Capitolo 3: L’universo di Murakami prende forma
3.2 Boku, la firma di Murakam
Ad eccezione di alcuni racconti o romanzi che presentano una voce narrante femminile o un racconto in terza persona (anche se in giapponese la differenza non è sensibile come in italiano),10 Boku è una costante nell’opera di Murakami. Alcune sue caratteristiche, come nome, età o professione possono cambiare a seconda della storia, ma la personalità che lo contraddistingue è rimasta pressoché invariata fino ad oggi.
Dal romanzo, non si riesce a cogliere alcun suo dettaglio fisico — certo, probabilmente ha occhi e capelli neri, ma questo è un altro discorso —: tramite la narrazione veniamo a contatto con le sue paure, forse anche condividendole, leggiamo i suoi pensieri, conosciamo aneddoti sulla sua infanzia e adolescenza, gli amori della sua gioventù, i suoi gusti in fatto di cinema e musica, eppure non ci viene fornita alcuna informazione sulla sua fisicità. Forse viene naturale immaginarlo con le fattezze di un giovane Murakami, visti i tanti punti caratteriali in comune tra autore e personaggio, ma queste sono solo speculazioni fatte a posteriori da chi ha ben presente il volto dello scrittore e ha avuto modo di conoscerne i gusti, le abitudini e il carattere, grazie alle centinaia di interviste e saggi frutto della quasi quarantennale esposizione mediatica dell’autore,
9KARATANI Kōjin, Murakami Haruki no fūkei- “senkyūhyakunanajūnen no pinbōru” (Lo scenario di
Murakami Haruki: “Il flipper del 1973”), in Murakami Haruki sutadīzu (01), pp. 99-137, cfr., p. 106.
10 Come ad esempio il racconto lungo Sonno (Nemuri 眠り, 1989), dove in contrapposizione al
maschile boku, la narratrice-protagonista utilizza il neutrale e più cortese watashi 私 (“io”), o 1Q84 (Ichikyūhachiyon 1Q84, 2009-10), in cui gli eventi vengono narrati in terza persona principalmente dal
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inevitabile nonostante lo sforzo di questi di mantenere una certa riservatezza. Come doveva apparire Boku, allora, a primo impatto, senza un termine di paragone?
Probabilmente, la sua principale caratteristica è il suo essere una persona comune: ha studiato biologia all’università, gli piacciono gli animali, bere birra, fumare, mangiare stuzzichini — Maeda fa notare come Boku sembri star costantemente mangiando qualcosa11 e nello stesso saggio elabora anche un’interessante teoria sul significato allegorico dei pasti del protagonista, che sembra trarre nutrimento solo da snack e mai da veri e propri pranzi o cene —12 leggere e ascoltare musica. In questo primo romanzo si riescono già a intuire i suoi gusti musicali, che non sono altro che quelli di Murakami stesso: Boku sembra prediligere il rock’n’roll, il jazz e la musica classica, gusti che saranno confermati nella narrativa successiva. Tra le caratteristiche in comune tra Murakami e il suo personaggio, figura anche la tendenza alla solitudine: Boku è un ragazzo solitario, anche se non un completo eremita, perché, seppur in numero assai limitato, ha rapporti con altre persone; nonostante la sua natura che lo spinge a rifuggire le interazioni sociali, egli è un abile interlocutore, con la risposta pronta, dotato di ironia, capace di far sorridere e dimostrarsi all’occorrenza in grado di parole dolci e di consolazione con le ragazze, che sa anche come lusingare, con cui intreccia rapporti o con cui ha delle semplici conversazioni; all’apparenza, ha un atteggiamento cinico nei confronti della vita, come gli viene rimarcato dal suo barista di fiducia J, ma ha un’innata curiosità che, per la maggior parte della sua vita fino all’età di ventinove anni (ovvero quella a cui si decide a parlare) lo ha portato ad ascoltare le storie delle persone che “proprio come si attraversa un ponte” gli “sono passate sopra facendo rumore per poi non tornare indietro”.13
Insomma, il primo Boku presenta già la personalità che ritroveremo nei suoi successori. Tuttavia, peculiare del protagonista d’esordio è il fatto che abbia un fratello: solitamente, egli è, come Murakami stesso, figlio unico.
