Carmelo Bene fra teatro e spettacolo Salvatore Vendittelli
131 Dopo l’incontro col Maestro Siciliani e l’esecuzione del Man-
fred a Santa Cecilia, iniziarono i trionfi e i fumi d’incenso. Co-
minciarono le tournée nei grandi tea tri di Fiesole, Firenze, Bologna, Torino, Venezia, Napoli, Cagliari, alla Scala di Mi- lano. Si confusero e si sovrapposero nell’adulazione generale le due voci critiche dello spettacolo, prosa e musica, in una sorta di competizione a colpi di applauso. Carmelo affermò: «Con il Manfred ho spazzato via anche l’ultimo equivoco che mi annetteva al tea tro di prosa e al suo pubblico sordo. Ma si è trattato di strappare anche il tea tro musicale alla volgarità del visivo e alla sconcezza della chiacchiera»1. Egli ha sempre
subito una fortissima influenza dalla musica classica e lirica. Dagli anni ’80 a oggi, tutte le mie produzioni sono con- certistiche: Mi presero gli occhi, musica di G.G. Luporini, da Hölderlin e Leopardi, sotto la dicitura Poesia della voce – Voce
della poesia. Gli stessi reiterati (più che trentennali) Canti Orfici di Dino Campana (memorabile l’esecuzione al Palazzo
dello sport di Milano, con la partecipazione di Flavio Cucchi, la più grande chitarra classica vivente). L’Adelchi presentato nell’84 dalla Scala e dal Comune di Milano al Lirico […].
1. Ibid.
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Non posso che considerare “concertistica” anche spettaco- li “eccessivi” come il Pinocchio dell’81, Macbeth e Lorenzaccio […] Hommelette for Hamlet […] presentato dalla Scala al Tea- tro Nuovo di Milano […]. A seguire La cena delle beffe per la musica di Lorenzo Ferrero, l’Achilleide. Momento numero 1 del progetto-ricerca Achilleide […] seguita un anno dopo da un’Achilleide numero 2, esecuzione romana al Teatro Olim- pico e moscovita al Teatro Majakovskij2.
Alla fine del dicembre del 1990 Carmelo è a Mosca con Achil-
leide e con la lettura dei poeti russi. Qui forse rivisita il vecchio Majakovskij fatto al Laboratorio nel 1962 riproponendo le tre
voci in conflitto tra loro: il pianoforte, la parola e le bottiglie, sostituendo le bottiglie con l’acqua, il pianoforte con la musi- ca elettronica. I momenti più drammatici e più acclamati dal pubblico, nel corso di tutta la sua attività tea trale, Carmelo li ricorda bene e giustamente qua e là li ripropone. Così a Mosca ripesca il manichino immerso in un naufragio di tulle del Faust fatto ai Satiri. Urla, piange, si strazia tra i veli della sua nuova bambola meccanica (in sostituzione del vecchio manichino). La critica è entusiasta: «È il tea tro di un attore (originale) straordinario e magico. Diabolica autoparodia, al- lucinazione, incubo […]. Ci ha stregato». Ancora: «Carmelo Bene ci ha dato le stesse emozioni [di Nijinsky]»3. Emozione,
appunto, spettacolo. Durante il dibattito, alla fine del lavoro, un giovane interviene e dice: «Ho viaggiato a lungo per es- sere qui. Non è il tea tro che conosco, non è quello che mi aspettavo, ma è grande tea tro»4. Di prosa? Lirico? Un ibrido
fra i due generi? Sarebbe stato interessante chiedergli cosa intendesse per tea tro. Una cosa è certa: quello spettatore e tutta la platea subiscono il fascino del cromatismo timbrico e sonoro della voce di Carmelo insieme – fatto non seconda- rio – all’implacabile amplificazione della musica elettronica che li ha ubriacati d’emozione. Lo stesso Carmelo azzarda una sua teoria: l’amplificazione a tea tro e nella poesia come fine del tea tro e della poesia; dunque, l’amplificazione come
fine, cioè stordire, ubriacare, annullare la mente in deliri. Il
segreto di quella sua bellissima voce è stato il suono, l’irripe- tibile delizia acustica. Non a caso i suoi estimatori più acca-
2. Ivi, pp. 356-357. 3. Ivi, p. 379 4. Ibid.
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133 niti sono i melomani. Dice Carmelo: «Quello che intendo difendere non è me stesso, ma l’emozione, tutto quello che ti squassa»5.
