3. Andrea Zanzotto
3.2 La Beltà
Il Galateo in bosco.173 Contrapposto a questo gioco allegorico, troviamo la poesia stessa,
incarnata in figure di resistenza fra le quali possiamo inscrivere il contadino Nino all’interno della raccolta La Beltà.174 Inserita nel profondo di questo gioco di specchi, la poesia rimane il mezzo per garantire al Soggetto la propria alterità rispetto alla metamorfosi dell’autentico in inautentico, conservando, con tinte che sfiorano in questo senso l’orfismo di certa poesia ermetica, la propria sacralità175.
Il fine di questa operazione risiede nella ricerca di un linguaggio finalmente liberato dalle minacce del ventriloquio, dell’esprimersi in modo de-soggettivato ed inautentico, ovvero dal rischio di essere vittima di quella che è stata definita da Lacan altalena immaginaria della rappresentazione176.
3.2 La Beltà
3.2.1 La narrazione dell’Inconscio
Le modalità in cui la Storia entra all’interno della poesia di Zanzotto si legano al problema della narrazione, cioè di come il Soggetto (nel nostro particolare caso il Soggetto poetico) restituisca una dimensione sovra-individuale per mezzo dell’iscrizione del suo racconto nell’esperienza individuale.177 Come cioè, con termini zanzottiani, si vinca il rischio di
173 A. Zanzotto, Il Galateo in Bosco (Milano: Mondadori, 1979).
174 La figura dell’emarginato storico, o meglio, della figura apparentemente ai margini della Storia rappresenta una consolidata allegoria della stessa poesia nel presente storico: “Ancora più oltre: secondo esempi già forniti spesso dalla storia, ma non nella forma dell'intimazione finale come nei nostri tempi, la poesia, proprio nel suo sentirsi connessa all'abiezione, all'emarginazione (al margine-‐ limite), acquisiva un certo diritto a proporsi come punto zero dalla cui prospettiva diventava inaccettabile e vuoto di senso qualunque avatar della violenza emarginante, del potere « storico » fino ad allora conosciuto. Il narciso poetico, accettando la propria crocifissione, anche in nome di tutte le altre (peggiori?) forme di narcisismo, poteva diventare spia del «desiderio» di un'eventuale storia alternativa.” In A. Zanzotto, “Parole, comportamenti, gruppi (appunti)” in Studi Novecenteschi, vol. 4, n. 8/9, p. 352; cfr. anche Maurizio Cucchi, “La Beltà presa a coltellate?”, Ib. p. 267.
175 L’aggettivo sacro è qui da intendere nella sua accezione di sacer latino, ovvero di ciò che appartiene ad altro rispetto agli uomini. Trasportato nell’ambito poetico e soprattutto nella poesia di Zanzotto, l’altro poetico può essere sovrapposto all’alterità relativa dell’Inconscio umano, ovvero di quello che Lacan ha definito come Altro; cfr. A. Zanzotto, “Per Paul Celan” in Le poesie e le prose scelte, p. 1334.
176 Davide Tarizzo, Introduzione a Lacan (Roma: Laterza, 2003), p. 53.
177 La poesia di Zanzotto riesce a creare, in questo senso, procedimenti narrativi non tradizionali, ai quali è sostituita la presenza fondante di una geografia che è in grado di circoscrivere perfettamente un territorio-‐teatro della Storia in cui il Soggetto poetico è collocabile; in Stefano Dal Bianco, “Profili dei libri e note alle poesie” in A. Zanzotto, Le poesie e le prose scelte, pp. 1687-‐88.