Proseguendo sul filo delle somiglianze con i successivi protagonisti maschili (ma non solo), si inserisce il “senso di perdita”, sōshitsukan 喪失感, di cui Ascolta la canzone del vento è pregno, importante tematica nell’universo di Murakami di cui Boku è il principale veicolo. Tutte le persone della sua vita sembrano essere destinate a
11MAEDA, Boku to Nezumi no kigōron, cfr., pp. 16-7.
12 L’autrice spiega come, attraverso il consumo di snack, che, per definizione, sono un pasto
sostitutivo o qualcosa che si mangia tra pranzo e cena, le abitudini alimentari di Boku siano una sorta di metafora del suo approccio alla vita, dove il pasto vero e proprio, pranzo e cena, rappresenta la vita reale e gli snack un sostituto di essa o il vivere “a metà”. Ibid.
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scomparire: la relazione con la prima ragazza finisce bruscamente; la sua seconda partner sessuale vive con lui per appena una settimana per poi svanire nel nulla senza alcun preavviso; segue la “duplice” morte della sua terza ragazza, in dolce attesa quando decide di suicidarsi; infine, la ragazza senza mignolo non si fa più trovare al successivo ritorno di Boku da Tōkyō e sembra essere “sparita nel nulla, senza lasciare alcuna traccia, nella marea di persone, nel fluire del tempo”.14 Inoltre, nell’incipit, Boku allude a tutto quello che, in un modo o nell’altro ha dovuto abbandonare nel corso della sua vita, cose e persone (ambivalenza che purtroppo si perde in traduzione, resa in giapponese da un unico ambiguo termine, ovvero mono もの). Ha provato a fare una lista delle sue perdite, ma non è riuscito a concluderla. Nel romanzo, così racconta:
In un quaderno tirai una linea e scrissi a sinistra tutto ciò che avevo ottenuto fino a quel momento, a destra quello che avevo perduto. Quello che avevo perso, chi avevo ferito, abbandonato da tempo, sacrificato o tradito... non sono riuscito a finire l’elenco.15
Da queste parole si intuisce il vuoto che si è creato in Boku: l’ammontare di perdite e abbandoni verificatisi nel corso degli anni non è stato bilanciato da qualcosa di equivalente che riempisse la voragine creatasi. Sembra che il protagonista cerchi in qualche modo di tappare questo buco tenendo con sé delle vestigia, dei ricordi di queste persone che hanno fatto parte del suo passato, che sembra far fatica a lasciar andare, o che, forse, sembra non voler del tutto lasciarsi alle spalle: alla fine del romanzo, nel frammento trentanove, che costituisce una sorta di epilogo, Boku infatti parla del suo presente e racconta come, in una sorta di ritualità, ogni volta che fa ritorno al suo paese percorra la stessa strada fino al porto lungo cui ha camminato insieme alla ragazza senza mignolo, l’ultima sera trascorsa in sua compagnia, e come poi si sieda su quegli stessi gradini dove insieme si erano fermati; ancora, ogni estate riascolta l’LP dei Beach Boys di California girls, quello che gli aveva prestato al liceo la ragazza della dedica alla radio, anche lei volatilizzatasi.
D’altro canto, potrebbe essere la gratitudine ciò che spinge il protagonista a tenersi stretto il ricordo di queste persone, come per rammentare a se stesso i passi che ha compiuto insieme ad esse e, di conseguenza, il percorso che lo ha condotto al
14 Id., cit., p. 155. 15 Id., cit., p.12.
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presente e alla persona che è attualmente; del resto, in cosa consistono i riti se non in una performance di ringraziamento?
Ancora, a definire questi momenti, concorre un’atmosfera nostalgica, evocata dalla narrazione di Boku, ma che, in generale, pervade tutta l’opera di Murakami.
