"In Bosnia ed Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, poiché vi sono implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali e sulla Bosnia ed Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennio."29
Con quest'affermazione del 1999 Kofi Annan esprime in un report ufficiale delle Nazioni Unite tutta la complessità situazionale presente in Bosnia sia prima che dopo il conflitto. Il conflitto nei Balcani fu esemplare per quanto riguarda la possibilità di un ritorno alle atrocità, ai massacri indiscriminati su base etnica, ai campi di concentramento, agli stupri e alle violazioni dei diritti umanitari internazionali manifestatisi durante la Seconda guerra mondiale. Per quanto la comunità internazionale abbia cercato di costruire una cultura della pace, di forgiare una società civile basata sul rispetto reciproco e sui diritti umani, questa guerra così recente è come se fosse riuscita ad eclissare tutto ciò che si era cercato di costruire fino ad allora, spingendo la comunità internazionale a ripensare ai metodi e alle strategie di intervento nei contesti di guerra civile. Il conflitto presente nei territori della Bosnia risultò essere molto più opprimente e devastante rispetto a quello generato nelle altre repubbliche. Esso vedeva impegnati su più fronti tre diversi gruppi etnici: i serbi, i croati e i bosgnacchi (bosniaci musulmani). Dopo le elezioni multipartitiche del 1990 i tre partiti nazionali principali, sebbene avessero molte differenze di vedute politiche e prospettive future,
seguirono una tacita alleanza che permise una coalizione strategica. Si riuscì a creare così una temporanea, per quanto illusoria, armonia tra le tre etnie principali soprattutto grazie alla forte ideologia anticomunista e il desiderio condiviso di sconfiggere il governo socialista al potere da anni.
Con la creazione del nuovo governo si decise di optare per una forma di governo condivisa: la Presidenza della Repubblica andò ad un musulmano, la Presidenza del parlamento a un serbo e quella dell'esecutivo a un croato.
La richiesta d'indipendenza della Bosnia venne contestata dalla popolazione serba che in quel periodo rappresentava il 34% della popolazione. Il referendum indetto per il 29 febbraio del 1992 vide un'affluenza alle urne del 63,7% con una netta maggioranza a favore
dell'indipendenza. Sebbene i membri del parlamento serbi boicottarono il referendum, la maggioranza ebbe la meglio e fu dichiarata l'indipendenza il 3 marzo del 1992, ricevendo il riconoscimento internazionale il 6 aprile.
In questo quadro politico si iniziarono a creare delle realtà politiche parallele con pretese diverse di matrice etnica. I rappresentati dei serbi abbandonarono il parlamento di Sarajevo e costituirono l'Assemblea del popolo serbo di Bosnia ed Erzegovina a Banja Luka, un
parlamento alternativo che rappresentava esclusivamente i serbo-bosniaci.
Il 9 gennaio 1992 il Parlamento serbo-bosniaco proclamò la Repubblica del Popolo Serbo in Bosnia Erzegovina ed il 28 febbraio, un giorno prima del referendum per l'indipendenza della Bosnia, venne adottata la Costituzione della Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia ed Erzegovina nella quale venivano menzionati i territori che sarebbero stati amministrati dai serbi ovvero alcune regioni autonome, alcune municipalità ed altre entità di etnia serba. Allo stesso modo, sebbene con sfumature diverse, nei mesi prima del referendum per l'indipendenza, i nazionalisti croati della Bosnia, supportati dai nazionalisti della Croazia, si appoggiarono alle manovre del partito di governo della Croazia (l'UDC) per l'organizzazione del ramo del partito in Bosnia. Il 18 novembre 1991 il ramo del partito in Bosnia-Erzegovina, l'Unione Democratica Croata di Bosnia-Erzegovina, istituì la Comunità croata dell'Erzeg- Bosnia, che almeno formalmente rimaneva all'interno di una Bosnia indipendente.
In un simile contesto, in cui le diverse comunità convivevano e condividevano il potere, vi era dunque una duplice spinta all'autonomia, sia statale, per quanto riguarda l'intera Bosnia, sia comunitaria, per quanto riguarda le diverse etnie.
Sulla base di questa miscela di contrasti ideologici, culturali e rappresentativi la Comunità europea aveva intravisto il germe di una probabile guerra e decise quindi di indire una conferenza a Lisbona, da cui ebbe origine un trattato omonimo, per impedire l'escalation del conflitto. Con l'Accordo di Lisbona venne proposta una condivisione del potere a tutti i livelli amministrativi tra le etnie ed il decentramento del potere dal governo centrale alle comunità etniche locali; ciò prevedeva la divisione in zone etniche territorialmente ben definite sebbene risultasse una soluzione difficile per via della scarsa omogeneità e della multietnicità presente in tutte le zone.