Per capire meglio la differenza che c’è tra il primo Ma-
jakovskij del Laboratorio e quello di Mosca, e dunque del
tea tro prima e dopo il ’71, basta confrontarli. Il primo mira a scandire toni e ritmi in funzione d’un conflitto, evidenzian- done la dialettica – ogni voce sta a sé, libera, indipendente e ostile all’altra. Il secondo, lineare, finalizzato solo a suggerire la bravura e le enormi possibilità armoniche e canore del declamante, come faceva l’antico attore shite del tea tro No¯ giapponese che, come sappiamo, era solo un esecutore e non un interprete: «Guardate come sono bravo» ed eseguiva. L’arte del tea tro No¯ consisteva nel suggerire e questa distinzio- ne è importante perché da qui prende le mosse anche tutto il tea tro epico di Bertolt Brecht, il quale voleva solo che le contraddizioni proposte sul palcoscenico venissero suggerite e comprese e che lo spettatore avesse più elementi per arrivare a una soluzione possibile. Brecht non critica gli avvenimenti ma li espone, dicendo: ecco, questi sono i fatti, decidete voi, non prendendo così posizione. Carmelo, come l’attore Shite, espone la sua bravura, le sue doti, cura la forma. Non a caso la critica moscovita parla di diabolica auto-parodia. Avevano capi- to che Carmelo si recitava addosso, parlava di sé. A proposito di questo, Carmelo ricorda: «C’è un segreto che ho applicato qui come nell’Adelchi e in ogni produzione concertistica. Il
lirico crocifisso sull’epos»6. Doveva invece dire il contrario, cioè
«è la parola che ho crocefisso nel lirico». Quella parola che il giovane moscovita non ha più trovato, abituato com’era ad ascoltare argomenti, temi, conflitti, trovando invece tre voci amplificate in una sola allucinazione, che era appunto diventata un incubo, quello di Carmelo. Un tea tro bello, af- fascinante, che fa fremere, bollire il cuore, pieno di tutto, ma vuoto di cervello. Niente ratio, tutto cuore, tutta emozione. Intendiamoci, io non ho nulla contro l’emozione, contro lo spettacolo o la musica. Tutto è utile, necessario. Ma, ripeto, il tea tro di prosa non è solo emozione. Carmelo nega ormai il testo e con esso la parola che è sempre stata il DNA del tea tro di prosa e afferma: «[Il tea tro] non ha “messaggi” da
5. Ivi, p. 416 6. Ivi, pp. 415-416.
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distribuire. Il tea tro (se è tale) comunica un bel niente. È depensamento antidialettico e privo di coscienza collettiva»7.
L’altra differenza tra i due Majakovskij è la diversa im- portanza sociale nonché la loro diffusione. Nel primo Maja-
kovskij i fortunati erano solo quaranta ogni sera, e assistevano
a una operazione che stimolava a riflettere, a soffrire e nel- la sofferenza a scoprire perché quelle parole e voci fossero così nemiche. Nel secondo, un’orda di scalmanati riuniti a migliaia nel Castello Sforzesco di Milano assistevano a un concerto rock. L’isteria del piacere è incontenibile, applausi interminabili e richieste di bis continui. Si vorrebbe che quel- la grande emozione non finisse più, come avviene alla fine di ogni opera lirica o in ogni concerto classico. La parola invece non va ripetuta e se per caso accade si trasforma in un’offe- sa: «Per chi mi prendi, ho capito! Non sono sordo!». Le tre voci: l’acqua, l’orchestra e la voce di Carmelo erano riunite in un’unica esibizione di bravura, in un unico espediente tecnologico volto a situare le voci al di là del soggetto. Da una parte un raro, straordinario prodotto tea trale fruito da qualche centinaio di persone, dall’altra gli stadi pieni come nelle partite di calcio, e ad ampliarne l’eco radio, televisione, dischi e CD. Qui non è questione di evoluzione artistica o di fortuna, ma di scelte di campo. Con il tea tro Carmelo è morto di fame, con la musica ha fatto i miliardi. E ha scelto: «Dopo l’incontro con il mio grande maestro Siciliani non potevo continuare a non guadagnare una lira»8.
