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Da Berenson a Denman Ross: la lezione dei bostoniani per una “pedagogia del vedere”

2 «Americani europeizzati»: Fry tra i collezionisti d’oltreoceano

5. Da Berenson a Denman Ross: la lezione dei bostoniani per una “pedagogia del vedere”

Ancora nel 1906, mentre Fry era occupato a lavar via lo sporco dai quadri del Metropolitan, forse con eccessivo olio di gomito, Denman Ross donava al Museum of Fine Arts di Boston più di milleottocento stampe giapponesi della sua collezione personale, considerata, già ai tempi, una delle più importanti raccolte di arte orientale mai messa insieme. A quei tempi Denman Ross (1853-1935) che, come Berenson, era stato allievo di Charles Eliot Norton ad Harvard, teneva i suoi corsi di

theory of pure design, come li aveva battezzati, presso il dipartimento di architettura

della medesima università e sotto questo nome diede alle stampe nel 1907 l’avveniristico A Theory of Pure Design. Avveniristico perché, bandendo qualsiasi tipo di sconfinamento dei fenomeni artistici nelle multiformi stratificazioni dei contesti socio-culturali di provenienza, avanzava una teoria che analizzasse l’oggetto artistico innanzitutto nella sua “oggettualità” fisica, estraniando da esso associazioni letterarie, storiche, e men che mai possibili implicazioni morali. Su questa linea, al contrario, era stati impostati i corsi di storia e di arte che Norton aveva tenuto ad Harvard sin dal 1874, contribuendo a plasmare, sulla scia della dottrina di Ruskin, le menti della nuova intelligentia bostoniana, ma irradiando, proprio in virtù di un insegnamento di chiara impostazione ruskiniana, un certo

373

Sulla «battaglia delle copie» combattuta dal museologo Matthew Prichard (1865-1936) al Museum of Fine Arts di Boston si legga ancora A. TROTTA, Rinascimento americano.

Bernard Berenson e la collezione Gardner 1894-1924, cit., in particolare pp. 192-204.

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134 spirito conservatore un po’ in tutta la cultura statunitense di fine secolo: una cultura già decadente per la nascente nazione americana.

Tuttavia, «for a student like Ross, Norton’s argument gave legitimacy to the study of art; the arts provided not simply a pleasurable experience but a means toward human understanding. They therefore had a necessary role in a liberal education»375. Ma quando fu lui a salire in cattedra per la prima volta, nel 1899, Ross fece dell’educazione al vedere la finalità prioritaria dei suoi corsi: «Rather than educating Americans about art, he wanted through art to cultivate their powers of creativity, discrimination, and judgment»376.

Egli stesso pittore e collezionista, Ross era una di quelle personalità che non poteva di certo lasciare Fry indifferente. Ebbero contatti già nell’inverno del 1905, quando Ross consultò Fry, appena approdato dall’altra parte dell’Atlantico, sulla correttezza dell’attribuzione a Velázquez, da lui accreditata, de Il ritratto di Don Luis de Navas, appena acquistato per il Boston Musem of Fine Arts377. Nello stesso periodo i due si erano incontrati a Boston, dopo la visita di Fry alla collezione Gardner:

«Then Denman Ross took me off to Cambridge and I had a long talk with him about his great colour theory, which certainly produces remarkable results, though I don’t think he paints at all beautifully or cares about that. But his colour harmonies made on a musical scale are never wrong, and sometimes he gets in quite astounding notes that one would never have thought attainable»378.

375

M. FRANK, Denman Ross and American Design Theory, University Press of New England, Hanover and London 2011, p. 30.

Su Denman Ross e quello che dagli anni Trenta fu conosciuto come il “Fogg Method”, metodo che univa alla pratica della connoisseurship una «formalist strategy», si legga anche S. GORDON KANTOR, The Beginning of Art History at Harvard and the “Fogg

Method”, in The Early Years of Art History in the United States, edited by Craig Hugh

Smith and Peter M. Lukehart, Princeton University, Princeton 1993, pp. 161-174. 376

Ivi, p. 54. 377

Sull’autenticità del ritratto, che probabilmente raffigurava in realtà Filippo IV di Spagna, furono da subito avanzati dubbi da Aureliano de Beruete, pittore spagnolo e profondo conoscitore della pittura di Velázquez sul quale aveva anche pubblicato un volume a Parigi nel 1898. L’opera è infatti ritenuta, ancora oggi, una copia di bottega del maestro spagnolo, cfr. An Artistic Misunderstanding, «American Art News», 25 February 1905.

