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fratelli valorosi nelle prospettive e nelle cose de’ soffitti

2. L’attività veneziana

Da Brescia a Venezia attraverso la congregazione di San Giorgio in Alga

Il silenzio delle fonti sulle ragioni che spinsero i Rosa a lasciare Brescia per Venezia, dove si trova documentato Stefano nel 1556, non facilita la ricostruzione dell’attività dei due fratelli. É da escludere che si siano spinti in laguna senza una precisa prospettiva lavorativa, visto che il loro trasferimento, avvenuto probabilmente alla fine del 1555, coincise con l’incarico del soffitto ligneo della Madonna dell’Orto. Nell’appartenenza di questa chiesa all’ordine dei canonici secolari di San Giorgio in Alga è possibile individuare i motivi del soggiorno veneziano, che si rivelerà una tappa fondamentale per la loro maturazione artistica.

La nostra ricostruzione inizia nel 1437 quando, con la bolla di papa Eugenio IV, fu ammessa nell’ordine di San Giorgio in Alga anche la chiesa bresciana di San Pietro in Oliveto102. Nel corso del Cinquecento tale sede acquisì indubbia rilevanza, fornendo tra il 1515 e il 1550 otto generali dell’ordine, i quali, a partire dal colto Girolamo Cavalli, intrapresero una serie di interventi volti alla riqualificazione della chiesa e del monastero103. I più ingenti lavori verranno promossi intorno agli anni trenta e quaranta, distendendosi nell’arco di oltre un ventennio, affidati a Moretto, Romanino e a vari pittori legati a queste botteghe, tra cui Paolo da Caylina il giovane104. Riprendendo in mano, ancora una volta, il manoscritto G.IV.9 del Giardino della Pittura di Francesco Paglia, a carta 545 lo storiografo aggiunse a penna (in un secondo momento, ma la mano è ceramente sua) una breve notarella in merito alla decorazione di San Pietro in Oliveto: “il Refetorio è dipinto dal Rizzi, e da i Rosa et altre opere del Foppa”105. A differenza di quanto riscontrato in altri casi, qui Paglia non rettifica un’attribuzione espressa in precedenza, bensì si

102 Sull’ordine si veda CRACCO 1959, pp. 70-80; TRAMONTIN 1984; CRACCO 1989. Sugli aspetti storico-istituzionali e spirituali vedi TRAMONTIN 1975, II, pp. 254-258.

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La chiesa, che era stata degli Agostiniani, passò alla Congregazione di San Giorgio in Alga su proposta dell’erudito Francesco Barbaro, rappresentante veneziano a Brescia in qualità di capitano (per un profilo storico si veda STIPI 1985; FÈ D’OSTIANI 1903, pp. 4-5). Per la lista dei priori generali dell’ordine, quelli di origine bresciana, vedi GUAZZONI 1988, p. 268.

Padre Stipi notò la data “MDVII” sull’arco del coro; la progettazione venne affidata al comasco Antonio Medaglia (si veda SAVA 2010, pp. 126-149), mentre di recente è stata individuata la partecipazione della bottega di Gasparo Cairano (si veda ZANI 2010). Va invece escluso il presunto intervento di Sansovino, riportato da molte fonti ottocentesche. Su Girolamo Cavalli che nel 1506 aveva curato la prima edizione delle opere complete di Lorenzo Giustiniani, vedi ZAINA 2009, pp. 155-200.

104 Richiamo soltanto alcune indicazioni bibliografiche: BEGNI REDONA 1988, pp. 462-465 cat. 120, pp. 480-487 cat. 125, pp. 498-501 cat. 129; PALMIERI in Romanino 2006, pp. 202-203.

preoccupa di rimarcare il proprio parere, ribadendolo anche più avanti, quando ricorda “il restante del Refettorio in ornamenti dipinti dal Rizzi, et da i Rose”106.