Nonostante tutto, sempre nel frammento trentanove, Boku scrive:
Se mi chiedessero se io sia felice, non potrei che rispondere: “Penso di sì”. Alla fine, consistono in questo i sogni.16
In questo modo si ripresenta l’ambivalenza di cui si parlava nel precedente capitolo: in questo caso, essa si manifesta come una divisione tra un presente, tutto sommato felice, in cui il protagonista è sposato e vive a Tōkyō e un passato che si riaffaccia ogni estate, ogni volta che Boku fa ritorno alla sua città, dove si lascia andare a nostalgiche memorie, dove rinnova ogni anno il ricordo delle persone del suo passato; come un giapponese renderebbe omaggio ai propri antenati durante la festività dell’obon お盆 — che, curiosamente, cade verso metà agosto, proprio il periodo in cui il protagonista ha incontrato la ragazza senza mignolo —, Boku si crea i propri rituali con cui ricordare queste persone. Significativamente, tuttavia, l’unico ricordo materiale che avesse della sua ex ragazza morta, una fotografia di quando questa aveva quattordici anni, è andato smarrito durante un trasloco: forse un invito dell’universo a lasciarla finalmente andare?
Alcuni sostengono, invece, che le perdite personali stiano in realtà ad indicare un altro tipo di perdita, quella di ideali, come ad esempio Strecher. Secondo lo studioso, l’esperienza delle manifestazioni studentesche dello Zenkyōtō e il fermento politico di quegli anni sono episodi fondamentali nell’interpretazione di questo “senso di perdita” tipico, in modo particolare, delle prime opere dell’autore. Addirittura, la volontà da parte di Boku di aprirsi e avviare una sorta di “auto-terapia” tramite la scrittura e il racconto del suo passato sarebbe metafora del processo verso la guarigione dalla perdita di identità culturale conseguente alla conclusione dei moti studenteschi, di solito fatta simbolicamente coincidere con il rinnovo dei trattati di sicurezza Anpo del 1971. Anche altri studiosi sembrano essere concordi. Ad esempio, Dil afferma:
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Tutte le perdite personali sono semplicemente sintomatiche di un più generale senso di innocenza e ideali perduti che pervade i primi lavori. Più che altro Boku sembra rimpiangere perdite storiche dagli anni Sessata.17
Nel primo capitolo è stata menzionata l’influenza dello Zenkyōtō sulla mentalità del giovane Murakami, e quanto appena spiegato potrebbe mostrarne le vestigia. Tuttavia, è anche vero che lo scrittore non si sia mai identificato con i gruppi di rivoltosi e non abbia avuto ruolo attivo nei tumulti, ma solo passivamente respirato l’aria di quegli anni. È per questo motivo che ritengo che il senso di perdita provato da Boku, che lo rende incline alla nostalgia e a rivangare il passato, sia piuttosto un’analogia con l’umano e inconscio desiderio di ricongiungersi col proprio Sé, da cui la vita umana con le sue illusorie manifestazioni fenomeniche, ancor più fuorvianti a partire dall’era del consumismo che ci travolge con una quantità incredibile di oggetti, stimoli e informazioni, ci ha separato. Così Boku intraprende questo viaggio dentro se stesso tramite la condivisione dei suoi ricordi nel tentativo di trovare il suo Sé perduto, quello stesso Sé in cui troverebbe tutte le risposte alle sue domande.
Nonostante la volontà di raccontarsi, tuttavia, come si è visto in precedenza, la comunicazione è sempre stata un punto dolente per il protagonista: tale deficit, che si traduce nella difficoltà nel relazionarsi, è un’altra importante componente dell’opera. Da bambino, come sappiamo, il protagonista presenta problemi di autismo e i genitori, preoccupati per il mutismo del figlio, lo fanno seguire per un anno da uno psichiatra. “La comunicazione è civiltà”, gli dice questi. Per far capire al piccolo Boku l’importanza di comunicare tramite le parole, il dottore gli spiega:
- La civiltà è comunicazione […]. Se non riesci a esprimere qualcosa, è come se non esistesse. Capito? Non esiste. Mettiamo che tu abbia fame. Dovresti dire semplicemente: “ho fame”; così, io ti darei un biscotto. Mangialo pure. (Io ne presi uno). Ma se tu non dici niente, non c’è nessun biscotto (il dottore con fare dispettoso nascose il piattino di biscotti sotto alla scrivania). Non esiste. Capisci?18
La terapia, tuttavia, non sembra dare subito i suoi frutti: Boku infatti inizia a parlare “come un fiume in piena” solo nell’estate della terza media; tale fenomeno si protrae per tre mesi, al termine dei quali, Boku si ammala ed è costretto a saltare scuola per
17DIL, “Writing as Self-Therapy”, cit., p. 53. 18MURAKAMI, Kaze no uta wo kike, cit., p. 30.