L’episodio è ricordato anche in D. SUTTON, Introduction, in Letters of Roger Fry, cit., Vol. I, p. 23 e in M. FRANK, Denman Ross and American Design Theory, cit., p. 13 e 16. 378

Lettera di Roger Fry alla moglie Helen, 31 gennaio 1905, in Letters of Roger Fry, cit., Vol. I, p. 235.

135 Teorico della forma, pittore di colori dalle armonie musicali, Ross sembra anticipare la strada che Fry farà sua solo a partire dai primi anni Dieci. Eppure già allora i punti di incontro Ross-Fry andavano ben oltre quello che poteva essere solo un sentimento di immediata simpatia e di stima reciproca. Se Berenson era stato, tra alti e bassi, il fratello maggiore a cui ispirarsi nella litigiosa famiglia della

connoissuership, Ross sarà, inconsapevolmente, colui che più di tutti farà del Fry

conoscitore di fine Ottocento il teorico modernista del nuovo secolo. Molto dell’insegnamento di Ross si riconosce anche nel lavoro svolto da Fry in qualità di curatore museale e una sorprendente comunanza d’intenti è riscontrabile negli obiettivi che entrambi si erano prefissati di perseguire nell’esclusivo interesse del pubblico dei musei per i quali lavoravano: il Metropolitan, Fry, il Museum of Fine Arts, Ross. Quest’ultimo, che era anche trustee del museo di Boston dal 1895, quando vi espose nel 1913 gli ultimi acquisti della sua collezione, che comprendevano oltre a dipinti e disegni anche tessuti, porcellane e ceramiche, non mancò di puntualizzare la sua idea dell’esposizione e il fine ultimo per il quale era stata organizzata:

«The exhibition has no unity of character. It is an exhibition of many kinds, from many places and different periods of time. […] We want to know what life has been when it has been stirred and moved by the sense of beauty and the appreciation of what is best in the relativity of things…The value of art does not lie in its own history but in the higher life which it expresses and reveals to us».

L’arte, allora, non come asettica successione cronologica, non come vasariana alternanza di decadenza e rinascita, ma come «expression of life»379.

Con lo stesso spirito, come si è visto, Fry aveva riallestito la Galleria XXIV sette anni prima: i suoi quadri, riportati a nuova “vita estetica” grazie all’allestimento ideato da Fry, erano stati concepiti quali espressione della forza vitale dell’arte in tutte le sue forme, dalla pittura dei maestri del Quattrocento a quella di Monet, ma sempre capace di toccare, nelle sue più alte manifestazioni immaginative, le corde dell’animo umano come solo una bella melodia sa fare.

Ovviamente nulla di romantico in questo. Se la “regina delle facoltà” romantiche, l’immaginazione, fu per Ross «a central feature of his design theory»380

