E’ un aspetto, quest’ultimo, che si riaffaccia anche per quanto riguarda le Maschere femminili, inserti di natura decorativa (foto 12-16). Se è vero che la loro comparsa avvenne a partire dalle imprese reggiane di Sandrini, quindi intorno al 1613-1614, la loro fonte va individuata a Brescia, nei portali del Broletto (foto 17-18), montati proprio mentre Tommaso, tra il 1610 e il 1612, affrescava il medesimo ambiente.
Continuando sulla stessa linea di ricerca, nella cassa dell’organo del santuario di Tirano in Valtellina (1608-1617), tra le opere riconosciute con certezza al Bulgarini, si scorgono i festoni, le volute e i pendenti che il quadraturista avrebbe proposto sulle volte affrescate (foto 19-20). Se la sorgente può essere l’incisione di palazzo Vizzani, nel trattato di Vignola, peraltro ristampato nel 161165 (foto 21), è vero che anche altri elementi vanno letti in rapporto alla scultura: i cartigli, per esempio, sono da confrontare con quelli realizzati dagli stuccatori attivi all’inizio del secolo in Duomo Vecchio e nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, e sono assimilabili a quelli presenti sull’arca dei Santi Faustino e Giovita, realizzata nel 1623 da Giovanni Antonio Carra per l’omonima chiesa, giusto un paio d’anni prima che Sandrini cominciasse a dipingerne le volte66 (foto 22-24). All’ambito della statuaria afferiscono infine i mensoloni, derivati da modelli visibili in città nel XVII secolo (foto 25-28). Non v’è dubbio, quindi, che gli anni iniziali presso il Bulgarini abbiano rappresentato per il giovane molto più di un semplice apprendistato. Gli valsero, innanzitutto, a intrattenere una rete di frequentazioni con gli scultori, come Tommaso Moretto, testimone il giorno in cui Sandrini fece il suo ingresso in bottega, e con lui documentato nel 1608 e ancora nel 162067. Il Bulgarini, inoltre, aveva certamente una competenza in materia di
Foto 12. Tommaso Sandrini, Maschera, cupola del santuario della Beata Vergine della Ghiara a Reggio Emilia
Foto 13. Tommaso Sandrini, Maschera, volta della chiesa di San Giovannino a Reggio Emilia
Foto 14. Tommaso Sandrini, Maschera, volta della chiesa di Santa Maria del Carmine a Brescia
Foto 15. Tommaso Sandrini, Maschera, chiesa di San Faustino e Giovita a Brescia
Foto 17 e 18.
Particolari delle Maschere femminili sul portale centrale del corridoio del Broletto di Brescia
architettura: nel 1603 venne coinvolto nella prima fase della progettazione del Duomo nuovo, realizzando un modello ligneo68, mentre nel 1615 fu convocato a Chiari in qualità di “faber lignarius at architectus”69. Si può quindi immaginare che la sua bottega avesse offerto a Tommaso l’occasione di acquisire qualche nozione in questo campo, sebbene è più verosimile che il pittore sviluppò per altre vie l’interesse nei confronti della decorazione illusionistica.