auto-rappresentazione narcisistica che è insito nella stessa nozione di poesia.178 Dalla posizione privilegiata di isolato, Andrea Zanzotto osserva un mondo che sta lentamente ma irreversibilmente sparendo, ne registra prontamente i sommovimenti linguistici e cerca di individuarne le cause riproducendo nella propria scrittura non solo il trauma personale, ma soprattutto riflettendo un trauma di natura collettiva che negli anni Settanta acquista forme più compiute rispetto all’epoca del boom economico.179 Il linguaggio rileva prontamente la persistenza di questi traumi ed il loro acuirsi all’interno di un’ottica che sociologicamente lega la capacità di significare della parola al gruppo e quindi alla società, formata a sua volta da Soggetti che la esprimono. 180
A partire dalla raccolta del ’68, la geografia del Soggetto poetico di Zanzotto assume in modo molto definito una posizione che è quindi meta-discorsiva, proprio a causa della sua funzione di ponte prospettico fra la dimensione singolare e quella plurale. L’historia sui, tema che fino a La Beltà è riservato alle prose181, ora viene esteso e fatto coincidere con un’analisi del presente ad ampio spettro. Zanzotto si colloca, all’interno dei suoi testi, in una posizione opposta rispetto all’andante proustiano182 secondo il quale l’autore dell’opera non sarebbe mai sovrapponibile al narratore nel del gioco di specchi della fictio. Anzi il
178 A. Zanzotto, “Autoritratto” in Le poesie e le prose scelte, p. 1207; A. Zanzotto, “Parole, comportamenti, gruppi (appunti)” in Studi Novecenteschi, p. 352; ed infine il narcisismo come “condizione clinica” in P. P. Pasolini “La beltà (appunti), p. 267.
179 È lo stesso Zanzotto, in un’intervista-‐flusso rilasciata a Laura Barile, a fornire la definizione di trauma, fondamentale per orientare la lettura della sua produzione poetica degli anni Settanta: “«Stonato»: sarebbe questo, insomma, il registro del Trauma, il segno della frattura che sul piano biografico doppia il collasso prodotto su scala planetaria dal dominio dell’economia, i cui esiti nefasti a buona ragione assillano il poeta. Se allora la catastrofe occupa il centro del discorso, lo fa però in modo tale da fare del discorso un girare attorno, o un guardare ora da sopra e ora da sotto, senza fissa dimora e magari a tentoni, riproducendo un moto aperto e inconcluso.” In A. Zanzotto, Eterna
riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, cura di Laura Barile e Ginevra Bompiani (Roma:
Nottetempo, 2007), p. 89
180 Il tentativo compiuto da Zanzotto, ad un livello ulteriore rispetto al piano del presente, è quello di rivelare la persistenza di quei tessuti lesi dall’esperienza della guerra e dal fascismo, ora traghettati, anche a livello linguistico, nel cuore degli anni Settanta: “Non è stato ancora aperto un discorso che potesse veramente liquidare, analizzandola, quella congerie di falsificazioni e orrori in cui l’ultimo nazifascismo si incarnò. […] Nei singoli e nei gruppi perdura qualcosa di quel periodo, che vide lo smaccato trionfo del non-‐senso e di un’idiozia feroce al di là di ogni ragionevole motivazione storica.” In A. Zanzotto, “Parole, comportamenti, gruppi” in AAVV, Studi novecenteschi, Vol. 4, No. 8/9, luglio-‐ novembre 1974 (Pisa: Fabrizio Serra Editore, 1974), p. 349.
181 Mi riferisco in particolar modo alle prose raccolte in A. Zanzotto, Sull'altopiano. Racconti e prose
(1942-‐1954) con un'appendice di inediti giovanili (Lecce: Manni, 2007).
ANDREA ZANZOTTO
poeta solighese, pur denunciandone i rischi,183 afferma la necessità di questa sovrapposizione proprio per finalizzare l’obiettivo del suo esperimento poetico: quest’ultimo si configura come un affondo nell’inautenticità del linguaggio che danneggia sia l’uomo contemporaneo che il Soggetto della poesia, al fine di poter rivelarne i rischi e rivendicare una via alternativa. Ed è proprio a causa di questa narrazione soggettivamente implicata che la restituzione del presente compiuta dal testo passa attraverso un processo di storicizzazione del linguaggio poetico.
