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3. Andrea Zanzotto

3.2 La Beltà

Il Galateo in bosco.173 Contrapposto a questo gioco allegorico, troviamo la poesia stessa,

incarnata in figure di resistenza fra le quali possiamo inscrivere il contadino Nino all’interno della raccolta La Beltà.174 Inserita nel profondo di questo gioco di specchi, la poesia rimane il mezzo per garantire al Soggetto la propria alterità rispetto alla metamorfosi dell’autentico in inautentico, conservando, con tinte che sfiorano in questo senso l’orfismo di certa poesia ermetica, la propria sacralità175.

Il fine di questa operazione risiede nella ricerca di un linguaggio finalmente liberato dalle minacce del ventriloquio, dell’esprimersi in modo de-soggettivato ed inautentico, ovvero dal rischio di essere vittima di quella che è stata definita da Lacan altalena immaginaria della rappresentazione176.

3.2 La Beltà

3.2.1 La narrazione dell’Inconscio

Le modalità in cui la Storia entra all’interno della poesia di Zanzotto si legano al problema della narrazione, cioè di come il Soggetto (nel nostro particolare caso il Soggetto poetico) restituisca una dimensione sovra-individuale per mezzo dell’iscrizione del suo racconto nell’esperienza individuale.177 Come cioè, con termini zanzottiani, si vinca il rischio di

                                                                                                               

173  A.  Zanzotto,  Il  Galateo  in  Bosco  (Milano:  Mondadori,  1979).  

174   La   figura   dell’emarginato   storico,   o   meglio,   della   figura   apparentemente   ai   margini   della   Storia   rappresenta   una   consolidata   allegoria   della   stessa   poesia   nel   presente   storico:   “Ancora   più   oltre:   secondo  esempi  già  forniti  spesso  dalla  storia,  ma  non  nella  forma  dell'intimazione  finale  come  nei   nostri  tempi,  la  poesia,  proprio  nel  suo  sentirsi  connessa  all'abiezione,  all'emarginazione  (al  margine-­‐ limite),   acquisiva   un   certo   diritto   a   proporsi   come   punto   zero   dalla   cui   prospettiva   diventava   inaccettabile  e  vuoto  di  senso  qualunque  avatar  della  violenza  emarginante,  del  potere  «  storico  »  fino   ad  allora  conosciuto.  Il  narciso  poetico,  accettando  la  propria  crocifissione,  anche  in  nome  di  tutte  le   altre   (peggiori?)   forme   di   narcisismo,   poteva   diventare   spia   del   «desiderio»   di   un'eventuale   storia   alternativa.”  In  A.  Zanzotto,  “Parole,  comportamenti,  gruppi  (appunti)”  in  Studi  Novecenteschi,  vol.  4,   n.  8/9,  p.  352;  cfr.  anche  Maurizio  Cucchi,  “La  Beltà  presa  a  coltellate?”,  Ib.  p.  267.  

175  L’aggettivo  sacro  è  qui  da  intendere  nella  sua  accezione  di  sacer  latino,  ovvero  di  ciò  che  appartiene   ad  altro  rispetto  agli  uomini.  Trasportato  nell’ambito  poetico  e  soprattutto  nella  poesia  di  Zanzotto,   l’altro  poetico  può  essere  sovrapposto  all’alterità  relativa  dell’Inconscio  umano,  ovvero  di  quello  che   Lacan  ha  definito  come  Altro;  cfr.  A.  Zanzotto,  “Per  Paul  Celan”  in  Le  poesie  e  le  prose  scelte,  p.  1334.  

176  Davide  Tarizzo,  Introduzione  a  Lacan  (Roma:  Laterza,  2003),  p.  53.  

177  La  poesia  di  Zanzotto  riesce  a  creare,  in  questo  senso,  procedimenti  narrativi  non  tradizionali,  ai   quali  è  sostituita  la  presenza  fondante  di  una  geografia  che  è  in  grado  di  circoscrivere  perfettamente   un  territorio-­‐teatro  della  Storia  in  cui  il  Soggetto  poetico  è  collocabile;  in  Stefano  Dal  Bianco,  “Profili   dei  libri  e  note  alle  poesie”  in  A.  Zanzotto,  Le  poesie  e  le  prose  scelte,  pp.  1687-­‐88.  