Fino a pochi anni fa sarebbe stato difficile individuare l’esistenza di affreschi nel refettorio, scialbati nel 1669 quando il complesso passò ai Carmelitani Scalzi107 (foto 24). La decisione, attribuibile a un padre cremasco, era stata dettata dalla volontà di eliminare ogni decorazione superflua. Tale intervento avvenne solo dopo che Paglia, unico tra gli storici, ebbe modo di vedere e descrivere le pitture. A distanza di oltre tre secoli dalla scialbatura, alcune zone stanno riemergendo e consentono di individuare settori, pur esigui, degli intonaci cinquecenteschi108. Una piccola porzione della volta denuncia la presenza di partiture alternate a un fregio ornamentale e a un frammento che pare una mensola in prospettiva (FOTO 25-26). Qualche lacerto si avvista anche nei pennacchi della parete est e in due lunette, che presentano oculi con busti iscritti entro motivi decorativi (foto 27-31). Si tratta degli “ornamenti” menzionati da Paglia e da lui riferiti, senza incertezza, ai fratelli Rosa, tanto più che una descrizione contemporanea avverte che il “cielo [era] dorato, con alcune pitture di eccellente pennello, ben lavorate”109, un’indicazione utile, a mio parere, a confermare l’attribuzione, visto che la doratura era una peculiarità tecnica della loro bottega110.

Si può supporre che l’insieme prevedesse un apparato intorno alle scene figurate, molte delle quali riconoscibili come impronte, quasi fossero negativi (foto 32). Queste ultime, stando sempre a quanto riporta Paglia, spettavano al “Rizzi”, si suppone Stefano Rizzi, personaggio che non compare in alcun documento archivistico bresciano e la cui biografia è del tutto oscura, malgrado la storiografia locale tra Otto e Novecento lo abbia considerato il “maestro di Romanino”111. In realtà, a rileggere le fonti più antiche ci si rende conto che già Paglia, attribuendo al Rizzi anche i Profeti tra le arcate della chiesa di San Giuseppe a Brescia, dipinti “all’immitatione del

106 PAGLIA, ms. G.IV.9, c. 548. Si veda anche PAGLIA [1660-1701] ed. 1967, p. 647. La stessa attribuzione è confermata nell’altro manoscritto autografo (PAGLIA, ms. Di Rosa 88, c. 536).

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Con Bolla Apostolica del 7 dicembre 1668 la congregazione dei Canonici Secolari di San Giorgio in Alga venne soppressa da papa Clemente IX. Come detto l’anno seguente occuparono il sito di San Pietro i Carmelitani Scalzi, già presenti a Brescia a partire dal 1659, nella chiesa di Sant’Antonino.

108 Desidero ringraziare padre Claudio Grassi, priore dei Carmelitani Scalzi di Brescia, per avermi concesso la possibilità di visitare le sale del monastero e del refettorio.

109 STIPI 1985.

110 Da scartare l’ipotesi di GUAZZONI 1988, p. 269, secondo il quale “non è improbabile che gli sia toccata [a Moretto] anche una parte nella decorazione del refettorio”.

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La notizia è riportata da NICOLI CRISTIANI 1807, pp. 179-181; LANZI 1809, pp. 132-133; TICOZZI 1832, III, p. 251. Fu messa in dubbio già da CROWE,CAVALCASELLE 1871 ed. 1912, III, p. 259 e da FENAROLI 1887, p. 204, nota 1 e 305. Per quanto riguarda Stefano Rizzi e il suo improbabile ruolo di maestro di Romanino rimando a BUGANZA 2006, p. 394, nota 9; si veda anche VOLTA 1989, p. 27, note 46-47, 52.

Romanino”112, suggeriva implicitamente che fosse un seguace del maestro. Restando in San Giuseppe, la presenza, sul lato est all’esterno, di una partitura affrescata (foto 33), indica che anche qui fu attivo uno specialista di architetture in scorcio, da aggiungersi ai finti cassettoni della volta del presbiterio, i cui motivi riflettono una cultura impregnata di elementi classicheggianti, diffusi in area veneta e lombarda sin dall’inizio del Cinquecento113 (foto 35). Alla luce di questi dati non è quindi scontato che, anche in San Pietro in Oliveto, Paglia attribuisse al Rizzi “gli archi dipinti à chiaro scuro”, purtroppo perduti114: chissà che il rapporto con i Rosa, saldatosi forse in un contesto affine alla bottega di Romanino, abbia influenzato questi ultimi nella pratica dei soffitti.