Le modalità con cui questo scavo è compiuto dal poeta di Pieve di Soligo permettono di attuare una collocazione geografica all’interno del vettore simbolico-reale del Soggetto in maggiore prossimità dell’estremità simbolica. Zanzotto sceglie infatti di sondare il grado di autenticità del linguaggio poetico compiendo uno scavo al di sotto della coscienza dello stesso autore (quello che precedentemente è stato definito come Soggetto dell’enunciazione), proprio in quanto esso è sovrapponibile al Soggetto dell’enunciato.
La Beltà, per questi motivi, costituisce il punto più profondo dell’analisi compiuta da
Zanzotto sul linguaggio. In essa si assiste infatti all’eliminazione di ogni paratia protettiva del linguaggio poetico, ogni forma di supposta inautenticità del codice. Il rapporto con la propria esperienza del linguaggio, ne La Beltà come nelle raccolte successive, viene indagato al livello ulteriore dell’Inconscio, come possibile sede di un’autentica capacità di verbalizzazione.
Il problema del grande Altro risiede, secondo l’insegnamento lacaniano, nella sua inattingibilità da parte del Soggetto, in quanto non sarebbe in grado di accedervi se non per mezzo di meccanismi simbolici rilevatori per lo psicoanalista come il lapsus, il motto di spirito ed il sogno.184 Lo psicoanalista di pone, all’interno di questa dinamica, come
destinatario e quindi come interprete del messaggio. Nella poesia zanzottiana la figura
dell’analista lacaniano, che oppone il muro del silenzio al discorso dell’analizzato, viene rovesciata completamente a favore di un’auto-auscultazione del proprio Soggetto poetico:
183 “[…] tutto questo può sembrare connesso anche a forme di narcisismo e di consolazione autistica […] ma se è vero che Narciso è il modo primo di apparire dell’esistenza a sé stessa, tende poi a superarsi fondando qualche cosa di diverso”, in A. Zanzotto, “Autoritratto” in Le Poesie e le Prose scelte, p. 1207.
184 “Eccoci dunque in posizione di dire che, lungi che il soggetto di fronte a noi debba essere un vivente reale, questo Altro è essenzialmente un luogo simbolico”, in J. Lacan, Le Séminaire V, Les formations
de l'inconscient (1957-‐1958), (Parigi: Seuil, 1998) pp. 116-‐117. Nella pagina successiva qualifica questo
Altro come "sopra-‐individuale", come "avente un carattere singolarmente immortale" e soprattutto, come sottolinea J.A. Miller nel suo Seminario tenuto a Barcellona su Les formations de l'inconscient, come avente "un carattere che possiamo chiamare astratto"; Jacques Alain Miller, "Lacan con Joyce. Seminario di Barcellona II", La Psicoanalisi, n. 23 (Roma: Astrolabio, 1998) p. 44.
Zanzotto si propone infatti, contrapponendo alla teoria psicoanalitica la propria ποίησις185, di attingere a questo luogo astratto e fondativo ricreandone le dinamiche da cui è animato e percorso. Sono allora identificabili due principali linee entro cui sviluppare questo tipo di restituzione delle dinamiche soggettive.