A questo proposito va presa in esame l’influenza che, secondo la maggior parte della critica, avrebbe esercitato Giovanni Battista Trotti detto il Malosso70. La convinzione nasce dall’errata attribuzione a Sandrini di alcuni modesti affreschi nel duomo di Salò71, luogo in cui, nella cappella del Santissimo Sacramento, si conserva in effetti una quadratura riferibile con sicurezza al Malosso, firmata e datata 159972 (foto 29). Inoltre, secondo una fonte seicentesca “in piazza [a Salò] le tre facciate della Casa Pubblica del Comune furono dipinte a fresco dal celebre Tomaso Sandrini con vari ornamenti d’Architettura grandemente lodati da chi ha bon gusto”73. Documenti alla mano è tuttavia possibile stabilire che quest’ultima decorazione risaliva al settembre 1614, periodo in cui il bresciano era costantemente impegnato a Reggio Emilia. La sua assenza da Salò ridimensiona pertanto il presunto rapporto con il Malosso, erede peraltro di una tradizione prospettica che affondava le radici nelle sperimentazioni bolognesi di Tommaso Laureti74 e Pellegrino Tibaldi75, divulgate a Milano da Antonio e Vincenzo Campi nel terzo quarto del secolo76 (foto 30-31) e a Cremona da Orazio Samacchini77. In questi esempi, prova della diffusione della quadratura emiliana in Lombardia, il decorativismo tende a porre in secondo piano l’architettura dipinta. La volta malossiana di Salò, che rispetto a quanto appena detto presenta una struttura più solida, può quindi aver fornito qualche spunto valido ma non certo un modello da seguire. Se la si confronta con gli affreschi di Rodengo, opera prima del giovane bresciano, si avverte uno stacco dovuto al fatto che questi ultimi manifestano un’indiscussa “pesantezza”, che sarà una delle caratteristiche principali di tutti gli insiemi dipinti da Tommaso78. Risulta più immediato accostare gli esordi di Sandrini alla tradizione locale, dove all’inizio del Seicento – in continuità con quanto si è già esposto – si possono rintracciare diversi esempi di quadrature, a cominciare da quelle presenti in tre distinti ambienti del Monte Nuovo di Pietà in piazza della Loggia a Brescia79. Nel salone centrale una serie di mensoloni aggettanti fingono di sostenere un riquadro circoscritto da mensole e rosette, al cui interno una cornice modanata e vari cartigli dorati introducono alla raffigurazione principale (foto 32). Se ci soffermiamo su alcuni particolari non è difficile ricondurre le baccellature, i festoni (foto 33), e perfino il disegno di alcuni cartigli (foto 34), al prototipo visibile nel vestibolo della Libreria Marciana. Un altro esempio che funziona da trait d’union con la stagione precedente è il soffitto di palazzo
Foto 19. Tommaso Sandrini, particolare di Festone
pendente nella chiesa di San Faustino a Brescia
Foto 20. Giuseppe Bulgarini, particolare di Festone intagliato nella cassa dell’organo del santtuario di Tirano
Foto 21. Soffitto di palazzo Vizzani a Bologna, incisione (da J. Barozzi il Vignola, Le Due Regole Della
Avogadro-Spada a Bagnolo Mella80 (foto 35). I ricordi evocati dall’ampio loggiato, sorretto su tutti i lati da mensoloni e da colonne tortili, indicano che ci si trova di fronte a una ripresa dei Rosa, sebbene in passato sia stata avanzata l’attribuzione allo stesso Sandrini. In effetti l’andamento della cornice che racchiude il settore centrale, determinando una forma a croce, si ritroverà proprio nel soffitto di Rodengo, e al medesimo contesto rimandano anche la sequenza ternaria delle scene figurate e i girali floreali inseriti tra un medaglione e l’altro (foto 36-37). Infine, la presenza di figure che “abitano” gli spazi dipinti resterà un caso più unico che raro in ambito bresciano, almeno fino al più volte evocato episodio di Rodengo (foto 38-39), di cui quello Avogadro rappresenta dunque un precedente diretto.