Non avendo a disposizione alcun documento che offra un puntello cronologico per gli affreschi del refettorio di San Pietro, bisogna valutare la possibilità che siano stati realizzati nel medesimo periodo delle “altre opere del Foppa” segnalate da Paglia, che in tal modo faceva riferimento a Paolo da Caylina, nipote di Vincenzo Foppa e con lui spesso confuso dalle fonti115. Per gli affreschi dei Rosa una datazione a ridosso del 1554-1555 non striderebbe con la loro convocazione veneziana nel 1556, nell’ambito dello stesso ordine religioso per il quale furono attivi, nelle chiese di Verona, Vicenza, Lonigo e Monselice, altri pittori di origine bresciana116. Commissioni, queste ultime, che “devono inquadrarsi nella sempre più fitta circolazione di prelati

112 PAGLIA [1660-1701] ed. 1967, p. 106. Recentemente riemersi durante il restauro del 1979, i dati di stile propendono ad attribuirli all’ambito di Andrea da Manerbio (l’attribuzione è di Fiorella Frisoni, che ringrazio).

113 L’attribuzione a Stefano Rizzi, priva di riscontri documentari, degli affreschi della volta di San Giuseppe si deve ad ANELLI 1981, pp. 194-196. Questa tipologia decorativa recupera quella di Santa Maria dei Miracoli a Venezia (si veda ILCHMAN 2003). In ambito lombardo il soffitto è ripreso anche nella chiesa di Santa Maria delle Grazie al Curtatone presso Mantova (cfr. VACCARI 2000). Il disegno del soffitto di Santa Maria dei Miracoli ha trovato ricezione a nord delle Alpi grazie a un’incisione su rame di Daniel Hopfer, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1529 (si veda WOLTERS 2000, ed. 2007, p. 259.

114 PAGLIA [1660-1701] ed. 1967, p. 644. Per la proposta di riferire al Rizzi l’intera decorazione a chiaro-scuro nei sottarchi delle cappelle di San Giuseppe si veda ANELLI 1984, p. 5; ID. 1988, p. 3.

115 “Et nel Refetorio si vede un quadro compartito in tre vani, che sono il Pranzo del Fariseo, L’Infratione Panis, e le Nozze di Cana Galilea dove s’ammira quella maravigliosa Divinità, che sà tramutar L’acqua in vino; Le delizie sensuali in spirtuali; I sentimenti carnali in sentimenti divoti, con la mutatione del acqua in vino d’una salutevole penitenza. Et che può altresi cambiar L’allegrezze in Castigo, è può sovente mutar in veleno ogni contentezza; si come il ueleno in Triacca è tramutar il serpente del pecato in verga di diretione […] Opere di Paolo Foppa, et altre ancora che partecipano dell’antica maniera, Le quali però conservano un non sò che di brillante è ragionevol stile, che ne tempi andati si tenevano in qualche concetto” (PAGLIA [1660-1701] ed. 1967, p. 640). Per quanto riguarda la confusione tra Foppa e Caylina si veda FRISONI 2003, pp. 17-46. Su questi cicli, datati da GUAZZONI (1988, pp. 269-272) “all’inizio del sesto decennio”, rimando a DE LEONARDIS in Paolo da Caylina 2003, pp. 146-156 catt. 42-43. La collaborazione di Caylina coi canonici di San Pietro includeva una pala, tutt’ora conservata in chiesa.

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In San Giorgio in Braida a Verona sono impegnati, in momenti diversi, sia Romanino sia Moretto. Nel 1552 un altro bresciano, Agostino Galeazzi, opera in San Rocco a Vicenza, luogo in cui, un ventennio dopo, avrebbe lavorato Francesco Ricchino (si veda PASSAMANI 1986, pp. 203-216; FRISONI 2007, p. 84, nota 25). Sull’argomento si veda NEHER 1999, che riprende argomentazioni già espresse da GUAZZONI (1981 e 1988).

bresciani all’interno della congregazione”117, la cui influenza era stata rafforzata dalla nomina, nel 1546, dell’influente cardinale bresciano Uberto Gambara a protettore dell’ordine118.

