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Quest’ultima considerazione ci ha condotti indubbiamente lontano dalle intenzioni del filosofo torinese ma ci porta vicino al punto che ad altri è parso

Nel documento ISLL Papers Vol. 5 / 2012 (pagine 46-49)

Un weiliano inaspettato.

6. Quest’ultima considerazione ci ha condotti indubbiamente lontano dalle intenzioni del filosofo torinese ma ci porta vicino al punto che ad altri è parso

il più discutibile del saggio sulla mitezza; il fatto cioè di considerare quest’ul- tima come una virtù del tutto ‘impolitica’. Quale significato, a questo punto, possiamo attribuire a questa convinzione bobbiana? Davvero la mitezza è una virtù ‘privata’ che non ha a che fare con la dimensione pubblica o politica?

È appena il caso di ricordare che il terreno sul quale questa convinzione riposa è, né più né meno, che l’intero impianto teorico costruito da Bobbio lungo i decenni del suo lavoro intellettuale. Non è difficile constatare, ad esempio, che le considerazioni sulla mitezza rappresentano un punto di vera e propria contraddizione rispetto all’antropologia hobbesiana cui il filosofo to- rinese aveva aderito fin dall’immediato dopoguerra e che rappresenta il punto di riferimento dell’intero suo pensiero giuridico e politico, dalla teoria della norma e dell’ordinamento alla teoria della politica, della democrazia e della pace. Considerate queste premesse, è piuttosto ovvio che Bobbio considerasse la mitezza come una virtù lontana dalla politica, anzi addirittura ad essa con- trapposta32. La definizione della politica alla quale egli ha sempre fatto riferi-

mento è infatti quella realistica di marca weberiana che fa perno sull’uso legit- timo della forza, la quale non può non escludere dal suo campo l’azione del mi- te (peraltro identificato con il nonviolento) 33.

Certo, non è difficile – e anzi, appare quasi doveroso – leggere nel testo in questione il tentativo bobbiano di delineare una morale radicalmente con- trapposta a quella corrente sulla scena pubblica italiana, individuando in esso una «intrinseca politicità» che si esprime nella «consapevole opposizione ai valori dominanti emergenti»34. E tuttavia, rimane indubbio che sul piano delle

definizioni e della comprensione teorica, per Bobbio, la sfera politica sembra esigere altre qualità, altri atteggiamenti.

32 «Nella lotta politica, anche in quella democratica […] gli uomini miti non hanno alcuna parte» (Bobbio, Elogio della mitezza, cit., p. 24). «Identifico il mite con il nonviolento, la mitezza con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia. Virtù non politica, dunque, la mitezza. O addirittura, nel mondo insanguinato dagli odi di grandi (e piccoli) potenti, l’antitesi della poli- tica» (ivi, p. 31).

33 Non si può che concordare con Pier Paolo Portinaro quando scrive che, per quanto Bobbio non sia «un autore che si possa definire machiavellico», e per quanto non sia «dato rin- tracciare nei suoi scritti l’iperrealismo della concezione trasimachea della giustizia, né alcuna concessione alla tesi del volto demoniaco del potere», appare indubbio che «la sua è qualcosa di più che una generica versione metodologica del realismo politico come dottrina che cerca di guardare ai fatti prescindendo dai giudizi di valore. Non è difficile infatti rinvenire in molte sue analisi la condivisione dei presupposti degli autori realisti, a cui così spesso fa riferimento, tanto sul piano antropologico quanto su quello della concezione della storia. Sul pessimismo antropo- logico applicato alla dimensione politica non è il caso d’insistere – esso è documentato in modo eloquente anche dalla sua apologia della virtù impolitica della mitezza» (Introduzione a Bobbio, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 91-92).

34 M. Revelli, La politica della mitezza, in «Micromega», 2010, n. 2, pp. 143-151 (la cita- zione è a p. 144).

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Solo accogliendo una diversa e più ampia definizione della politica, l’identificazione tra mitezza e nonviolenza poteva rientrare nel cerchio del ‘po- litico’ e portare ad affermare che il nonviolento «smentisce, con il suo agire, la definizione della politica come il regno esclusivo della volte e del leone»35. Per

Giono, ad esempio – l’autore che abbiamo richiamato poc’anzi –, il passaggio dall’esercizio della virtù privata alla dimensione pubblica era immediato e di- retto. Se accettiamo di vivere nella misura dell’uomo, «tutto intorno a [noi] ac- quisirà la misura dell’uomo. Lo Stato diventerà quel che deve essere: il nostro servitore, non il nostro padrone» e in questo modo avremo «liberato il mondo senza battaglie». Avremo addirittura «cambiato il senso dell’umanità intera», donandole «più libertà, più gioia, più verità di quanto le abbiano mai potuto dare tutte le rivoluzioni di tutti i tempi»36.