L'Accordo venne sottoscritto il 18 marzo 1992 da tutte e tre le parti, tuttavia dieci giorni dopo la ratifica, il capo della comunità musulmana ritirò la firma poiché contrario a qualsiasi tipo di divisione etnica in Bosnia, causando perciò lo stallo delle istituzioni ed il caos.
Nel frattempo sui territori della Bosnia, come su tutti quelli della ex-Jugoslavia, gravava un pesante embargo sulle armi approvato il 25 settembre 1991 dal Consiglio dei Sicurezza delle Nazioni Unite. Questa risoluzione colpì maggiormente l'Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina poiché la Serbia ereditò la quasi totalità dell'arsenale dell'Armata Popolare Jugoslava e l'esercito croato, oltre ad essere supportato dalla madrepatria, contrabbandava le armi con i gruppi mafiosi attraverso la costa dalmata.
Per dare credito all'affermazione del Segretario generale delle Nazioni Unite, e per
comprenderne il motivo, tenterò di fare riferimento alle forze presenti in gioco nel conflitto bosniaco. Non le citerò tutte poiché diventerebbe un lavoro lungo e risulterebbe fine a sé stesso.
Essendo presenti tre diverse etnie in Bosnia ognuna di queste aveva ideologie ed aspirazioni diverse e dopo la dichiarazione d'indipendenza gli stimoli e la fomentazione nazionalistica di questi contrasti divenne inevitabile. Ognuna delle forze coinvolte veniva appoggiata e
supportata da milizie esterne al conflitto e che avevano degli interessi anche solo di natura contingente.
Dopo l'indipendenza della Bosnia l'Armata Popolare Jugoslava lasciò la Bosnia; tuttavia la maggior parte della catena di comando, armi e personale militare di alto rango rimasero nel paese costituendo l'Esercito Serbo della Bosnia Erzegovina quale forza armata della
Repubblica serbo-bosniaca appena creata. I croati organizzarono una formazione militare difensiva chiamata Consiglio di Difesa Croato stabilendo le proprie postazioni nell'Erzeg- Bosnia. I musulmani si erano organizzati nell'Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, esercito ufficiale della Repubblica della Bosnia-Erzegovina. Non erano solo i musulmani a far parte dell'esercito ufficiale ma vi erano anche serbi e croati sebbene fossero una minoranza. Era presente anche unaformazione paramilitare che raccoglieva i croati che volevano restare alleati ai musulmani e respingevano i propositi secessionisti e pan-croatisti perpetrati dal Consiglio di Difesa Croato.
Quest'ultima non era l'unica formazione paramilitare che operasse nel paese; dalla parte dei serbi possiamo citare la Guardia Volontaria Serba e le Aquile Bianche, tra i musulmani la Guardia Patriottica e i Berretti Verdi. I paramilitari serbi e croati erano perlopiù volontari provenienti dalle rispettive Repubbliche e sostenuti dai partiti politici nazionalisti presenti in questi paesi. Possiamo citare il Partito Croato dei Diritti che si rifaceva agli ustascia di Ante
Pavelic e il Partito Radicale Serbo che si rifaceva ai cetnici.
In una simile polveriera non poteva non essere presente il sostegno di paesi esteri. I serbi erano appoggiati da paesi slavi come la Russia e la Grecia. I croati avevano il supporto di alcuni volontari occidentali appartenenti al fondamentalismo cristiano e neonazisti austro- tedeschi. I bosniaci invece ricevevano il supporto da gruppi musulmani e da paesi come il Libano e l'Iran, in particolare quest'ultimo durante i quattro anni di guerra civile, visto l'embargo presente sulle armi, ha provveduto a fornire all'esercito bosniaco "migliaia di tonnellate di armi e centinaia di addestratori militari e ufficiali dei servizi segreti, nonché aiuto ai diseredati"30
La combinazione dei fattori contestuali diluiti con le aspirazioni nazionalistiche e la creazione di diversi gruppi militari e paramilitari produssero una miscela esplosiva che ebbe degli effetti devastanti sulla società civile bosniaca.