auto-rappresentazione narcisistica che è insito nella stessa nozione di poesia.178 Dalla posizione privilegiata di isolato, Andrea Zanzotto osserva un mondo che sta lentamente ma irreversibilmente sparendo, ne registra prontamente i sommovimenti linguistici e cerca di individuarne le cause riproducendo nella propria scrittura non solo il trauma personale, ma soprattutto riflettendo un trauma di natura collettiva che negli anni Settanta acquista forme più compiute rispetto all’epoca del boom economico.179 Il linguaggio rileva prontamente la persistenza di questi traumi ed il loro acuirsi all’interno di un’ottica che sociologicamente lega la capacità di significare della parola al gruppo e quindi alla società, formata a sua volta da Soggetti che la esprimono. 180

A partire dalla raccolta del ’68, la geografia del Soggetto poetico di Zanzotto assume in modo molto definito una posizione che è quindi meta-discorsiva, proprio a causa della sua funzione di ponte prospettico fra la dimensione singolare e quella plurale. L’historia sui, tema che fino a La Beltà è riservato alle prose181, ora viene esteso e fatto coincidere con un’analisi del presente ad ampio spettro. Zanzotto si colloca, all’interno dei suoi testi, in una posizione opposta rispetto all’andante proustiano182 secondo il quale l’autore dell’opera non sarebbe mai sovrapponibile al narratore nel del gioco di specchi della fictio. Anzi il

                                                                                                               

178   A.   Zanzotto,   “Autoritratto”   in   Le   poesie   e   le   prose   scelte,   p.   1207;   A.   Zanzotto,   “Parole,   comportamenti,   gruppi   (appunti)”   in   Studi   Novecenteschi,   p.   352;   ed   infine   il   narcisismo   come   “condizione  clinica”  in  P.  P.  Pasolini  “La  beltà  (appunti),  p.  267.  

179   È   lo   stesso   Zanzotto,   in   un’intervista-­‐flusso   rilasciata   a   Laura   Barile,   a   fornire   la   definizione   di   trauma,   fondamentale   per   orientare   la   lettura   della   sua   produzione   poetica   degli   anni   Settanta:   “«Stonato»:   sarebbe   questo,   insomma,   il   registro   del   Trauma,   il   segno   della   frattura   che   sul   piano   biografico  doppia  il  collasso  prodotto  su  scala  planetaria  dal  dominio  dell’economia,  i  cui  esiti  nefasti   a  buona  ragione  assillano  il  poeta.  Se  allora  la  catastrofe  occupa  il  centro  del  discorso,  lo  fa  però  in   modo  tale  da  fare  del  discorso  un  girare  attorno,  o  un  guardare  ora  da  sopra  e  ora  da  sotto,  senza  fissa   dimora   e   magari   a   tentoni,   riproducendo   un   moto   aperto   e   inconcluso.”   In   A.   Zanzotto,   Eterna  

riabilitazione  da  un  trauma  di  cui  s’ignora  la  natura,  cura  di  Laura  Barile  e  Ginevra  Bompiani  (Roma:  

Nottetempo,  2007),  p.  89  

180  Il  tentativo  compiuto  da  Zanzotto,  ad  un  livello  ulteriore  rispetto  al  piano  del  presente,  è  quello  di   rivelare  la  persistenza  di  quei  tessuti  lesi  dall’esperienza  della  guerra  e  dal  fascismo,  ora  traghettati,   anche  a  livello  linguistico,  nel  cuore  degli  anni  Settanta:  “Non  è  stato  ancora  aperto  un  discorso  che   potesse   veramente   liquidare,   analizzandola,   quella   congerie   di   falsificazioni   e   orrori   in   cui   l’ultimo   nazifascismo   si   incarnò.   […]   Nei   singoli   e   nei   gruppi   perdura   qualcosa   di   quel   periodo,   che   vide   lo   smaccato  trionfo  del  non-­‐senso  e  di  un’idiozia  feroce  al  di  là  di  ogni  ragionevole  motivazione  storica.”   In  A.  Zanzotto,  “Parole,  comportamenti,  gruppi”  in  AAVV,  Studi  novecenteschi,  Vol.  4,  No.  8/9,  luglio-­‐ novembre  1974  (Pisa:  Fabrizio  Serra  Editore,  1974),  p.  349.  

181  Mi  riferisco  in  particolar  modo  alle  prose  raccolte  in  A.  Zanzotto,  Sull'altopiano.  Racconti  e  prose  

(1942-­‐1954)  con  un'appendice  di  inediti  giovanili  (Lecce:  Manni,  2007).  

