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C Bene e G Dotto, Vita di Carmelo Bene cit., p 199.

Carmelo Bene fra teatro e spettacolo Salvatore Vendittelli

73 Mi trovavo al Teatro delle Muse intento a montare tre atti unici (La Matadora di Gil Vicente, con la regia di Gian Filippo Belardo, Pittura su legno di Ingmar Bergman, con la regia di Ernesto Laura, e La casa crolla di Achille Fiocco, con la regia di Giorgio Baldini). Ho già detto quali fossero le condizioni spaziali del palcoscenico delle Muse. In uno di quei giorni si era riunito in tea tro un folto gruppo di colleghi scenografi per istituire l’albo professionale. Oltre a me erano presenti Polidori, Padovani, Falleni, Perilli, Bignardi, Bertacca, Scan- della, Nonnis, Job e altri. A un certo punto Miscia Scandella se ne uscì dicendo: «Io mi domando e dico che cosa ci stanno a fare questi tea tri se non è possibile costruirci niente». Io subito risposi:

In questo momento su questo palcoscenico sono montati tre atti unici che tu non riesci a vedere. Tutti sono capaci a inventare grandi scenografie per palcoscenici come il Teatro Verdi di Pisa o come il Teatro dell’Opera. Prova tu invece a mettere in scena, in uno spazio come questo di appena tre metri di profondità, una foresta e a farla apparire vera. Gli feci vedere, poi, come erano congegnate le tre scenogra- fie, come apparivano e sparivano.

Carmelo Bene fra teatro e spettacolo Salvatore Vendittelli

Ho accennato a questo episodio perché Carmelo mi aveva detto che stava pensando di mettere in scena Il monaco di Lewis e che cercava un tea tro adatto. Ormai conosceva il Ridotto dell’Eliseo per avervi recitato il Gregorio, le Muse per

Salomè, i Satiri per il Faust, l’Arlecchino per la Manon, il Cen-

trale per Pinocchio. Scartati questi tea tri per ragioni diverse, gli proposi allora il Teatro de’ Servi che conoscevo molto bene per avervi montato almeno una ventina di lavori. Un tea tro meglio attrezzato degli altri. Ma dopo vari incontri con i responsabili del tea tro dovemmo rinunciarvi perché troppo caro. Ci orientammo di nuovo verso il Teatro delle Muse.

Il Rosa e il Nero è una versione tea trale de Il Monaco di

Matthew Gregory Lewis, rivisitazione del testo Le moine, adat- tamento già affrontato da Antonin Artaud (Le moine raconté

par Antonin Artaud).

Fig. 24

Il Rosa e il Nero

75 Si tratta di una riscrittura di Bene del romanzo gotico in- glese pubblicato nel 1796. Negli anni Trenta del Novecento il romanzo fu riscoperto dal movimento surrealista che ne condivise la carica trasgressiva e libertina, con artisti come Antonin Artaud e André Breton. Il testo è ambientato in un convento dove regnano stupro, incesto, omicidio, magia nera. L’originale carica del testo di Lewis, al solito sbriciolato e fatto a pezzi da Carmelo Bene, viene restituita attraverso poche chiavi significative affidate alla fusione degli elementi semiologici del tea tro. Ma più che sulla gestualità, sui co- stumi, sulla musica, sui rumori, sulla parola come suono, questo spettacolo fu giocato tutto sulle luci. O meglio, su un particolare strutturale della scena, cioè sulle due porte laterali in ribalta che, girando su se stesse, aprivano o chiude- vano l’accesso alla luce. L’illuminazione della scena arrivava infatti dai due spiragli che filtravano dalle due porte l’una di fronte all’altra e che permettevano di dosare l’intensità delle luce di taglio. La luce assumeva così il valore di autentico personaggio.

Io avevo preparato per Carmelo, perché non ci fossero dubbi o malintesi, un plastico secondo le misure del tea tro, in modo tale che lui capisse bene quali fossero le reali pos- sibilità di movimento per gli attori e per imbastire la sua re- gia. Si trattava di creare un’atmosfera di un lugubre conven- to madrileno settecentesco. Un barocchismo che trionfava nel nero dipinto con arabeschi in oro e argento. Sul fondo della scena, una schola cantorum con scranni in basso e un affresco alla Bosch in alto. Nei due lati di due metri di lar- ghezza e tre metri e cinquanta di altezza, erano state inserite due porte di un metro e quaranta di larghezza e due metri e venti di altezza. Queste due porte girevoli dello spessore di quaranta centimetri avevano il compito di chiudere er- meticamente l’accesso della luce che penetrava dai due lati degli stipiti rivelando a sprazzi il convento ispano-bizantino. Fianchi e porte erano trattate pittoricamente come tutta la scena. Quegli ori e argenti dipinti su fondo nero ogni volta che prendevano luce si accendevano creando un ambiente greco-ortodosso. Solo la porta di destra conteneva, a mo’ di affresco, una gigantografia della Mancinelli, che faceva la Madonna-Matilda. Il profumo d’incenso che inizialmente invadeva l’ambiente per segnalare la presenza mistica del convento, lentamente si tramutava in un odore acre di zol-

Carmelo Bene fra teatro e spettacolo Salvatore Vendittelli

fo per rivelare l’aspetto distruttivo del demonio (in tutti i nostri lavori l’olfatto assumeva un ruolo importante come significante del contenuto). Al centro, in primo piano, c’era un ingombrante catafalco-confessionale-doppio trono nero ben amalgamato con l’atmosfera del bordello conventuale, che Carmelo faceva diventare, di volta in volta, water, crip- ta, negozio, letto, chiostro, scultura totemica, personaggio complice e antagonista. Tutta la regia, l’illuminotecnica e i movimenti scenici erano impostati sui movimenti delle due porte che si spiavano. A questo proposito, nella sua auto- biografia, Carmelo dice: «L’illuminazione non contemplava nessun riflettore in sala. La luce filtrava tra gli spiragli di due portali prospettici, ai due lati del boccascena, rotanti su se stessi, come se ogni sequenza fosse spiata da qualcu- no. Lame di luci come sguardi umani»1. Altrove Carmelo

aggiunge una riflessione misteriosa: «C’è un discorso che tengo per me, profittando del tempo che mi manca»2. Chis-

sà a cosa si riferiva.

1. Ivi, p. 166.