Un orizzonte siffatto delinea le coordinate del trasferimento a Venezia dei due fratelli, nell’ambito della comune committenza dei canonici alghesi. Avendo ricoperto le più alte cariche della Congregazione per oltre due decenni, acquista credito l’ipotesi che il filo conduttore fosse rappresentato dal generale di San Giorgio in Alga, Leone Bugatto119. Di origini bresciane, il Bugatto si distinse come committente d’arte in San Pietro in Oliveto e in San Giorgio in Braida a Verona, da lui riedificata a partire dal 1551. Finora, però, mi pare non sia mai stato messo in risalto il suo ruolo decisivo nel rinnovamento della Madonna dell’Orto a Venezia, avviato con l’allineamento degli altari nel 1555120. L’attività dei Rosa nella medesima chiesa, a partire dai primi mesi del 1556 (di certo da aprile), sembra a questo punto collimare bene con la presenza del religioso bresciano per essere una semplice coincidenza.

Il soffitto della chiesa della Madonna dell’Orto

Distrutto negli anni sessanta dell’Ottocento, il soffitto della chiesa della Madonna dell’Orto è menzionato da tutte le fonti come il capolavoro dei fratelli Rosa e per questo rappresenta un tassello fondamentale per inquadrare la loro attività in laguna. La datazione dell’impresa è trascritta soltanto nella Venezia città nobilissima di Francesco Sansovino, curata nel 1604 da Giovanni Stringa121. L’anno d’esecuzione, il 1556, fu in seguito registrato anche negli Annales di Giacomo Filippo Tomasini, storiografo della congregazione di San Giorgio in Alga e attento conoscitore degli archivi:

117 GUAZZONI 1988, p. 269. Per quanto riguarda il clima spirituale bresciano nel primo Cinquecento e i rapporti con le arti figurative, si veda anche ID. 1981; ID. 1985, pp. 151-176. ID. 1986, pp. 7-16.

118 Ricordata in TOMASINI [1641], p. 497; sul cardinale si veda BRUNELLI 1999.

119 Si spiegherebbe così l’approdo nel 1540 di opere di Moretto e Romanino in San Giorgio in Braida (MARINELLI 1990, pp. 323-332). La chiesa fu riedificata nel 1551 dal Bugatto: “Bugatus ex proventibus sibi traditis Templum S. Georgii in Braida in meliorem structuram redigit” (TOMASINI [1641], p. 501). L’anno successivo il Bugatto, venne inviato a Ferrara, prima di essere eletto “praeses” nel 1557 e poi ancora nel 1560; morirà nel 1562 (IBID., pp. 505, 509). Nel 1563 gli succederà un altro bresciano, Domenico Savallo (IBID., p. 510).

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Si vedano in proposito le interessanti argomentazioni di DOUGLAS-SCOTT 1997, pp. 138-139.

121 SANSOVINO 1604, p. 164. Per quanto riguarda l’attenzione che nella prima edizione Sansovino appunta sul soffitto dei Rosa, secondo BONORA 1994, p. 193 “è abbastanza insolito che Francesco nel testo dell’81 si dilunghi con tanta ricchezza di osservazioni su una singola realizzazione artistica”.

“Laquearia genere picturae, quam vulgo perspectivam vocant, vestita suspicientium oculos recreant, falluntque iuxta; nec enim quisquam ea intuitus est, quin sinuata, & retracta introrsus, atque ita templum excelsius longe, quam re vera est, esse putaverit. Christophorus & Stephanus Brixienses fratres Anno MDLVI ea depixerunt”122.

Un documento già pubblicato, anche se poco noto, certifica che nell’aprile del 1556 Stefano Rosa si trovava effettivamente nel monastero della Madonna dell’Orto123. Non mi pare sussistano dubbi sul fatto che accanto a lui fosse presente anche Cristoforo, il quale rappresentava il regista di ogni impresa condotta in sinergia dai due pittori124. A fronte di tali punti fermi va segnalata la tendenza, invalsa in alcuni studi recenti, a scandire un’errata cronologia dei lavori veneziani125. Giuste le considerazioni avanzate sulla prima attività a Brescia, svolta tra piazza della Loggia e la chiesa San Pietro in Oliveto, si può ragionevolmente ipotizzare che l’arrivo dei Rosa in laguna fosse sopraggiunto nelle prime settimane del 1556. La realizzazione del soffitto veneziano deve aver impegnato i pittori fino alla primavera seguente, in ogni caso non più tardi del 16 marzo 1557, poiché a quella data Cristoforo tornò a Brescia per definire l’acquisto di una casa, restandoci qualche mese, segno che aveva terminato il lavoro126.

