• Non ci sono risultati.

Com’è noto, Bobbio cerca di definire la specificità della mitezza in mezzo alle varie virtù che guidano l’azione dell’uomo Per giungere al suo scopo co-

Nel documento ISLL Papers Vol. 5 / 2012 (pagine 37-40)

Un weiliano inaspettato.

2. Com’è noto, Bobbio cerca di definire la specificità della mitezza in mezzo alle varie virtù che guidano l’azione dell’uomo Per giungere al suo scopo co-

struisce una mappa di concetti – com’è frequente nel suo stile analitico – tale da far vedere la mitezza attraverso ciò cui essa si oppone o da cui si distingue: per dire cosa è la mitezza, dobbiamo prima dire cosa essa non è. Egli comincia dunque dalle virtù che le sono opposte: l’arroganza, la protervia, la prepoten- za.

L’arroganza, dice Bobbio, è quell’«opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione»; la protervia è «l’arroganza ostentata»; la pre-

potenza è «abuso di potenza non solo ostentata, ma concretamente esercita-

ta»4. Si tratta di un crescendo, fitto di rimandi: l’arroganza è la via per la pro-

tervia, la quale a sua volta si trasforma in prepotenza. In questo ‘crescendo’ vengono in luce alcuni caratteri dell’azione dai quali rifugge il mite. Lascio da parte, per il momento, il fatto che Bobbio consideri questi caratteri come pro- pri dell’agire politico ricavandone l’‘impoliticità’ della mitezza: qui si apre in- fatti una questione sulla quale si è discusso (in particolare, Bobbio è stato cri-

2 Riassume i punti salienti di questo dibattito S. Fiori, Il ritorno della mitezza. Così la poli-

tica cerca un nuovo linguaggio, in «La Repubblica», 27 giugno 2011 (disponibile anche in rete all’indirizzo http://www.gruppolaico.it/2011/07/01/il-ritorno-della-mitezza-cosi-la-politica- cerca-un-nuovo-linguaggio/).

3 Cfr. N. Bobbio - P. Polito, Dialogo su una vita di studi, in «Nuova Antologia», fasc. 2200 (ott.-dic. 1996), pp. 31-63.

4 N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’Ombra, Milano 1994, pp. 24-25.

3

ticato su questo punto da Giuliano Pontara5) e si può ancora utilmente discute-

re. Mi interessa per il momento mettere in luce le due costanti che emergono dalla ‘scala’ bobbiana: la sopraffazione dell’altro e l’ostentazione della propria forza. Due caratteristiche negative che ci permettono di fare un primo passo importante in direzione della mitezza.

Dice Bobbio: la mitezza è una virtù sociale, nel senso aristotelico di una «disposizione buona rivolta agli altri»; e in particolare (qui rifacendosi a Carlo Mazzantini), «consiste “nel lasciare essere l’altro quello che è”»6. Abbiamo qui

una prima importantissima acquisizione. Il mite è consapevole del proprio es-

sere sociale; lo è, non solo in un senso meccanico, come riconoscimento cioè

del proprio “stare in mezzo agli uomini” (anche il prepotente sa di stare in mezzo agli altri), ma in un senso propriamente morale: egli si pone rispetto agli altri come essere socievole, come un essere che “tende la mano all’altro” e lo fa essere “quello che è”.

Ora, “fare in modo che l’altro sia quello che è” vuol dire sostanzialmente evitare, rispetto agli altri, di mettere in gioco quella potenza di cui pure si po- trebbe essere capaci. A quella presunta legge di natura che gli ateniesi oppo- nevano ai Meli, in base alla quale bisogna che «chi è più forte comandi», il mite risponde “ritirandosi”, rinfoderando quella spada che poteva essere il mezzo della sua affermazione. Egli sa, infatti, che solo questa operazione di sottrazio- ne può permettere all’altro di esistere nella sua qualità di fine, senza cioè che egli si debba sottomettere o degradare a mezzo. Essere miti vuol dire allora, nel suo primo fondamentale significato, evitare di esercitare potere sull’altro tutte le volte che se ne abbia occasione, cioè evitare di presentarsi all’altro nel- la veste di uno che esercita una potenza (come professore verso uno studente; come padre verso un figlio; come funzionario amministrativo verso un utente; come medico verso un paziente; come automobilista verso un ciclista o un pe- done, ecc.).