Verso la fine del 1991 con la dichiarazione d'indipendenza e durante il referendum svoltosi il 29 febbraio e 1 marzo 1992 vi furono le prime avvisaglie di quella che sarebbe stata una guerra sconvolgente per quanto riguarda le violazioni dei diritti umani e civili.
La guerra civile bosniaca vedeva la contrapposizione dei serbi che spingevano per
l'unificazione e la creazione di uno stato unitario "jugoslavo", e i bosniaci musulmani che inizialmente strinsero un'alleanza con i croati che si sciolse in breve tempo. Quest'alleanza iniziale era dovuta al comune interesse di opporsi ai serbi ma in poco tempo il gruppo dei croati si spaccò in due dividendosi in indipendentisti della zona dell'Erzeg-Bosnia, come zona croata, e alleati dei musulmani in chiave anti-serba per mantenere l'autonomia della Bosnia.
Il conflitto che iniziò a prendere forma da questo contesto ebbe un escalation spaventosa. Il 25 settembre 1991 il Consiglio di Sicurezza delle NU decise di intervenire con la
Risoluzione 713 facendo appello a tutti gli Stati per imporre immediatamente un "completo e generale embargo su tutti i rifornimenti di armi ed equipaggiamento militare alla Jugoslavia"31
Tale embargo, come abbiamo sopraccennato, avrebbe favorito indirettamente la Serbia che aveva ereditato la quasi totalità dell'arsenale dell'Armata Jugoslava e manteneva un controllo effettivo su quasi tutte le industrie belliche. I croati e i bosgnacchi dovevano operare
attraverso metodi illeciti per potersi difendere. Negli anni della guerra civile in Bosnia i territori della ex-Jugoslavia divennero un emporio costellato da traffici di portata immensa di
30 Elaine Sciolino, What's Iran doing in Bosnia, anyway?, The World, archivio del New York Times, 1995 31 Risoluzione 713 Consiglio di Sicurezza delle NU.
armi ed equipaggiamento provenienti dagli stessi paesi che hanno firmato per l'embargo. Nel 2011, a vent'anni dai massacri nei Balcani, venne portata avanti un'indagine durata tre anni la quale è riuscita a dimostrare come molti altri Paesi, nonché capi di Stato, siano responsabili delle carneficine che hanno devastato la regione. Secondo l'indagine "Bulgaria, Polonia, Ucraina, Romania e Russia esportavano armi destinate all'ex Jugoslavia. Il quartier generale di quest’operazione logistica di dimensioni enormi si trovava a Vienna, mentre le transazioni finanziare erano eseguite da una banca ungherese. I trafficanti di armi utilizzavano compagnie registrate nei paradisi offshore panamensi. Il Regno Unito spedì equipaggiamenti militari alle ex repubbliche jugoslave e concesse loro prestiti per l’acquisto di armi, e lo stesso fece la Germania."32
Le armi acquistate in questo modo sarebbero dovute essere usate a scopo difensivo contro i serbi ma purtroppo favorirono l'escalation del conflitto dando potere anche alle altre parti coinvolte.
Formalmente la comunità internazionale ha agito secondo le procedure delle Nazioni Unite di fronte alle atrocità compiute durante la guerra in Bosnia, ma purtroppo il suo atteggiamento informale risultò essere meno in linea con gli obiettivi prefissati e più vicini ad obiettivi di matrice economica. L'industria della guerra in questo caso ha avuto la meglio.
Dopo questo primo tentativo da parte delle Nazioni Unite di ridimensionare le violenze nella regione il secondo fu l'approvazione della Risoluzione 721 del 21 Novembre 1991. Essa dava il via al Piano Vance. Il nome deriva dall'inviato speciale del Segretario Generale in
Jugoslavia, Cyrus Vance, che doveva preparare l'invio di un primo contingente di truppe delle Nazioni Unite nelle zone interessate ai combattimenti. Due mesi dopo, con la Risoluzione 724 il piano fu approvato dal Consiglio di Sicurezza; esso prevedeva una tregua nelle zone di combattimento tra serbi e croati e poneva il territorio conquistato dall'Armata federale e dalle forze irregolari serbe sotto il controllo ONU.33
Per sostenere militarmente la tregua istituita dal Piano Vance il Segretario generale delle NU Boutros-Ghali, appena eletto, decise di istituire il 21 febbraio 1992 la missione di pace UNPROFOR (United Nations Protection Force). Questa missione di peacekeeping partì con un mandato di dodici mesi ma si protrasse per più di quattro anni finché fu sostituita
dall'IFOR (Implementation Force) il 31 marzo 1996.