ANDREA  ZANZOTTO    

poeta solighese, pur denunciandone i rischi,183 afferma la necessità di questa sovrapposizione proprio per finalizzare l’obiettivo del suo esperimento poetico: quest’ultimo si configura come un affondo nell’inautenticità del linguaggio che danneggia sia l’uomo contemporaneo che il Soggetto della poesia, al fine di poter rivelarne i rischi e rivendicare una via alternativa. Ed è proprio a causa di questa narrazione soggettivamente implicata che la restituzione del presente compiuta dal testo passa attraverso un processo di storicizzazione del linguaggio poetico.

Le modalità con cui questo scavo è compiuto dal poeta di Pieve di Soligo permettono di attuare una collocazione geografica all’interno del vettore simbolico-reale del Soggetto in maggiore prossimità dell’estremità simbolica. Zanzotto sceglie infatti di sondare il grado di autenticità del linguaggio poetico compiendo uno scavo al di sotto della coscienza dello stesso autore (quello che precedentemente è stato definito come Soggetto dell’enunciazione), proprio in quanto esso è sovrapponibile al Soggetto dell’enunciato.

La Beltà, per questi motivi, costituisce il punto più profondo dell’analisi compiuta da

Zanzotto sul linguaggio. In essa si assiste infatti all’eliminazione di ogni paratia protettiva del linguaggio poetico, ogni forma di supposta inautenticità del codice. Il rapporto con la propria esperienza del linguaggio, ne La Beltà come nelle raccolte successive, viene indagato al livello ulteriore dell’Inconscio, come possibile sede di un’autentica capacità di verbalizzazione.

Il problema del grande Altro risiede, secondo l’insegnamento lacaniano, nella sua inattingibilità da parte del Soggetto, in quanto non sarebbe in grado di accedervi se non per mezzo di meccanismi simbolici rilevatori per lo psicoanalista come il lapsus, il motto di spirito ed il sogno.184 Lo psicoanalista di pone, all’interno di questa dinamica, come

destinatario e quindi come interprete del messaggio. Nella poesia zanzottiana la figura

dell’analista lacaniano, che oppone il muro del silenzio al discorso dell’analizzato, viene rovesciata completamente a favore di un’auto-auscultazione del proprio Soggetto poetico:                                                                                                                

183  “[…]  tutto  questo  può  sembrare  connesso  anche  a  forme  di  narcisismo  e  di  consolazione  autistica   […]  ma  se  è  vero  che  Narciso  è  il  modo  primo  di  apparire  dell’esistenza  a  sé  stessa,  tende  poi  a  superarsi   fondando  qualche  cosa  di  diverso”,  in  A.  Zanzotto,  “Autoritratto”  in  Le  Poesie  e  le  Prose  scelte,  p.  1207.  

184  “Eccoci  dunque  in  posizione  di  dire  che,  lungi  che  il  soggetto  di  fronte  a  noi  debba  essere  un  vivente   reale,  questo  Altro  è  essenzialmente  un  luogo  simbolico”,  in  J.  Lacan,  Le  Séminaire  V,  Les  formations  

de  l'inconscient  (1957-­‐1958),  (Parigi:  Seuil,  1998)  pp.  116-­‐117.  Nella  pagina  successiva  qualifica  questo  

Altro  come  "sopra-­‐individuale",  come  "avente  un  carattere  singolarmente  immortale"  e  soprattutto,   come  sottolinea  J.A.  Miller  nel  suo  Seminario  tenuto  a  Barcellona  su  Les  formations  de  l'inconscient,   come  avente  "un  carattere  che  possiamo  chiamare  astratto";  Jacques  Alain  Miller,  "Lacan  con  Joyce.   Seminario  di  Barcellona  II",  La  Psicoanalisi,  n.  23  (Roma:  Astrolabio,  1998)  p.  44.  

Zanzotto si propone infatti, contrapponendo alla teoria psicoanalitica la propria ποίησις185, di attingere a questo luogo astratto e fondativo ricreandone le dinamiche da cui è animato e percorso. Sono allora identificabili due principali linee entro cui sviluppare questo tipo di restituzione delle dinamiche soggettive.