La prima viene attuata per mezzo di un’indagine svolta intorno ai costituenti minimi del linguaggio scomposto nei singoli segmenti della catena significante. La successione dei vari significanti è da interpretare in quanto principio di combinazione e luogo di realizzazione della metonimia, da considerare contemporaneamente come tropo e come figura mentale. Zanzotto riprende in questo senso l’intuizione mallarmeana, citata dallo stesso Lacan nel Seminario V, per cui la poesia si definisce solo per mezzo del rapporto fra i suoi significanti.186
La seconda si realizza per mezzo di uno scavo, questa volta verticale, all’interno della storia linguistica personale, per mezzo del recupero della sillabazione dell’infans e della presenza del dialetto nella sua forma di petél, ovvero di linguaggio fonosimbolico dei bambini.187
3.2.2 La posizione del Soggetto nel macrotesto
Fondamentale al fine di verificare come l’elemento di analisi linguistica e di conseguente posizionamento del Soggetto poetico sia inserito all’interno di una struttura narrativa, è l’impostazione di un’analisi macro-testuale che permetta di verificare questo legame fra gli estremi individuati. La Beltà, in questo senso, si rivela essere una raccolta caratterizzata da una solida architettura formale, in grado di tradire una evidente ricerca di equilibrio architettonico e quindi narrativo.
185 All’interno di un saggio di fine anni Ottanta che ripercorre tutta la sua produzione, è lo stesso Zanzotto ad affermare che il suo è un “rapporto di esperienza poetica con un elemento di sogno che continuamente si auto-‐supera in sentimento di realizzazione di un progetto. L’Inconscio non si produce continuamente, travolgendo consapevolezza e veglia, ma attivando una specie di super-‐veglia spostata in avanti.” A. Zanzotto, “Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-‐lampo)”, in Le poesie e le prose
scelte, pp. 1309-‐10.
186 J. Lacan, Le Séminaire V, p. 55.
187 A tale proposito, Claudio Pezzin ha attuato un parallelismo interessante fra la lingua-‐latte del petél zanzottiano e la scrittura del puer senilis leopardiano, nelle quali identifica la comune radice di ricerca svolta sul linguaggio poetico al fine di una riappropriazione soggettiva e nuova di questo codice; cfr. C. Pezzin, Zanzotto e Leopardi: il poeta come infans (Verona: Cierre, 1988).
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3.2.3.1 Il titolo, la soglia: Ampolla (cisti) e fuori
La prima grande porta di accesso alla raccolta è rappresentata dallo stesso titolo188: la scelta di un titolo come La Beltà rivela, in questo senso, la volontà dell’autore di suscitare un’aspettativa nel lettore che sarà poi disillusa dalla stessa struttura narrativa, in cui l’oggetto, ovvero la bellezza sembra negata o limitata ad apparizioni linguistiche, ad epifanie della durata di un verso. Ne La Beltà apparentemente non sembra esserci beltà, come è rilevato dallo stesso autore nella nota ad Ampolla (cisti) e fuori.189 Da un lato, la pratica del linguaggio poetico, tenta una sorta di “collaudo della realtà”190, di lode della bellezza, mentre dall’altro, deve essere in grado di accettare il movimento di immersione nella palus putredinis del reale. Il titolo, soprattutto attraverso la scelta di un allotropo antico ed in un certo senso cacofonico a causa dell’accento tronco, rivela la sensibilità semantica dell’autore nei confronti di una scelta che vuole ironicamente restituire questo contrasto fra sublimazione e realtà. A rafforzare questa interpretazione, è la collocazione del lemma nel componimento Ampolla (cisti) e fuori, il cui titolo iniziale doveva essere significativamente La beltà,191 ad apertura della terza sezione della raccolta, ovvero in un altro spazio liminare del macrotesto: nella sezione iniziale, EPIGRAFE, “beltà” funge da ossessivo mot-refrain, riecheggiato dalle numerose rime ossitone in –à (“ci si sta”, “chissà”). Esso appare inoltre in un contesto in cui è accompagnato da scelte lessicali non nobili, soprattutto a livello verbale, come nel caso di “gorgheggiano, / squittiscono, zirlano, ronzano”, “incistati”.