Si sarebbe tentati perciò di concludere che il testo sulla mitezza delimita il luogo nel quale esprimere un rammarico: quello di non aver condotto Bobbio a ridiscutere alcune delle sue convinzioni teoriche più radicate, relative alla natura del diritto e della politica. L’essere socievole – socievole fino al sacrifi- cio – rappresentato nella figura del mite poteva ben costituire un nuovo punto di partenza per guadagnare un’idea della giuridicità e della politicità mag- giormente aderenti alla socievolezza e alla capacità umana di stabilire relazio- ni pacifiche con gli altri suoi simili. Ma sarebbe una conclusione poco adegua- ta, in quanto ci sono aspetti significativi del pensiero bobbiano che possono ben essere considerati come una proiezione – teorica e pratica allo stesso tempo – dell’ideale della mitezza. Penso innanzi tutto alla vera e propria cate- gorizzazione delle condizioni del dialogo che Bobbio ha operato in Politica e

cultura e alla vocazione per il dialogo stesso che egli ha messo in atto in tutto il

suo magistero. Fin dall’Invito al colloquio del 1951 – il saggio che apre la fortu- nata raccolta del 1955 –, le possibilità del dialogo sono legate alla capacità del- le parti di “far esistere l’altro”, di prendere cioè in considerazione le ragioni che l’altro avanza e difende37. “Disarmati di tutto il mondo unitevi!” è il mes-

saggio che Bobbio lancia agli inermi, come unica possibilità di «far crollare i

35 Così Thomas Casadei nel saggio – che è una vera e propria rimeditazione critica dello scritto di Bobbio – Il volto mite della politica. Note su mitezza e pace, in Filosofia e pace. Profili storici e problematiche attuali, a cura di I. Malaguti, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna 2000, p. 146. Un più recente tentativo di recupero, con spunti riferiti alla storia d’Italia e del Ri- sorgimento in particolare, è quello compiuto da P. Ginsborg in Salviamo l’Italia, Einaudi, Torino 2010, p. 46 ss, e soprattutto pp. 75-83.

36 Giono, Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, cit., p. 94.

37 Cfr. ad es. Invito alla colloquio (1951), in Politica e cultura, Einaudi, Torino 1977, p. 31. Sulla connessione tra mitezza e dialogo Bobbio si sofferma, accogliendo una indicazione di Giu- liano Pontara, in De senectute e altri scritti autobiografici, a cura di P. Polito, Einaudi, Torino 1996, p. 10 s. Cfr. a questo proposito, Magnoni, Persona e società, cit., p. 207.

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molti muri di Berlino che ciascuno di noi ha innalzato fra sé e i diversamente pensanti»38.

Si può allora dire che è proprio nella impoliticità che risiede la politicità della mitezza, in maniera ancora più radicale e incisiva di quanto la politica

della cultura esprimeva la politicità peculiare dell’intellettuale militante: nel

suo rifiuto, quindi, di uno spazio pubblico occupato da forze che tentano di annullarsi e che rischiano di mettere a rischio la possibilità stessa della convi- venza. In particolare, la politicità della mitezza si esprime nel suo essere con- traria alla prepotenza, nel suo tentativo di costruire uno spazio per le relazio- ni, nella sua ambizione di superare il principio-paura. Così, nel proporre una misura umana alle situazioni e alle cose, la mitezza si fa politica, se non altro perché pone un argine al dilagare della violenza e della paura, che travolge e stravolge ogni cosa. Essa pretende di spargere un seme che dalla società guar- da alla politica, superando perciò quella distinzione netta che vorrebbe questi due ambiti separati da un fossato39.

Il mite, in fondo, assomiglia al persuaso, nella lettura che di questa figura morale e politica ha dato lo stesso Bobbio introducendo l’ultimo libro di Aldo Capitini: a differenza dell’utopista, il quale «disegna una stupenda struttura di società ideale ma ne rinvia l’attuazione a tempi migliori» il persuaso (o profe- ta) «comincia subito, qui ed ora»40. Così, possiamo dire, se divenire ‘piccoli’ e

‘miti’ è una forma di perfezione, che in quanto tale rimane irraggiungibile, «tentare di diventarlo è “inizio, dunque azione”, anche se può sembrare il con- trario dell’azione»41.

38 Etica della potenza ed etica del dialogo, in Etica e politica, cit., p. 1033.

39 In tal senso parla della politicità della mitezza Gustavo Zagrebelsky: «Possiamo imma- ginare una società mite sotto un governo violento? Oppure, al contrario, una società violenta e un governo mite? A me pare che no, non possiamo. Non possiamo immaginare questa separa- zione. Ogni forma di governo, cioè ogni forma di esercizio della funzione politica, corrisponde a una sostanza sociale. Così, se vogliamo una politica democratica, dobbiamo volere anche una società democratica» (Bobbio: perché la mitezza è ancora una virtù, in «La Stampa», 13 ottobre 2010).

40 N. Bobbio, Introduzione a A. Capitini, Il potere di tutti (1969), ora in Maestri e compa-

gni, Passigli, Firenze 1984, p. 285. Il rapporto tra Bobbio e Capitini può essere ora meglio in- quadrato grazie alla recente pubblicazione del carteggio promossa dal Centro Studi Aldo Capiti- ni: cfr. A. Capitini - N. Bobbio, Lettere 1937-1968, a cura di P. Polito, Carocci, Roma 2012.

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