Siffatti orizzonti figurativi improntarono i primi passi di Sandrini, anche se non è dato sapere, perché le fonti a tal proposito tacciono, con chi si esercitò nei primi anni della sua attività di quadraturista. É sempre sfuggito, fino ad ora, che il primo a occuparsi di lui fu Giulio Cesare Gigli in un noto poemetto dato alle stampe a Venezia nel 1615:
“Scerni il Sandrin Tomaso a questi appresso, di chiaro e scuro certo il vero impugno, a niun altro egual, fuor ch’a se stesso”81
Lo storiografo, residente a Venezia ma di accertate origini bresciane, tornando nella sua città nel giugno 1614 ebbe forse la possibilità di ammirare gli affreschi dello scalone e del corridoio del Broletto, la seconda grande impresa compiuta da Tommaso insieme a Francesco Giugno, tra il 1610 e il 161282. Descrivendolo “appresso” a Giugno (pittore citato nella terzina precedente rispetto a questa), Gigli dimostrava di essere al corrente della collaborazione tra i due, avviata, come sappiamo, nel 1608 a Rodengo; va quindi presa sul serio la possibilità che tra loro, quasi coetanei, sia intercorso un rapporto sin dai primi anni.
Da abile imprenditore formatosi sulla scia del “palmismo” imperante in terraferma (basterebbe, per dimostrarlo, elencare l’elevato numero di dipinti licenziati per il territorio), Francesco Giugno dovette accorgersi in tempo delle potenzialità del suo collega, apprezzando soprattutto il repertorio di cui disponeva. Il sodalizio si sarebbe rivelato produttivo per entrambi: Giugno trovò il modo di accontentare la committenza ecclesiastica, che chiedeva in tempi rapidi vaste decorazioni a fresco; Sandrini, dal canto suo, ebbe la possibilità di sperimentare soluzioni originali, ritagliandosi un’autonomia professionale che si riflette nei lauti pagamenti e nel fatto che firmava da solo le opere, come avvenne, per esempio, nella chiesa di San Giovannino a Reggio Emilia e in San Faustino a Brescia. La sinergia con Giugno, registrata anche da Ridolfi,
Foto 22. Tommaso Sandrini, Cartiglio, Reggio Emilia, volta della chiesa di San Giovannino
Foto 23. Antonio Carra, Arca dei santi Faustino e Giovita, marmo. 1623. Brescia, chiesa dei Santi Faustino e Giovita
Foto 24. Tommaso Sandrini, Cartiglio. Bienno (Brescia), volta della chiesa dei Santi Faustino e Giovita
Foto 25. Tommaso Sandrini, particolare di una mensola sulla volta della chiesa di Santa Maria del Carmine a Brescia
Foto 26. Tommaso Sandrini, particolare di un disegno. Parigi, Louvre, Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 14935
Foto 27-28. Mensole di alcuni palazzi bresciani del XVII secolo. A sinistra particolare dell’angolo di palazzo
Martinengo della Mottella; a destra la facciata seicentesca di palazzo Cigola.
che non a caso dedicò loro due Vite pubblicate di seguito (con quella di Sandrini elencata per prima)83, non fu esclusiva ma durò sino al 1621, marcando un’evoluzione fondamentale per la consapevolezza del quadraturista, sempre più in grado di dialogare alla pari con i pittori di figura. Nell’arco della sua attività Sandrini si trovò a lavorare, oltre che con Giugno, anche con Leonello Spada e Lorenzo Franchi nelle imprese emiliane, mentre a Brescia con i fratelli Giovan Mauro e Giovan Battista Della Rovere e, più tardi, con Camillo Rama e con la bottega di Antonio e Bernardino Gandino. Benché i documenti in nostro possesso non aiutino, tranne rari casi, a precisare il rapporto instaurato con costoro, elementi interessanti sono forniti dai disegni che è stato possibile assegnare al quadraturista in occasione del presente studio84. Si tratta di testimonianze utili perché spesso coincidono con i progetti menzionati nei contratti, dove non è raro leggere formule del tipo “si vuol veder il dissegno che vuol porre in opera” oppure “la pittura si debba fare conforme al modello di disegno”. Uno dei fogli più sorprendenti è relativo alla distrutta volta della chiesa di San Domenico a Brescia (foto 40), dipinta insieme a Giugno e ai Della Rovere tra il 1515 e il 1616. Oltre alla accuratezza che contraddistingue le architetture e gli elementi ornamentali, tratteggiati ad acquarello nel foglio, si riscontra un dettaglio prezioso e mai osservato sino ad ora: le statue a monocromo presenti sugli archi sono ritagli di carta applicati in un secondo tempo (foto 41); la stessa situazione si ripete nelle scene entro i cartigli più piccoli (foto 42).