, per Fry la

379

Le parole di Ross sono riportate in M. FRANK, Denman Ross and American Design

136 via di una moderna fruizione dell’arte si inizierà a percorrere proprio da dove si incontrano-scontrano la realtà e l’immaginazione, l’actual life e l’imaginative life. Da questa combattuta dicotomia Fry prende le mosse nel suo primo tentativo di scrittura teoretica di una critica metodologica funzionale e, coi suoi limiti, applicabile. Nel 1909, a dieci anni di distanza dal Giovanni Bellini, esce sul «New Quarterly», An Essay in Aesthetics: il salto dal conoscitore al teorico di estetica è compiuto, ma il saggio, che segna un momento fondativo del pensiero formalista di Fry, apparentemente senza i vacillamenti che lo contraddistinsero in seguito, peserà come una spada di Damocle sulla sua testa per il resto della sua carriera critica. Sembra lontanissima la dichiarazione di legittimità con cui Mary Berenson salutava nel 1894 il salvifico imporsi del «New Art Criticism» nelle pratiche, fedelmente morelliane, della connoisseurship; finalmente, dopo tanto oscurantismo, la nuova generazione di critici sarebbe stata in grado di offrire al pubblico di musei e gallerie, cataloghi compilati sulla base di criteri certi e sicuri e, a dispetto del tempo perduto ad ammirare quadri di nessun valore, i nuovi iniziati all’apprezzamento estetico, potevano considerarsi ben contenti di avere adesso tra le mani una guida infallibile con cui allenare i propri occhi.

«The point is that the gallery – scriveva Mary riferendosi alla National Gallery di Londra – which ought to educate our eyes, by misnaming the pictures, encourages us in our bad national habit of jumping at the obvious literary meaning of a work of art instead of waiting until we have mastered the actual forms in which the artist has incarnated his ideas, and which alone can reveal them»; e in difesa della scienza dell’attribuzione applicata alla studio dell’arte, proseguiva:

«To those who may at first feel that to reduce the study of art to a science is to squeeze all the enjoyment out of it, I must reply that such studies, on the part of the critics at least, are in fact absolutely necessary as a basis for real enjoyment, and that they no more destroy the pleasure art gives than a knowledge of philology destroys the pleasure of literature. In each case they only increase the pleasure to the student, by deepening his interest in the subject»381.

380

Ivi, p. 32. 381

M. WHITALL COSTELLOE (M. BERENSON), The New and Old Art Criticism, «The Nineteenth Century», Vol. XXXV, N. 207, May 1894, p. 832 e 835.

137 Era da questi presupposti che la penna di Berenson aveva partorito I pittori italiani

del Rinascimento, consacrando nella ben nota distinzione delle categorie di Decorazione ed Illustazione una formula universale di riconoscimento della

“bontà”, per dirla con Fry, di un’opera d’arte: nella prima rientravano le qualità artistiche intrinseche dell’opera, «che si rivolgono direttamente ai sensi, e tali il Colore e il Tono – precisava Berenson ne I pittori dell’Italia centrale – o che direttamente suscitano sensazioni immaginative, tali la Forma e il Movimento»382; nella rete della seconda cadevano, invece, tutti quegli elementi letterari, aneddotici, puramente rappresentativi, mutevoli di epoca in epoca, e che nulla sanno dirci dell’anima dell’artista che li ha prodotti.

Così nel 1907, mentre a Boston Ross era pronto a pubblicare un manuale di scienza

del vedere più che di scienza dell’attribuzione applicata alla storia dell’arte, un libro

“senza nomi” così come saranno I concetti fondamentali di Wölfflin, nello stesso anno, con la pubblicazione a Londra del suo ultimo gospel sul Rinascimento, quello dedicato all’Italia settentrionale, Berenson continuava imperterrito a fare i conti con l’esercizio della connoisseurship, la cui primavera, difatti, sarà per lui ancora a lungo fiorita383, ma della quale, al contrario, Fry, da sempre intimamente insofferente nei suoi riguardi, iniziava a percepire il tramonto.

Nel recensire per il «Burlington Magazine» l’ultima fatica berensoniana, Fry è evidentemente ad un bivio; se da una parte riconosce i meriti di Berenson che ha sempre dimostrato nei suoi lavori «an energy and method for which the student of Italian art must ever remain gratefully indebted»384, non nasconde un certo disappunto nei confronti del suo tentativo di trovare «some kind of formula which may be applied uniformly to the artists of North Italy as he applied the formula of “tactile values” to the Florentines and “space composition” to the Central Italians».