La prima viene attuata per mezzo di un’indagine svolta intorno ai costituenti minimi del linguaggio scomposto nei singoli segmenti della catena significante. La successione dei vari significanti è da interpretare in quanto principio di combinazione e luogo di realizzazione della metonimia, da considerare contemporaneamente come tropo e come figura mentale. Zanzotto riprende in questo senso l’intuizione mallarmeana, citata dallo stesso Lacan nel Seminario V, per cui la poesia si definisce solo per mezzo del rapporto fra i suoi significanti.186

La seconda si realizza per mezzo di uno scavo, questa volta verticale, all’interno della storia linguistica personale, per mezzo del recupero della sillabazione dell’infans e della presenza del dialetto nella sua forma di petél, ovvero di linguaggio fonosimbolico dei bambini.187

3.2.2 La posizione del Soggetto nel macrotesto

Fondamentale al fine di verificare come l’elemento di analisi linguistica e di conseguente posizionamento del Soggetto poetico sia inserito all’interno di una struttura narrativa, è l’impostazione di un’analisi macro-testuale che permetta di verificare questo legame fra gli estremi individuati. La Beltà, in questo senso, si rivela essere una raccolta caratterizzata da una solida architettura formale, in grado di tradire una evidente ricerca di equilibrio architettonico e quindi narrativo.

                                                                                                               

185   All’interno   di   un   saggio   di   fine   anni   Ottanta   che   ripercorre   tutta   la   sua   produzione,   è   lo   stesso   Zanzotto  ad  affermare  che  il  suo  è  un  “rapporto  di  esperienza  poetica  con  un  elemento  di  sogno  che   continuamente  si  auto-­‐supera  in  sentimento  di  realizzazione  di  un  progetto.  L’Inconscio  non  si  produce   continuamente,  travolgendo  consapevolezza  e  veglia,  ma  attivando  una  specie  di  super-­‐veglia  spostata   in  avanti.”  A.  Zanzotto,  “Tentativi  di  esperienze  poetiche  (poetiche-­‐lampo)”,  in  Le  poesie  e  le  prose  

scelte,  pp.  1309-­‐10.    

186  J.  Lacan,  Le  Séminaire  V,  p.  55.  

187  A  tale  proposito,  Claudio  Pezzin  ha  attuato  un  parallelismo  interessante  fra  la  lingua-­‐latte  del  petél   zanzottiano  e  la  scrittura  del  puer  senilis  leopardiano,  nelle  quali  identifica  la  comune  radice  di  ricerca   svolta  sul  linguaggio  poetico  al  fine  di  una  riappropriazione  soggettiva  e  nuova  di  questo  codice;  cfr.  C.   Pezzin,  Zanzotto  e  Leopardi:  il  poeta  come  infans  (Verona:  Cierre,  1988).  

ANDREA  ZANZOTTO    

3.2.3.1 Il titolo, la soglia: Ampolla (cisti) e fuori

La prima grande porta di accesso alla raccolta è rappresentata dallo stesso titolo188: la scelta di un titolo come La Beltà rivela, in questo senso, la volontà dell’autore di suscitare un’aspettativa nel lettore che sarà poi disillusa dalla stessa struttura narrativa, in cui l’oggetto, ovvero la bellezza sembra negata o limitata ad apparizioni linguistiche, ad epifanie della durata di un verso. Ne La Beltà apparentemente non sembra esserci beltà, come è rilevato dallo stesso autore nella nota ad Ampolla (cisti) e fuori.189 Da un lato, la pratica del linguaggio poetico, tenta una sorta di “collaudo della realtà”190, di lode della bellezza, mentre dall’altro, deve essere in grado di accettare il movimento di immersione nella palus putredinis del reale. Il titolo, soprattutto attraverso la scelta di un allotropo antico ed in un certo senso cacofonico a causa dell’accento tronco, rivela la sensibilità semantica dell’autore nei confronti di una scelta che vuole ironicamente restituire questo contrasto fra sublimazione e realtà. A rafforzare questa interpretazione, è la collocazione del lemma nel componimento Ampolla (cisti) e fuori, il cui titolo iniziale doveva essere significativamente La beltà,191 ad apertura della terza sezione della raccolta, ovvero in un altro spazio liminare del macrotesto: nella sezione iniziale, EPIGRAFE, “beltà” funge da ossessivo mot-refrain, riecheggiato dalle numerose rime ossitone in –à (“ci si sta”, “chissà”). Esso appare inoltre in un contesto in cui è accompagnato da scelte lessicali non nobili, soprattutto a livello verbale, come nel caso di “gorgheggiano, / squittiscono, zirlano, ronzano”, “incistati”.