La progettazione grafica scaturiva quindi da un concorso tra il quadraturista e il responsabile delle parti di figura. Campi vuoti erano invece riservati alle “historie” principali (foto 43-45), segno che per queste ultime il figurista si riservava di presentare un modello a parte, dovendo però adattarsi alla ripartizione già predisposta dal quadraturista. Tutto ciò dimostra quanto fosse vincolante il ruolo di quest’ultimo nella progettazione: in tal senso va ribaltato l’assioma che vorrebbe il pittore di figura libero di organizzare, a proprio piacimento, lo spazio della composizione. Ne è conferma, del resto, il fatto che Sandrini fu coinvolto in qualità di responsabile in alcune importanti imprese decorative, come accadde per la cupola del santuario della Beata Vergine della Ghiara, dove ebbe facoltà di appaltare le figure a un altro maestro (sia pur scelto dai committenti). In questo caso Leonello Spada, un maestro di primo piano, si trovò alle dirette dipendenze del bresciano, e ciò non può che rafforzare quanto si va dicendo.
I disegni consentono inoltre di verificare le prerogative con le quali il quadraturista si presentava ai committenti. Una visione ravvicinata rivela, in molti casi, la presenza di ritagli relativi a minimi dettagli ornamentali (foto 46-47), altre volte, invece, aggiunte più consistenti, che rappresentano una sostanziale variazione della prima idea (foto 48). Ciò avveniva in seguito a
Foto 29. Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, volta della cappella del Santissimo Sacramento. Salò (Brescia), duomo. 1599
Foto 30. Antonio e Vincenzo Campi. Milano, volta della chiesa di San Paolo Converso
Foto 31. G.M. Giovannini (disegnatore M.A. Chiarini), Incisione raffigurante il perduto soffitto dipinto da Tommaso Laureti in palazzo Vizzani a Bologna, 1963. Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Gabinetto dei disegni e delle stampe, Cartella Gozzadini
Source:[http://www.discove
rbaroqueart.org/database_it em.php?id=object;BAR;it;Mu s12_B;19;it&cp]
indicazioni scaturite da un confronto con i committenti, in sede di presentazione del progetto, ma è altrettanto possibile che sin dall’inizio venissero dal pittore sottoposte soluzioni diverse ai committenti, per offrire un margine di scelta a chi avrebbe dovuto prendere una decisione (foto
49-50). Del resto, che Sandrini disponesse di un “campionario” da proporre a seconda delle
occasioni è confermato dalla ripetizione delle medesime tipologie di volte, che si possono sostanzialmente ricondurre a quattro grandi categorie: il doppio loggiato, la galleria, il soffitto a mensole e la cupola. Pur trattandosi di schemi decorativi assai diversi tra loro, non è raro trovarli impiegati insieme, sulla base della loro funzione e del rapporto con lo spazio reale. Questa particolarità impone di affrontare il percorso del pittore non tanto da un punto di vista cronologico (come invece si farà nel II capitolo), quanto piuttosto tipologico.
