, fu “destinata alla lettura, non al canto o alla recitazione, […] opera, in una parola, di uomini di penna, non da liuto”108, come afferma De Bartholomaeis, cui fa eco il Contini in Poeti del Duecento riferendosi a Giacomo da Lentini: “Naturalmente il notaio si riconnette a una fase poetica ormai del tutto letteraria, svincolata dalla melodia; e lega

103

Lo stesso Roncaglia riconosce il ruolo della lauda nel panorama della poesia per musica del Duecento, affermando – in maniera piuttosto elusiva, in verità – che la presenza di laudari con musica, al pari dei canzonieri provenzali, evidenziano ulteriormente la mancanza di tali fonti (testi con musica) nel caso della poesia dei siciliani. Cfr. A. RONCAGLIA,Sul “divorzio tra musica e poesia” nel Duecento italiano,

cit., pp. 385-386.

104

Si tratta di scoperte relativamente recenti che, tuttavia, hanno riaperto il discorso sul “divorzio” e sono ancora al vaglio degli studiosi. Queste scoperte, consistenti in una canzone di cinquanta decasillabi e un altro testo di cinque endecasillabi, sono state rese note da Alfredo Stussi nel 1999: A. STUSSI,Versi d'amore in volgare tra la fine del secolo XII e l'inizio del XIII, «Cultura Neolatina», LIX (1999), 1/2, pp.

1-69.

105

Indicativi, in merito, e ancora validi, nonostante la notevole vetustà editoriale, i seguenti testi: A. BONAVENTURA, Dante e la musica, Livorno, Giusti, 1904, rist. Forni, 1978; A. BONAVENTURA, Il Boccaccio e la musica, Milano-Roma, Fratelli Bocca, 1914; C. CULCASI,Il Petrarca e la musica, Firenze,

Bemporad, 1911.

106

N.PIRROTTA, I poeti della scuola siciliana e la musica, in Poesia e musica e altri saggi, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1994, pp. 13-21, p. 14.

107

Ibidem.

108

V. DE BARTHOLOMAEIS, (a cura di), Primordi della lirica d’arte in Italia. Con illustrazioni e