Il componimento che doveva dare nome all’intera raccolta nel progetto originale, presenta numerose affinità con un altro componimento collocato in una posizione nevralgica del macrotesto, ovvero il prologo Oltranza Oltraggio.192 I due componimenti sono accomunati dalla forte presenza di lemmi ossitoni in luogo di rima (in Oltranza Oltraggio si veda
188 Più volte Zanzotto torna a sottolineare l’importanza della semantica dei titoli delle sue raccolte e di come in questi sia sussunto il significato dell’intera opera, vd. A. Zanzotto, “Autoritratto”; vd. anche P. V. Mengaldo, “Questioni metriche Novecentesche” in La tradizione del Novecento. Terza serie (Torino: Einaudi, 1991).
189 Nel chiosare il termine la chose, Zanzotto afferma che “Il tema della bellezza che qui si rinsecchisce in beltà, grazie ad una possibilità che è data alla lingua italiana, consente un gioco di andata e ritorno di un senso inafferrabile che oscilla appunto fra i due significanti, giustificando il titolo del libro” in
Ampolla (cisti) e fuori, vv. 9-‐10, in LB, p. 297.
190 A. Zanzotto, “Autoritratto”, p. 1207.
191 Luca Stefanelli, “Ampolla (cisti) e fuori: fonti alchemiche e dionisiache nella trama macrotestuale”, in Attraverso La Beltà di Andrea Zanzotto (Pisa: ETS, 2011), pp. 365-‐366.
“outré” che costituisce la chiusura di un settenario tronco, rafforzando la carica eversiva a livello metrico, “fatti più in là”, “sigh”, “là”), mentre sul piano prettamente semantico, dal legame fra “beltà” e la costanza dell’ostinata ricerca, la sua “oltranza” (in Ampolla: “la tua beltà […] / ardendo nella bolla se ne va”; in Oltranza: “ti fai più in là; sei più in là”). Infine, il Soggetto si riferisce all’oggetto della beltà per mezzo di aggettivi ossimorici che potenziano la detonazione dell’ironico nel dramma del non poter attingere alla bellezza del reale (in Ampolla: “levigatissima spigolosissima”: in Oltraggio “puro pura”, “l’esplodente, l’eclatante”).
Il legame esistente fra un testo determinante per stabilire il significato della raccolta e il componimento posto a prologo costituisce in questo modo un ponte concettuale fra la semantica del titolo e gli spazi liminari che inquadrano l’intera struttura de La Beltà: grazie a questa struttura, l’impossibilità di ricostituire un rapporto con la caratteristica dell’oggetto lirico per eccellenza, la bellezza, viene posta in comunicazione diretta con il problema del
medium, ovvero il linguaggio (che come precedentemente notato è da considerare anche
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3.2.3.2 Spazi liminari, dall’oltraggio alla norma
La ricerca degli spazi liminari del macrotesto aiuta a scansionare la raccolta in sezioni e soprattutto a stabilirne la traiettoria argomentativo-narrativa. Gli spazi liminari de La Beltà sono da considerare i due componimenti collocati come rispettivamente come prologo ed epilogo della raccolta: il già citato Oltranza Oltraggio e E la madre-norma. Proviamo ora a leggere parallelamente il prologo e l’epilogo della raccolta, in modo tale da fissare i due punti entro i quali viene sviluppata la narrazione soggettiva.