Lo schema adottato con più frequenza sembra essere quello del doppio loggiato, destinato alla decorazione ecclesiastica. Messa a punto a Rodengo, tale impostazione trovava la sua ragion d’essere in ambienti molto ampi, poiché consentiva di assecondare l’ “ovvia curvatura cilindrica”85 delle volte a botte delle chiese bresciane del primo Seicento. Nei due settori d’imposta vengono suggeriti loggiati contrapposti che sostengono la parte centrale, restituita a una struttura piana, delimitata da una semplice cornice (foto 51) e contraddistinta da cartigli con i riquadri figurati (foto 52). Ne risulta una netta differenza tra questo settore, quasi sempre privo di accentuazione prospettica (destinato piuttosto a ospitare le scene figurate), e i lati della volta (foto
53). Tale scelta permetteva al quadraturista di dare ampio sfoggio alla sua abilità di illusionista, e
non è un caso che, se si eccettua Rodengo, nelle altre volte a botte che adottano il doppio loggiato (San Giovannino a Reggio, 1614; San Domenico a Brescia, 1615-1617; San Faustino a Brescia, 1625-1629; San Giorgio a Bagolino, 1626-1628) non siano presenti figure nelle zone laterali. Le finte logge sono scandite da colonne, talvolta binate, poggianti su basamenti a loro volta sostenuti da poderosi mensoloni aggettanti; la spazialità è amplificata da archi a tutto sesto che suggeriscono l’esistenza di ulteriori aperture laterali.
Nella maggior parte dei casi lo spazio dipinto è organizzato in accordo con le cappelle sottostanti, così che l’osservatore, entrando in chiesa, avrebbe rilevato tale corrispondenza, che di fatto annulla il discrimine tra architettura reale e architettura fittizia. Ciò avvenne, per esempio, in San Domenico a Brescia, per il quale disponiamo di una preziosa informazione in grado di chiarire la funzione riservata all’apparato illusionistico. Lo stesso Sandrini, infatti, molti anni dopo aver terminato questa impresa chiamò in causa la
Foto 32-34. Anonimo bresciano (Pietro Maria Bagnadore ?), volta del salone. Brescia, piazza della Loggia, palazzo Monte di Pietà
Foto 35. Anonimo bresciano, soffitto del salone. Bagnolo Mella (Brescia), palazzo Avogadro Spada
Foto 36-37. A fianco: confronto tra alcuni particolari della
decorazione del soffitto di palazzo Avogadro Spada a Bagnolo Mella (sinistra) e della volta del
refettorio di Rodengo Saiano (destra)
Foto 38-39 In basso: confronto tra il soffitto di palazzo Avogadro Spada a Bagnolo Mella (sinistra) e la volta del refettorio di Rodengo Saiano (destra)
“felice Memoria Del Mol(t)o Reve(rend)o P(adre) Bora [Serafino Borra] poi che desso era ben informato delle grande imperfesione delle cantonate disuguali et altri luoghi difforme della Chesa di San(t)o Dom(enic)o di Brescia che altro rimendio l’industria mia poteva remidiar a simil diffeto…”86.
Il ricorso alla decorazione era infatti motivato dall’esigenza di dissimulare “difetti comessi così nella forma come nella materia”87 dell’edificio progettato da Bagnadore. Ne era sorta una vertenza tra i padri domenicani e i fabbri murari, che aveva come oggetto “li mancamenti che essi R(everend)i pretendevano doverli esser rifatti”88, in quanto “detta Chiesa manca in altezza brazza doi, onze sette […] manca alli piloni mezzo brazza per ciascuno così da una parte come dall’altra in larghezza sono quaranta due pertiche di mancamento”. Non è irrilevante che le zone interessate fossero proprio le lunette dipinte da Sandrini, a riprova del fatto che l’intervento del quadraturista fosse strettamente correlato alle precarie condizioni strutturali dell’edificio: “parimente sia da essi periti visto il mancamento delli muri sopra le meggie lune delle cappelle di essa chiesa…”. La notizia è tanto più significativa perché consente di stabilire che la quadratura, fin dai tempi della sua codificazione come genere a sé stante, non aveva soltanto finalità estetiche, ma concorreva a restituire equilibrio, talvolta addirittura a correggere, errori delle architetture. A tal proposito non si può che richiamare il primo impegno di Andrea Pozzo nella chiesa di San Francesco Saverio a Mondovì, “ove era stato chiamato dai padri del collegio nel 1676 per dar rimedio alla volta disuguale e sproporzionata”89.