Originariamente l'UNPROFOR era stata istituita per la Croazia. A partire dal 30 aprile 1992,
32 Osservatorio Balcani e Caucaso, Profitti di guerra, articolo di Blaz Zgaga, 30.12.2011 33 Archivio online del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
dopo l'invio di 40 osservatori nella regione di Mostar, il Segretario Generale delle NU comprese che la situazione era in piena crisi e bisognava intervenire anche in Bosnia. Ordinò immediatamente un cessate il fuoco mentre il conflitto tra le forze bosniache musulmane e croato-bosniache da una parte, e quelle serbo croate dall'altra, si intensificò.34
La missione in ex-Jugoslavia fu l'operazione più dispendiosa della storia delle Nazioni Unite in termini di costi: vennero stanziati oltre 4 miliardi e mezzo di dollari e vennero impiegati più di 40.000 caschi blu provenienti da 39 paesi.35
3.1 - L'escalation del conflitto
La prima mossa che diede inizio al conflitto fu l'offensiva lanciata verso Sarajevo da Radovan Karadzic, Presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, per paura che i serbo- bosniaci venissero espulsi dal paese. L'assalto fu motivato dalla necessità di difendere i serbi i quali secondo i giornali di Belgrado rischiavano di essere espulsi dal paese. In questo modo Sarajevo venne spartita tra le forze bosniache e quelle serbe.
Nel frattempo erano iniziate le operazioni di pulizia etnica anche nelle città bosniache orientali a maggioranza musulmana. La maggior parte di queste operazioni militari fu condotta da gruppi paramilitari serbi e dall'Armata Popolare, sostenuta economicamente da Belgrado. Queste operazioni furono pianificate e nessuna di esse avvenne spontaneamente. Il fine era quello di creare, con il terrore, zone etnicamente pure da annettere alla Grande Serbia.36
Secondo le stime dell'UNHCR contando solo la campagna della primavera del 1992 oltre 420.000 persone furono costrette a darsi alla fuga, mentre 35.000 persero la vita.
34 Prepared by the Department of Public Information, United Nations, Former Jugoslavia - UNPROFOR, United Nations Peacekeeping Operations, settembre 1996.
35 Fonte: pagina web ufficiale UNPROFOR. 36 Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso
La cartina demografica soprastante che rappresenta la Bosnia prima e dopo il conflitto aiuta a renderci più consapevoli della portata delle operazioni di pulizia etnica e di rivendicazione delle terre da parte delle tre comunità; la vastità delle trasformazioni territoriali è di enorme impatto, dal mosaico etnico presente prima della guerra civile all'uniformità territoriale che derivò dall'accettazione della comunità internazionale delle conquiste ottenute dai serbi e dai croati.
La prima proposta da parte della comunità internazionale per attenuare i contrasti e ristabilire la pace nella regione fu presentata alla Conferenza di Ginevra a gennaio del 1993. Il progetto venne nominato Vance-Owen, dal nome dei mediatori occidentali che lo promossero. Esso prevedeva la creazione di una federazione divisa in dieci province autonome su base etnica: tre musulmane, tre croate e tre serbe, più quella di Sarajevo non caratterizzata etnicamente. "Dal punto di vista degli scontri inter-etnici, l'accordo era estremamente rischioso, poiché ‟ conferiva ai cantoni etichette etniche e dava l'impressione che i confini disegnati non fossero definitivi. Questo non fece altro che riaccendere la competizione, soprattutto tra le forze bosniache e croate."37 Si ruppe così la fragile alleanza tra musulmani e croati, l'unica effettiva
barriera contro l'espansionismo serbo. Entrambe le parti ricorsero alla pulizia etnica,
provocando esodi di massa verso le rispettive "patrie".38
Migliaia di profughi si diressero verso le tre enclave di Srebrenica, Zepa e Gorazde. Srebrenica da sola arrivò a contare più di 60.000 rifugiati.
Con la Risoluzione 819 del 16 aprile 1993 il Consiglio di Sicurezza dichiarò Srebrenica "area protetta". Venne intimato un cessate il fuoco generale sulla città e vennero inviati 150 caschi blu i quali, purtroppo, avevano un potere puramente simbolico.