Il prologo inquadra fin da subito la problematica centrale di tutto il testo, ovvero l’assenza, o per meglio dire, la presenza fantasmatica di un terminale lirico esterno identificabile con lo stesso linguaggio della poesia, il medium attraverso il quale potenzialmente sarebbe possibile restituire la bellezza. A tal proposito, risulta rivelatrice la presenza martellante ad inizio verso del pronome “ti” alla quale è contrapposta l’assenza totale del pronome di
OLTRANZA OLTRAGGIO
Salti saltabecchi friggendo puro-pura nel vuoto spinto outrè ti fai più in là
intangibile - tutto sommato - tutto sommato
tutto sei più in là
ti vedo nel fondo della mia serachiusascura ti identifico tra i non i sic i sigh
ti disidentifico solo no solo sì solo
piena di punte immite frigida ti fai più in là
e sprofondi e strafai in te sempre più in te fotti il campo
decedi verso nel tuo sprofondi
brilli feroce inconsutile nonnulla l’esplodente l’eclatante e non si sente nulla non si sente
no sei esaltata più in là ricca saltabeccante là L’oltraggio
E LA MADRE-NORMA
A Franco Fortini
Fino all’ultimo sangue io che sono l’esangue e l’ultimo sangue c’è,
il renitente, grumo di Gennaro, milza. E mi faccio spazio davanti
indietro e intorno, straccio le carte scritte, le reti di ogni arte,
lingua o linguistica: torno senza arte né parte: ma attivante. E torna, per questo fare, la norma io come giolli sempre variabile e unico il giolli-golem censito dalla luna luna nella torre di Praga
ma inaureito inauditamente fertile,
torno a capo ogni volta ogni volta poemizzo e mi poemizzo a ogni cosa e insieme dolenti mie parole estreme
sempre ogni volta parole estreme
insieme esercito in pugna folla cattiva o angelica: state. --- Va’ nella chiara libertà,
libera il sereno la pastura dei colli goduta a misura d’una figurabile natura rileva i «i raccordi e le rime dell’abbietto con il sublime» e la madre-norma
prima persona singolare. Il percorso compiuto dal Soggetto, di cui non viene fornita consistenza pronominale, ma solo l’attestazione di presenza monologante, viene collocata da Zanzotto per mezzo della citazione del Dante paradisiaco “e cede memoria a tanto oltraggio”193: l’oltranza è rappresentata dalla coazione a ripetere che porta il Soggetto ad esprimersi per mezzo della poesia, al quale si contrappone l’oltraggio dell’ineffabilità, iscrivendo questo tentativo all’interno di un compito impossibile all’interno di una rounded
structure. Il dramma e quindi l’oltraggio risiedono principalmente nella natura linguistica
dello stesso Soggetto che viene ridotto all’incapacità di rappresentarsi simbolicamente e di entrare in relazione con la realtà (“ti fai più in là”, “ti disentifico”).
Nell’epilogo della raccolta, contrapponendolo all’ineffabilità afasica che caratterizzava il primo, Zanzotto compie un movimento uguale e contrario rispetto al prologo, attuando un passaggio da un ripiegamento su sé stesso del Soggetto ad una sua risposta attiva alla crisi espressiva che lo attraverso, per mezzo di un ricongiungimento con il linguaggio, nella forma finalmente riconosciuta della convenzione espressiva, della norma appunto. La poesia è dedicata a Fortini, proprio in virtù di quello che da Zanzotto è riconosciuta come una comune sofferenza nei confronti di un mondo, di un reale, che sembra suggerire l’impossibilità della poesia, così come di una comunicazione autentica. Il componimento è inoltre ricco di elementi di citazione e di omaggio alla tradizione, ricollegabili a quel movimento di Bildung soggettiva che è stato precedentemente definito attraverso l’aggettivo manierista: nei primi versi si ritrova l’immagine, soprattutto tipica della tragedia greca classica, della milza come organo secernente la bile e quindi ricollegabile all’immaginario di un carattere malinconico e contemplativo; “le dolenti mie parole estreme” sono la citazione quasi diretta di una delle canzoni più celebri di Petrarca;194 di ascendenza petrarchesca può essere considerata anche la chiusa del componimento che va a costituire una sorta di congedo di canzone, consistente in una strofetta di decasillabi e ottonari, a cui viene aggiunto un couplet contenente la traduzione di un verso di Hölderlin ed infine un verso irrelato nel quale viene collocato il titolo dello stesso componimento. L’insieme di questi elementi suggerisce e rinsalda l’idea di un approccio manierista al ricostituito linguaggio poetico, nutrito di riferimenti culturali e di uno sporadico ritorno a forme metriche chiuse (anche se deformate rispetto alla tradizione).La lettura parallela dei
193 A. Zanzotto, “La Beltà”, p. 352.