Rispetto ai sistemi messi a punto e poi anche teorizzati dal padre gesuita, incentrati su un inganno ottico che regge soltanto se l’osservatore si colloca nel corretto punto di vista (altrimenti manifesta immediatamente la sua natura effimera, ingannevole), la prospettiva attuata da Sandrini resta valida anche da altre visuali, in quanto attenuata da un “system of multiple travelling points”90. Si tratta, appunto, di fughe non coincidenti sulla mediana della volta, abbastanza vicine da dare l’impressione, come acutamente osservò, all’inizio del XVIII secolo, lo storiografo bresciano Francesco Paglia, al quale sembravano unificate “in un sol ponto”91. In ambienti grandi, appunto come le lunghe navate delle chiese, questo accorgimento consentiva di evitare eccessive deformazioni ottiche dovute a una prospettiva troppo rastremata, conferendo un’unità percepibile da ogni posizione, sebbene il centro restasse sempre il punto privilegiato da cui guardare l’insieme. Si può quindi affermare che il bresciano, anticipando per alcuni versi gli effetti propri della cultura tardo barocca, scelse “da un lato la ricerca dell’inganno per stupire l’osservatore con la creazione di spazi immaginari che travalicano il limite fisico del costruito; dall’altro la volontà di correggere gli inganni della visione per salvaguardare l’ordine proporzionale degli elementi
Foto 43-45. Tommaso Sandrini, particolari di disegni. Parigi, Louvre, Département des Arts graphiques, invv. Foto 40 (a fianco) Tommaso Sandrini, Disegno preparatorio per la volta della chiesa di San
Domenico a Brescia. Parigi, Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 5447
Foto 41-42 (in basso) particolari. Disegno preparatorio per la volta della chiesa di San Domenico a Brescia. Parigi, Louvre,
Département des Arts graphiques, inv. 5447
architettonici”92. Ciò ha sancito la fortuna del doppio loggiato. A questo proposito va osservato che quasi tutte le chiese affrescate da Sandrini presentano volte a botte, aspetto che dovrebbe suscitare qualche interrogativo sugli eventuali contatti tra il pittore e gli architetti, avvenuti, evidentemente, durante la fase di costruzione. Molto spesso, infatti, Tommaso si trovò a operare in cantieri oggetto di modifiche strutturali poco prima del suo intervento: San Domenico fu terminata nel 1615, le volte di Santa Maria del Carmine vennero erette dal 1620, San Faustino fu ricostruita all’inizio del terzo decennio93.
Il sistema del doppio loggiato manifesta qualche difetto allorquando la volta da dipingere si estende decisamente in lunghezza, causando al sistema prospettico uno squilibrio per la difficoltà dell’occhio di abbracciare, in un colpo solo, tutto lo spazio. Per aggirare il problema il quadraturista adottò una soluzione innovativa, la galleria. Non si tratta di una variazione sul tema, bensì di un’idea radicalmente diversa che, rispetto alla precedente, permette di intervenire in edifici preesistenti e quindi soggetti a limiti strutturali non altrimenti eludibili. Il caso più emblematico riguarda la chiesa di Santa Maria del Carmine, di fondazione medievale ma oggetto, nel corso dei secoli, di consistenti trasformazioni tra cui, soprattutto, l’allungamento della navata di due campate. Quando i padri, intorno al 1622, decisero di far decorare la sua copertura, voltata a botte pochi anni prima, non è detto fossero pienamente consapevoli del problema che il pittore avrebbe dovuto affrontare. Per ovviare alla lunghezza eccessiva della volta Sandrini decise di predisporre una finta architettura che presentasse una serie di ambienti contigui, ognuno dei quali sfondato da varie aperture che, se viste nel loro insieme, trovano simmetrica disposizione attorno al medaglione centrale (foto 54). Rispetto all’impostazione descritta in precedenza, muovendosi in