Il componimento che doveva dare nome all’intera raccolta nel progetto originale, presenta numerose affinità con un altro componimento collocato in una posizione nevralgica del macrotesto, ovvero il prologo Oltranza Oltraggio.192 I due componimenti sono accomunati dalla forte presenza di lemmi ossitoni in luogo di rima (in Oltranza Oltraggio si veda                                                                                                                

188  Più  volte  Zanzotto  torna  a  sottolineare  l’importanza  della  semantica  dei  titoli  delle  sue  raccolte  e  di   come  in  questi  sia  sussunto  il  significato  dell’intera  opera,  vd.  A.  Zanzotto,  “Autoritratto”;  vd.  anche  P.   V.  Mengaldo,  “Questioni  metriche  Novecentesche”  in  La  tradizione  del  Novecento.  Terza  serie  (Torino:   Einaudi,  1991).  

189  Nel  chiosare  il  termine  la  chose,  Zanzotto  afferma  che  “Il  tema  della  bellezza  che  qui  si  rinsecchisce   in  beltà,  grazie  ad  una  possibilità  che  è  data  alla  lingua  italiana,  consente  un  gioco  di  andata  e  ritorno   di  un  senso  inafferrabile  che  oscilla  appunto  fra  i  due  significanti,  giustificando  il  titolo  del  libro”  in  

Ampolla  (cisti)  e  fuori,  vv.  9-­‐10,  in  LB,  p.  297.  

190  A.  Zanzotto,  “Autoritratto”,  p.  1207.  

191  Luca  Stefanelli,  “Ampolla  (cisti)  e  fuori:  fonti  alchemiche  e  dionisiache  nella  trama  macrotestuale”,   in  Attraverso  La  Beltà  di  Andrea  Zanzotto  (Pisa:  ETS,  2011),  pp.  365-­‐366.  

“outré” che costituisce la chiusura di un settenario tronco, rafforzando la carica eversiva a livello metrico, “fatti più in là”, “sigh”, “là”), mentre sul piano prettamente semantico, dal legame fra “beltà” e la costanza dell’ostinata ricerca, la sua “oltranza” (in Ampolla: “la tua beltà […] / ardendo nella bolla se ne va”; in Oltranza: “ti fai più in là; sei più in là”). Infine, il Soggetto si riferisce all’oggetto della beltà per mezzo di aggettivi ossimorici che potenziano la detonazione dell’ironico nel dramma del non poter attingere alla bellezza del reale (in Ampolla: “levigatissima spigolosissima”: in Oltraggio “puro pura”, “l’esplodente, l’eclatante”).

Il legame esistente fra un testo determinante per stabilire il significato della raccolta e il componimento posto a prologo costituisce in questo modo un ponte concettuale fra la semantica del titolo e gli spazi liminari che inquadrano l’intera struttura de La Beltà: grazie a questa struttura, l’impossibilità di ricostituire un rapporto con la caratteristica dell’oggetto lirico per eccellenza, la bellezza, viene posta in comunicazione diretta con il problema del

medium, ovvero il linguaggio (che come precedentemente notato è da considerare anche

ANDREA  ZANZOTTO    

3.2.3.2 Spazi liminari, dall’oltraggio alla norma

La ricerca degli spazi liminari del macrotesto aiuta a scansionare la raccolta in sezioni e soprattutto a stabilirne la traiettoria argomentativo-narrativa. Gli spazi liminari de La Beltà sono da considerare i due componimenti collocati come rispettivamente come prologo ed epilogo della raccolta: il già citato Oltranza Oltraggio e E la madre-norma. Proviamo ora a leggere parallelamente il prologo e l’epilogo della raccolta, in modo tale da fissare i due punti entro i quali viene sviluppata la narrazione soggettiva.