382

B. BERENSON, I pittori italiani del Rinascimento, BUR, Milano 2012, p. 123. 383

Ancora nel 1927, nel pubblicare quella che fu presentata da Raffaello Franchi, una volta tradotta in italiano un ventennio dopo, come «l’opera chiave di tutta la fatica berensoniana», Three Essays in Method – Metodo e attribuzioni nell’edizione italiana – Berenson, nella sua Avvertenza al testo, parlava dell’attività dell’«attributore» come di un tema di vivo interesse, «e persino venuto di moda», cfr. B. BERENSON, Metodo e

attribuzione, Del Turco Editore, Firenze 1947, p. 12.

384

R. FRY, The Painters of North Italy, «The Burligton Magazine for Connoisseurs», Vol. 12, N. 60, March 1908, p. 347. Da qui sono tratte anche le successive citazioni di Fry.

138 Sebbene fosse ancora fiducioso delle finalità attributive del compito del conoscitore, perché «it’s only by names that the mind is able to handle the vast material of early art», Fry credeva che il metodo di Berenson, facendo dei pittori del nord Italia degli illustratori «with a love of the prettily persuasive», avesse stavolta fallito: «Now much as we appreciate the effort thus to reduce art to fundamental principles, we doubt whether Mr. Berenson’s success in doing so is so complete as to justify him in using them deductively in order to assess the value of works submitted to them».

Una formula applicata così tassativamente come la categoria dell’Illustrazione, aveva portato Berenson sulla via della «distortion and exaggeration»; motivo per cui Fry auspicava l’impiego di «a more tentative and inductive method», con cui indirizzare lo spettatore verso «an extention of the possible causes of aesthetic delight»385.

A queste mancanze di Berenson, tentò di sopperire egli stesso che, con An Essay in

Aesthetics, si misurò per la prima volta in maniera programmatica su questioni che

assai problematicamente si aprivano al vaglio di discipline quali la filosofia e la psicologia che, immaginiamo, dovettero incutere al pragmatico Fry un che di intimidatorio. Comunque, se è senz’altro vero che «what Berensonian connoisseurship gave Fry the critic and theorist was a way of applying his empirical scientific bent and his belief in rational analysis without compromising the primacy

385

Ivi, p. 348.

Più in là negli anni Fry maturerà opinioni sempre più critiche nei confronti del metodo di Berenson, mostrando un crescente disappunto nei confronti della pedanteria con cui, secondo lui, Berenson continuava instancabilmente ad applicare «a scientific and objective method of solving the problems of attributions». Nel recensire proprio Three Essays in

Method, Fry scriveva: «Mr. Berenson tells us that his aim is “to tell the younger men what

an old explorer like myself has to do when he starts to find out the author of a work of art”. […] Nor is there anything new in this method. All attributors have made appeal to details of architecture, costume, etc., to substantiate their guesses or demolish those of their rivals. What Mr. Berenson gives us is a far more imposing array of comparisons, based on special details; and he represents the chase for the author as being so elaborate that in this particular case we have to go through fifty pages of argument before we are allowed to do more than say that the pictures in question are Veronese and painted between 1480 and 1490»; per poi aggiungere: «Mr. Berenson frequently finds a difficulty in preventing his powerful personality from intruding into the spectator’s field of vision, and here – Fry si riferisce qui all’ultimo saggio della raccolta, il noto A Possible and an Impossible Antonello

da Messina – he seems scarcely to make an effort against that», R. FRY, The Berensonian Method. Three Essays in Method by Bernard Berenson, «The Burlington Magazine for

139 of his emotional engagement in works of art»386, il definitivo superamento di qualsiasi tipo di implicazione letteraria o romantica nell’apprezzamento di un’opera d’arte, Fry lo ritroverà nell’insegnamento di Denman Ross che gli fornirà nuovi strumenti d’indagine che la connoisseurship ottocentesca non era stata in grado di procurargli:

«He needed to move beyond practical criticism to aesthetic theory in a way that no other connoisseur did. Connoisseurship had no general theory to offer, but it did a great deal to reinforce Fry’s convinction that general principle had to be based on an empirical study of works of art as phenomena, phenomena that aroused feeling»387.