Dato il rifiuto del piano Vance-Owen da parte dei serbo-bosniaci il Consiglio di Sicurezza fu costretto ad includere alla Risoluzione precedente altre città come "aree protette" e a
richiedere esplicitamente un cessate il fuoco contro di esse per potervi far accedere i caschi blu e gli aiuti umanitari. Poiché non vi erano state indicate delle sanzioni nel caso di non obbedienza il comando dell'UNPROFOR dichiarò di non poter mettere in pratica la
Risoluzione fintanto che non avesse ottenuto i permessi necessari o un mandato che facesse riferimento ad eventuali misure militari.
Agli inizi di giugno il Consiglio di Sicurezza approvò la Risoluzione 836 con la quale per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite viene inclusa l'attività della NATO nelle
operazioni di pace. Con questa Risoluzione si autorizzavano i caschi blu ad usare la forza "nell'adempimento del proprio mandato" e venne acconsentito l'intervento delle forze aeree NATO. Purtroppo anche in questo caso vi fu una carenza normativa poiché non veniva esplicitamente garantita l'incolumità dei profughi nelle safe areas; il mandato autorizzava le forze ONU ad intervenire in risposta ad un fuoco diretto verso di loro e continuava a non esplicitare gli effettivi compiti dell'UNPROFOR nel caso la Serbia avesse violato le direttive ONU.
Tra l'agosto e il settembre del 1993 venne discusso a Ginevra il Piano Owen-Stoltenberg, che avrebbe smembrato la Bosnia in una “confederazione” di tre “mini-repubbliche”, i cui confini riflettevano e legittimavano le conquiste serbe dei due anni precedenti. Dopo il rifiuto del Piano Owen-Stoltenberg da parte del parlamento di Sarajevo, la Repubblica Serba e dell'Erzeg-Bosnia decisero, il 1° ottobre del 1993, di dichiarare nulli tutti gli accordi e le concessioni fatte in precedenza ai musulmani. Ne risultò un blocco degli approvvigionamenti particolarmente duro per quel 64% della popolazione che in quel momento dipendeva
dall'assistenza delle Nazioni Unite.
Il 5 febbraio 1994 un'ennesima strage colpì il mercato di Sarajevo, dove una granata serba
esplose in pieno giorno nel cuore della città, uccidendo 68 persone e ferendone 197; a questo punto Boutros-Ghali, sollecitato dai rappresentanti della Francia, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti presso l'ONU rivolse alla NATO la richiesta di un intervento operativo per imporre un ultimatum attraverso il quale creare intorno a Sarajevo una zona smilitarizzata sotto il controllo delle Nazioni Unite. Cessavano così momentaneamente i bombardamenti sulla città, protrattisi per ben 22 mesi.
Alla fine del marzo 1994 le truppe del governo di Sarajevo e quelle del Consiglio Croato della Difesa lanciarono un offensiva contro i serbi in Bosnia nordorientale, in risposta alla quale ripresero con violenza i bombardamenti a Sarajevo; anche in questo caso si notarono i ritardi negli interventi e la lentezza delle Nazioni Unite ad attivarsi, le quali consentirono ai
comandanti NATO il permesso di attaccare con gli aerei le linee serbe solo dopo dieci giorni dall'inizio dell'aggressione. Non si fecero attendere le ritorsioni da parte dell'esercito di Pale, piccola città della Repubblica Serba, che in pochi giorni prese in ostaggio più di 360
osservatori e militari dell'ONU, minacciando la loro uccisione se non fossero immediatamente cessati i raid della NATO.
A questo punto i serbi decisero di attaccare le aree protette di Srebrenica e Zepa, rassicurati, indirettamente, dalla posizione del segretario delle nazioni unite Boutros-Ghali, che sosteneva la necessità di “ridurre il numero dei caschi blu in Bosnia-Erzegovina e raggrupparli nei territori della Federazione musulmano-croata affinché non fossero alla mercé dei serbi”39;
questo significava ritirarsi dalle posizioni che non potevano essere difese, come le enclave orientali. Il 9 luglio 1995 le truppe del generale Mladić entrarono nella safe area di
Srebrenica, prendendo in ostaggio 32 caschi blu olandesi; solo due giorni dopo le forze NATO vennero autorizzate ad attaccare le posizioni serbe, ma cessarono il loro intervento non appena i sequestratori minacciarono di uccidere gli ostaggi, diventati ormai la garanzia dell'invulnerabilità serba, lasciando ai serbi lo spazio e il tempo necessari per compiere la più grave strage avvenuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Mentre il generale Mladić e i suoi soldati perpetravano il massacro dei profughi musulmani a Srebrenica, le truppe serbo-bosniache proseguirono il loro attacco alle enclave musulmane di Zepa e Bihać,