Il prologo inquadra fin da subito la problematica centrale di tutto il testo, ovvero l’assenza, o per meglio dire, la presenza fantasmatica di un terminale lirico esterno identificabile con lo stesso linguaggio della poesia, il medium attraverso il quale potenzialmente sarebbe possibile restituire la bellezza. A tal proposito, risulta rivelatrice la presenza martellante ad inizio verso del pronome “ti” alla quale è contrapposta l’assenza totale del pronome di

OLTRANZA OLTRAGGIO

Salti saltabecchi friggendo puro-pura nel vuoto spinto outrè ti fai più in là

intangibile - tutto sommato - tutto sommato

tutto sei più in là

ti vedo nel fondo della mia serachiusascura ti identifico tra i non i sic i sigh

ti disidentifico solo no solo sì solo

piena di punte immite frigida ti fai più in là

e sprofondi e strafai in te sempre più in te fotti il campo

decedi verso nel tuo sprofondi

brilli feroce inconsutile nonnulla l’esplodente l’eclatante e non si sente nulla non si sente

no sei esaltata più in là ricca saltabeccante là L’oltraggio

E LA MADRE-NORMA

A Franco Fortini

Fino all’ultimo sangue io che sono l’esangue e l’ultimo sangue c’è,

il renitente, grumo di Gennaro, milza. E mi faccio spazio davanti

indietro e intorno, straccio le carte scritte, le reti di ogni arte,

lingua o linguistica: torno senza arte né parte: ma attivante. E torna, per questo fare, la norma io come giolli sempre variabile e unico il giolli-golem censito dalla luna luna nella torre di Praga

ma inaureito inauditamente fertile,

torno a capo ogni volta ogni volta poemizzo e mi poemizzo a ogni cosa e insieme dolenti mie parole estreme

sempre ogni volta parole estreme

insieme esercito in pugna folla cattiva o angelica: state. --- Va’ nella chiara libertà,

libera il sereno la pastura dei colli goduta a misura d’una figurabile natura rileva i «i raccordi e le rime dell’abbietto con il sublime» e la madre-norma

prima persona singolare. Il percorso compiuto dal Soggetto, di cui non viene fornita consistenza pronominale, ma solo l’attestazione di presenza monologante, viene collocata da Zanzotto per mezzo della citazione del Dante paradisiaco “e cede memoria a tanto oltraggio”193: l’oltranza è rappresentata dalla coazione a ripetere che porta il Soggetto ad esprimersi per mezzo della poesia, al quale si contrappone l’oltraggio dell’ineffabilità, iscrivendo questo tentativo all’interno di un compito impossibile all’interno di una rounded

structure. Il dramma e quindi l’oltraggio risiedono principalmente nella natura linguistica

dello stesso Soggetto che viene ridotto all’incapacità di rappresentarsi simbolicamente e di entrare in relazione con la realtà (“ti fai più in là”, “ti disentifico”).

Nell’epilogo della raccolta, contrapponendolo all’ineffabilità afasica che caratterizzava il primo, Zanzotto compie un movimento uguale e contrario rispetto al prologo, attuando un passaggio da un ripiegamento su sé stesso del Soggetto ad una sua risposta attiva alla crisi espressiva che lo attraverso, per mezzo di un ricongiungimento con il linguaggio, nella forma finalmente riconosciuta della convenzione espressiva, della norma appunto. La poesia è dedicata a Fortini, proprio in virtù di quello che da Zanzotto è riconosciuta come una comune sofferenza nei confronti di un mondo, di un reale, che sembra suggerire l’impossibilità della poesia, così come di una comunicazione autentica. Il componimento è inoltre ricco di elementi di citazione e di omaggio alla tradizione, ricollegabili a quel movimento di Bildung soggettiva che è stato precedentemente definito attraverso l’aggettivo manierista: nei primi versi si ritrova l’immagine, soprattutto tipica della tragedia greca classica, della milza come organo secernente la bile e quindi ricollegabile all’immaginario di un carattere malinconico e contemplativo; “le dolenti mie parole estreme” sono la citazione quasi diretta di una delle canzoni più celebri di Petrarca;194 di ascendenza petrarchesca può essere considerata anche la chiusa del componimento che va a costituire una sorta di congedo di canzone, consistente in una strofetta di decasillabi e ottonari, a cui viene aggiunto un couplet contenente la traduzione di un verso di Hölderlin ed infine un verso irrelato nel quale viene collocato il titolo dello stesso componimento. L’insieme di questi elementi suggerisce e rinsalda l’idea di un approccio manierista al ricostituito linguaggio poetico, nutrito di riferimenti culturali e di uno sporadico ritorno a forme metriche chiuse (anche se deformate rispetto alla tradizione).La lettura parallela dei                                                                                                                

193  A.  Zanzotto,  “La  Beltà”,  p.  352.