La dedicazione alla Madonna dell’Orto entrò in uso poco dopo l’edificazione della chiesa da parte degli Umiliati nel 1365 e rimase tale anche in seguito all’arrivo, nel 1462, dei canonici di San Giorgio in Alga127. Le vicende successive alla soppressione generale dell’ordine, decretata nel 1668 da papa Clemente IX, condizionarono in negativo le sorti dell’apparato decorativo e, in particolare, della struttura del tetto, compromettendo la conservazione del soffitto. Il primo a descrivere il “palco piano di Santa Maria dell’Orto” fu Vasari, il quale, ammirando l’abilità dei due bresciani che “hanno appresso gli artefici gran nome nella facilità del tirare di prospettiva”, si sforzò di restituire, a parole, l’effetto di stupore generato dal

“corridore di colonne doppie attorte, e simili a quelle della porta Santa di Roma in San Pietro; le quali, posando sopra certi mensoloni che sportano in fuori, vanno facendo in quella chiesa un

122 TOMASINI [1641], p. 327.

123 Si veda Documenti. Cristoforo e Stefano Rosa, n. 194. In qualità di testimone, insieme al pittore, risulta tale Giovanni Maria di Rivoltella, anch’egli quindi di origine bresciana.

124 Già Mercati, sulla scorta del Lexicon (XXVIII, 1934), avverte che, per la presenza di Stefano, è lecito postulare quella del fratello Cristoforo, benché manchino documenti atti a provarla. Schulz sottolinea che Cristoforo firma i contratti per il soffitto della Marciana e il salone della Loggia di Brescia, ricoprendo dunque il ruolo di capo bottega (si veda SCHULZ 1961, pp. 90-102).

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Un esempio in tal senso è fornito da SANVITO 2011, pp. 141-151. Rappresenta invece un’eccezione il valido studio di SJÖSTRÖM 1978, p. 40.

126 Si veda Documenti. Cristoforo e Stefano Rosa, n. 195, 197, 199-201.

superbo corridore con volte a cricera intorno: ed ha quest’opera la sua veduta nel mezzo della chiesa con bellissimi scorti, che fanno restar chiunche la vede maravigliato, e parere che il palco, che è piano, sia sfondato; essendo massimamente accompagnata con bella varietà di cornici, maschere, festoni, ed alcuna figura, che fanno ricchissimo ornamento a tutta l’opera, che merita d’essere da ognuno infinitamente lodata per la novità, e per essere stata condotta con molta diligenza ottimamente a fine”128.

Ne risulta una composizione contraddistinta da una loggia, sostenuta da doppie colonne tortili, secondo Ridolfi “cannellate, cinte da vitalbe”129, cioè scanalate e arricchitte da inserti vegatali, la stessa tipologia, per intenderci, di quelle descritte da Paglia nella sala del Collegio dei Giudici a Brescia. La sensazione di meraviglia è giustificata dal fatto che la fuga delle colonne genera l’impressione di uno spazio più esteso di quanto fosse in realtà. L’abilità consiste nel dare slancio a una superficie piana, la cui componente illusionistica sarà, non a caso, la caratteristica più ammirata dalle fonti barocche, che sottolineano come “quella prospettiva artificiosa, che si fà in scurzo con colonne torte ne i volti, e soffitti, […] dà ad intendere, che dette stanze siano il doppio più alte”130. La prospettiva “in scurzo” è governata da una logica “artificiosa”, descritta da Ridolfi, il quale non manca di evidenziare che

“in quel ristretto spatio puotero [i Rosa] facilmente ingannar l’occhio, e con molto ingegno mutarono più volte il punto della veduta, si che vedute in più siti fanno l’effetto dovuto”131.