Proprio su questo punto avviene l’incontro di Bobbio con Weil. L’opera- zione di “sottrazione”, infatti – questo ritirarsi dalla potenza che si potrebbe esercitare e che si decide di non esercitare –, ha un nome che meglio di altri la sa esprimere: decreazione. È il nome che le ha dato Simone Weil per indicare il gesto con il quale Dio ha creato il mondo (diminuendo così, e non incremen- tando, la sua potenza) e che l’uomo è chiamato a ripetere per poter rispondere a quel gesto d’amore7. Per quanto la meccanica del mondo ci porti nella dire-

zione opposta – perché, lo sappiamo bene, nel mondo «non c’è altra forza che

5 Cfr. il contributo di G. Pontara, Il mite e il nonviolento. Su un saggio di Bobbio, pubblica- to originariamente in «Linea d’Ombra, n. 93, marzo 1994, pp. 67-70, e ora riprodotto nel volume di Bobbio alle pp. 33-45.

6 Bobbio, Elogio della mitezza, cit., p. 20.

4

la forza»8 – abbiamo dentro di noi la possibilità di agire diversamente, sot- traendoci al dominio della forza. Decrearsi vuol dire evitare di occupare tutto

lo spazio; vuol dire perciò creare le condizioni affinché l’altro possa esistere. Proprio mentre constata che il mondo è forza – arroganza, protervia, prepo- tenza – il mite sa che è possibile mettere in atto un’operazione di “compres- sione dell’io” che, sottraendo forza alla forza, toglie il terreno su cui essa ger- moglia.

Ma chi può realizzare questa operazione? Chi può sottrarre qualcosa al proprio io? Solo il forte può spogliarsi della forza, ci verrebbe da pensare. Co- me può il debole spogliarsi di qualcosa che non possiede?

Bobbio e Simone Weil concordano nel pensarla diversamente, sebbene da due prospettive che non coincidono perfettamente. La mitezza è una virtù “debole”, dice Bobbio, perché appartiene ai deboli, a coloro che «nella gerar- chia sociale [stanno] in basso», a coloro che non detengono alcun potere; biso- gna cercarla in quella «parte della società dove stanno gli umiliati e gli offesi, i poveri, i sudditi che non saranno mai sovrani»9. Il mite, si potrebbe dire, è de-

finito dalla sua condizione sociale, anche se questa non appare sufficiente a garantire la presenza di quella virtù. Da parte sua, Simone Weil utilizza il mito di Antigone per dimostrare come sia in realtà sempre il debole a produrre la rinuncia, quasi a dire che non si è mai abbastanza deboli da non dover rinun- ciare a qualcosa. Qui il debole è tale perché si fa debole, accettando persino di andare incontro alla morte piuttosto di contribuire al dominio della forza. Po- trebbe sembrare un elogio della codardia e dell’abbandono della lotta, suggeri- to a chi invece proprio la lotta dovrebbe ingaggiare per mutare il corso delle cose del mondo. Ma per la Weil è solo questa la via che può portare alla nega- zione del dominio della forza. Antigone sta a dimostrare che se ci si vuole sot- trarre al principio per cui «non c’è altra forza che la forza», lo si può fare sol- tanto appellandosi a una «forza che non è di questa terra», sapendo che «il contatto con essa si paga solo a prezzo di un transito attraverso qualcosa che assomiglia alla morte»10.

Se la mitezza non è sopraffazione, essa per Bobbio non è nemmeno osten-

tazione. La mitezza non ostenta la forza innanzi tutto perché non la mette in

campo (e non si può ostentare ciò che non si pratica), ma non ostenta nemme- no la sottrazione della forza, e dunque non ostenta nemmeno ciò che pratica. Non lo può fare, per una ragione che attiene alla stessa logica delle virtù, che Bobbio e Weil vedono entrambi con molta chiarezza: «l’ostentazione, ovvero il

8 S. Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Leonardo, Milano 1996, p. 199.

9 Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, cit., p. 22.

10 Weil, La prima radice, cit., p. 199. Sul dilemma nel quale si trova l’inerme di fronte alla potenza del carnefice si vedano le belle pagine di F. Cassano, Partita doppia. Appunti per una fe- licità terrestre, Il Mulino, Bologna 2011, cap. 3 (“Essere vinti”), p. 49 ss.

5

mostrare vistosamente, sfacciatamente, le proprie pretese virtù, è di per se stesso un vizio. La virtù ostentata si converte nel suo contrario»11, dice Bobbio;

e Simone Weil mette in luce come il prestigio che deriva dall’esercizio della virtù inquini senza rimedio quella stessa virtù, in quanto il prestigio è in realtà strettamente legato alla (anzi è costitutivo della) forza12. Tanto è vero che

quando si è acquisito il prestigio come strumento di dominio, si può fare a meno della forza. La ‘nudità’ della mitezza, il suo non accompagnarsi col pre- stigio e con la ‘fama’, è garanzia della sua autenticità e, vorrei dire, della sua autentica ‘forza’.

3. Possiamo fare ora un passo in avanti. Nella mappa bobbiana, la mitezza

Nel documento ISLL Papers Vol. 5 / 2012 (pagine 37-40)