Quando fu nominato presidente della Biennale di Vene- zia, l’architetto Paolo Portoghesi (che da poco mi aveva pre- sentato il progetto vincente per la nuova sede dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, dove io allora ero il Direttore) si precipitò subito a nominare Carmelo Bene direttore artistico della sezione tea tro. La decisione non si rivelò felice. Tutto finì in una drammatica storia turbolenta durata anni a colpi di carta bollata. La polemica infuriò. Iniziò una guerra aperta con l’Ente sul problema dei fondi. Bene ottenne due miliar- di e mezzo complessivi, così ripartiti: un miliardo e mezzo per la rilettura scenica del prediletto Tamerlano di Marlowe (rievocazione di vecchie letture fatte col sottoscritto negli anni Sessanta) e per la produzione di un video. L’altro mi-
7. Ivi, p. 315. 8. Ivi, p. 204.
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135 liardo destinato a quattro o cinque performance assemblate in uno spettacolo finale itinerante da New York a Pechino ispirato al Bafometto di Klossowski. L’idea era di edificare nel corpo della Biennale un tempio neoclassico in cemento e vetro, un museo stregato, scenografato dallo scultore Gino Marotta. Carmelo venne denunciato dal Pubblico Ministero Foiadelli per appropriazione indebita dei quadri originali di Klossowski. Venne condannato alla restituzione delle tele alla Biennale con l’aggiunta di una penale di trecento milioni di lire quale risarcimento danni per la mancata esibizione della mostra klossowskiana.
Poi Carmelo si ammalò (vari infarti e by-pass). Tornò a casa, cadde in depressione e si lasciò andare a ogni eccesso fisico, alcolico e olfattivo. Dipinge tele che non fa vedere a nessuno. Dirà poi: «Ho smesso, perché ho capito di non poter diventare più grande di Bacon»9. Viene ricoverato al
Mater Dei per allucinazioni e stato confusionale. Per quattro anni sparisce.
Rimessosi, torna al tea tro. Nel ’94 è a Verona con Hamlet
Suite. Le critiche: «Il fantasma tragico e derisorio, il fantoccio
barcollante e sublime che Hamlet Suite restituisce al nostro sconcerto e alla nostra emozione»10. Poi altro infarto e rico-
vero alla Madonnina, clinica per cardiopatici.
Nel 1983 andai al tea tro Quirino a vedere un suo Macbeth e approfittai per chiedere a Carmelo, attraverso il Direttore del tea tro, dopo dodici anni d’indifferente silenzio, il prestito dell’allora introvabile pellicola Don Giovanni per mostrarla ai miei e suoi ex allievi dell’Accademia di Belle Arti de L’Aquila. Nel retro del biglietto inviatogli ricevetti la risposta: «Vaffan- culo». Non l’ho più visto né voluto sentire.
La lite avvenuta alcuni anni dopo tra Carmelo e Eduardo De Filippo è rivelatrice della sua natura di bambino capriccio- so e dispettoso: «Eh, no. Non faccia, Eduardo, il paternalista con un attore più grande di lui. Io sono più grande. Mi è stato maestro, maestro di vita, ora non più. Non gli voglio più bene. Ecco: dopo aver vissuto tutta una vita d’amore per una persona, scopro che la persona che io credevo la più grande adesso è la più mediocre»11. In realtà fu una lite d’interessi.
9. Ivi, p. 375.
10. Recensione di Giovanni Raboni citata ivi, p. 376.