Tale descrizione viene assunta a prova del fatto che i Rosa sono stati i primi ad applicare una prospettiva basata su punti di vista diversificati a seconda della posizione dello spettatore in chiesa, secondo una prassi diffusa nelle quadrature barocche132. Tutto ciò, in realtà, contraddice le parole di Vasari, secondo il quale, invece, “ha quest’opera la sua veduta nel mezzo della chiesa con bellissimi scorti”, presupponendo quindi il tradizionale punto di fuga al centro, che consente allo sguardo di abbracciare in un solo colpo l’intera area prospettica, senza la necessità di muoversi in chiesa. La questione è complicata dalla mancanza di documenti visivi che ci consentano di produrre un’idea precisa di come dovesse apparire il soffitto. L’incisione presente

128 VASARI 1568, ed. 1906, VI, pp. 509-510.

129 RIDOLFI 1648, ed. 1914-1924, I, p. 272.

130 VIOLA ZANINI 1629, pp. 30-41.

131 RIDOLFI 1648, ed. 1914-1924, I, p. 272.

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Secondo SCHULZ (1961, pp. 90-102) e SJÖSTRÖM (1978), che riprendono l’indicazione di Ridolfi e quella, più tarda, di VIOLA ZANINI (1629)), i Rosa utilizzano un sistema polifocale costituito da molti punti ravvicinati che riducono la percezione dei contrasti prospettici. Moschini (1815, pp. 20-22) descriverà “i bei giuochi di prospettiva, che da più parti guardati formano sempre gradevole inganno all’occhio”.

nel trattato dell’architetto padovano Viola Zanini, apparentemente messa in relazione ai Rosa, considerati “di questa professione in questo Illustrissimo Stato […] i primi fondatori”133 (foto 36), è infatti una semplice ripresa della medesima immagine già presente nelle Osservazioni della pittura di Cristoforo Sorte (foto 14).

É doveroso segnalare un’altra testimonianza figurativa, già nota agli studi, vale a dire un disegno dell’architetto tedesco Heinrich Schickhardt, da questi eseguito durante la tappa veneziana del suo viaggio in Italia, avvenuta nel marzo 1600134 (foto 37). Per la presenza della scritta “Venedig” tale disegno, che per molti aspetti pare essere un abbozzo, è stato messo in relazione al soffitto della Madonna dell’Orto: secondo Wolgang Wolters, infatti, “a quei tempi nessun’altra chiesa disponeva di una decorazione paragonabile”135. In effetti riesce difficile ipotizzare quale altro veneziano presentasse una struttura illusionistica pari a quella percepibile nello schizzo di Schickhardt. Eppure il foglio pone non pochi problemi di interpretazione, presentando uno sfondato architettonico con colonne tortili che si innalzano a sostenere un architrave, su cui si innesta la copertura della loggia, aperta al centro da un loculo in prospettiva e, ai lati, da quattro cornici modanate, a loro volta sfondate. Rispetto alla descrizione di Vasari richiamata in precedenza mancano alcuni elementi di consonanza, tra i quali le doppie colonne, sostituite da singoli elementi decorati da festoni. Inoltre lo storiografo aretino aveva annotato come le colonne, sostenute da “certi mensoloni che sportano in fuori”, delineassero una loggia “con volte a cricera intorno”: pur ammettendo la possibilità che le volte a crociera non caratterizzassero la parte centrale del “corridore”, bensì soltanto gli sfondati “intorno”, tale elemento non risulta tuttavia presente nel disegno di Schickhardt, la cui sinteticità, frutto probabilmente di un’impressione fissata dopo una visita estemporanea alla chiesa, non può rappresentare una giustificazione esaustiva per l’assenza di verosimiglianza136. In conclusione, quanto vediamo nel foglio appare troppo distante dalla descrizione vasariana per non mettere in dubbio la connessione con il soffitto della chiesa della Madonna dell’Orto.

133ZANINI 1629, p. 30. In questo caso l’incisione illustra il soffitto dipinto nel palazzo della padovana Accademia Delia, richiamando il grande precedente dei Rosa. La testimonianza di Viola Zanini pare essere di un certo