I corsi di teoria del disegno puro che Ross teneva ad Harvard avevano un che di singolare, persino bizzarro, per molti dei suoi contemporanei. Il disegno non era insegnato in termini di decorazione e ornamento, né tantomeno come storia delle arti e del disegno del passato, ma era studiato in quanto attività razionale della mente umana, processo mentale che trasforma in materia tangibile, attraverso l’esecuzione, l’idea originaria dell’artista. Per far questo, Ross dava ai suoi studenti degli esercizi con cui indagare le forme geometriche delle cose come fossero schemi a priori della mente, per poi sperimentarne, praticamente, il reciproco rapporto di interrelazione nell’oggetto artistico finito. Nel suo programma didattico, Ross aveva ben in mente la lezione dei maestri del Rinascimento e l’importanza che per loro aveva avuto il disegno quale strumento di intellettualizzazione della realtà nella trasposizione di essa nella dimensione artistica. Da collezionista, la sua «visual imagination» aveva trovato pieno soddisfacimento nell’arte orientale più che in quella europea; gli impressionisti, che pure lo avevano incuriosito, gli sembrarono successivamente troppo superficiali se confrontati agli Old Masters soprattutto perché gli sembrò che si fossero completamente dimenticati dell’amore per l’ordine del disegno, elemento fondamentale in pittura, che Ross intendeva “chirurgicamente” scomporre per studiarlo scientificamente in tutte le sue componenti di punti e di linee.

Harmony, Balance, Rhythm, questo il sottotitolo de A Theory of Pure Design, e

proprio all’armonia, all’equilibrio e al ritmo deve puntare l’artista durante tutto il

386

C. GREEN, Into the Twentieth Century. Roger Fry’s Project Seen from 2000, in Art

Made Modern. Roger Fry’s Vision of Art, cit., p. 18.

387

140 processo creativo dell’esecuzione. È con l’esecuzione che l’artista impara sì a disegnare, ma prima di tutto a vedere e a pensare: «By the design I mean the form in which the work is achieved, the terms or materials used, the arrangement of the terms or materials, the composition and connection of the parts, the relation of the parts to the whole, the organic unity of the whole»388.

Finalmente, con Ross, Fry poteva riscattare ancora una volta l’“impressione generale”, l’unità della visione, che la morfologia morelliana aveva sacrificato in nome della battaglia contro l’anonimato dei dipinti. Ma, come vedremo, lo studio delle forme di Ross approderà ad un idealismo teoretico che, di fatto, non apparterrà mai a Fry. Di certo, tuttavia, Fry poteva ben condividere l’incipit con cui Ross presentava il proprio volume:

«My purpose in this book – scriveva – is to elucidate, so far as I can, the principles which underlie the practice of drawing and painting as a Fine Art. Art is generally regarded as the expression of feelings and emotions which have no explanation except perhaps in such a word as inspiration, which is expletive rather than explanatory. Art is regarded as the one activity of man which has no scientific basis, and the appreciation of Art is said to be a matter of taste in which no two persons can be expected to agree»389.

Il fine ultimo di Ross era, quindi, la codificazione di una vera e propria “pedagogia del vedere” che, seppur molto vicina all’impostazione metodologica con cui l’amico Berenson si era servito delle sue categorie Decorazione-Illustrazione, fosse in grado di spingersi ancora oltre nella decifrazione di un nuova epistemologia della scienza

dell’arte, o per meglio dire del disegno, che Ross concepiva, vasariamente, come il

progenitore di tutte le arti: architettura, scultura e pittura. In questa direzione, Ross, sperando di arrivare a «democratize appreciation»390, cercò di fornire col suo libro una grammatica della visione con cui interpretare il linguaggio visuale dell’artista: punti, linee, contorni e colori diventano figure grammaticali del discorso che l’artista costruisce nel processo esecutivo dell’opera. La difficoltà del critico-

388

D. ROSS, Address on Design: Its Importance in Life, testo inedito del 1903, Harvard University Archives, citato in M. FRANK, Denman Ross and American Design Theory, cit., p. 83.

389

D. ROSS, A Theory of Pure Design. Harmony, Balance, Rhythm, Houghton, Mifflin and