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tre giorni, a causa di una febbre a quaranta gradi; dopo questi tre mesi di chiacchiere ininterrotte, il protagonista diviene un “adolescente ordinario, né silenzioso né chiacchierone”.19
Nonostante Boku riconosca la sensatezza della lezione impartitagli dallo psichiatra, durante le scuole superiori inizia a tenere quel comportamento cool già menzionato, che lo porta a comunicare solo la metà dei propri pensieri e, in ultimo, a divenire davvero incapace di comunicare appieno quello che pensa e che sente.
Oltre a essere veicolo di un senso di perdita, Boku è dunque anche un mezzo per esprimere la difficoltà di comunicare e la fallacità del linguaggio come mezzo d’espressione nel rapporto con l’altro. A maggior ragione, il narratore si trova doppiamente in difficoltà nella comunicazione, essendo già di per sé incapace di essere franco (“più cerco di essere sincero, più le parole si perdono nel buio più profondo”,20 dice): a questo si aggiunge la differenza d’interpretazione della realtà delle controparti nella comunicazione. Nel romanzo, come si è accennato, tutti gli altri personaggi, ma anche la realtà stessa, sembrano esistere in funzione del protagonista. Boku racconta:
Bastava che avessi un po’ di sensibilità e il mondo si adeguava alla mia volontà, i valori cambiavano, come pure lo scorrere del tempo. Così mi sembrava.21
Più avanti, tuttavia, si accorge di come questa in realtà fosse solo una trappola che lo ha portato a perdere e ferire molte persone, perché “tra quello che ci sforziamo di comprendere e quello che realmente comprendiamo si distende un profondo abisso” e “non importa quanto sia buono il metro che abbiamo, la sua profondità non si potrà mai misurare”.22
L’“Altro” esiste e ha a sua volta la propria sensibilità, il proprio modo di filtrare la realtà: da qui le incomprensioni e la difficoltà di comunicare, rappresentate dai densi silenzi che si creano tra i personaggi nel corso della narrazione. Oltre al vuoto interiore, quindi, esiste anche un vuoto, “un abisso” insondabile e incolmabile dalle parole tra se stessi e la realtà che ci circonda.
Un’altra tendenza di Boku sembra quella di dare un’attenzione quasi maniacale alle
19 Id., cit., p. 32. 20 Id., cit., p. 8. 21 Id., cit., p. 12. 22 Ibid.
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“cose”, come fa notare Iwamoto:23 questo suo interesse per gli oggetti materiali sarebbe un effetto della mancanza di identità, o “individualità”, shutaisei 主体性, del protagonista, un sintomo di quel vuoto di cui si è appena parlato. Questa tendenza, ad esempio, viene espressa tramite la strana abitudine cui si è fatto cenno nel capitolo precedente, ovvero l’azione di tramutare qualsiasi cosa in un numero e registrarlo in un quaderno.
Il trasmettere solo il numero di qualcosa, ovviamente, non può che far passare un’informazione sulla quantità che nulla ha a che fare con la qualità, ovvero l’essenza, della cosa stessa. Boku, una volta messo al corrente del suicidio della fidanzata, si rende conto dell’inutilità di questo superficiale metodo di comunicazione e vi pone così fine.
Tramite il protagonista, come si è visto, Murakami ha modo di esprimere un senso di perdita e nostalgia, la difficoltà di comunicare e la distanza esistente tra se stessi e gli altri: in realtà, tutte queste problematiche trovano una soluzione nel viaggio dentro se stessi, viaggio di cui Ascolta la canzone del vento non è che una fase preparatoria. Con la narrativa seguente e di pari passo con lo sviluppo dell’altro mondo — che, per l’appunto, non è altro che metafora dell’inconscio — diverrà chiaro che, tramite la discesa nella profondità del proprio essere, si giunga a un luogo in cui la separazione dei fenomeni reali si rivela finalmente illusoria e tutto è collegato, “uno”, dove non esiste alcuna divisione e tutti i vuoti sono riempiti.
Ma per adesso, Boku, ancora all’inizio di questo viaggio, non può che pensare che “se continuerà ad andare tutto bene” in futuro potrebbe riscoprirsi “salvato”.24