UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA
Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere
Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace
Laurea Magistrale in Scienze per la Pace, Trasformazione dei Conflitti e
Cooperazione Internazionale
Evoluzione degli interventi internazionali nei processi di
consolidamento della pace:
Le operazioni di peace-building e state-building in Bosnia
ed Erzegovina
Candidato: Relatore:
Dorin Iulian Pop Prof. Alessandro Polsi
Tesi di Laurea
Riassunto analitico
La presente tesi si inserisce all'interno di una ricerca inerente alle operazioni di pace condotte dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite dagli anni novanta ad oggi.
L'oggetto dell'elaborato fa riferimento in termini generici alle modalità con le quali è
avvenuto il passaggio dalle missioni di pace catalogate dalle Nazioni Unite come missioni di seconda generazione a quelle di terza.
Per una comprensione della misura in cui è avvenuta questa trasformazione e della forma assunta dalle operazioni di pace ho preso in esame il contesto della guerra civile bosniaca per la quale vennero attivate una serie di missioni che oltre a consolidare la pace avrebbero dovuto dare forma ad un nuovo Stato bosniaco fondato sulla legittimità, la democrazia e la libertà.
L'obiettivo della presente tesi consiste nel portare alla luce i cambiamenti avvenuti negli ultimi vent'anni nei processi di pace guidati dalle NU, analizzando i costi e i benefici,
l'efficienza e l'inefficienza delle operazioni, la sostenibilità ottenuta attraverso le operazioni e la funzionalità dell'attuale approccio internazionale ai processi di peace-building e state-building.
In quest'analisi cercherò di comprendere i meccanismi che hanno reso, e continuano a rendere, le operazioni internazionali nei contesti post-conflittuali un successo oppure un fallimento.
Indice
Prefazione0.1 Guerra e Pace nello sviluppo economico . . . 7
1 Costruire le società su basi pacifiche 10
1.1 Il concetto di Peace-building . . . 16
1.2 Peacebuilding e Statebuiding: complementarietà nei processi di attuazione della pace . . . 18
2 Jugoslavia: un mosaico di tradizioni ed un miscuglio di radici 28
2.1 La crisi del sistema e la ripresa dei movimenti nazionalisti . . . 32
3 La Bosnia ed Erzegovina 35
3.1 L'escalation del conflitto . . . 40
3.2 Le operazioni post-conflittuali . . . 44
3.3 Dayton, Ohio, 21 novembre 1995 . . . 47
3.4 Il successo dell'operazione . . . 49
3.5 Le dinamiche dello statebuilding . . . 51
3.6 La parte discutibile della missione . . . 54
3.7 Da una prospettiva analitica . . . 58
3.8 Dal controllo indiretto a quello diretto . . . 60
4 L'importanza delle Istituzioni: approcci pratici alla ricostruzione delle istituzioni statali 64
4.1 Utilizzo più efficace delle istituzioni transitorie e delle capacità . . . 69
5 Il ruolo controverso delle operazioni militari: l'invasione dell'Iraq e la missione di democratizzazione 72
5.1 Considerazioni critiche . . . 74
Prefazione
Il mio percorso di studi mi ha portato a riflettere molto sul tema della pace e sui valori che esso inevitabilmente si trascina dietro. Un approccio interdisciplinare alla materia è un ottimo strumento multidimensionale per la comprensione delle dinamiche che si innescano, sia a livello micro che macro, nel sistema sociale e in quello politico mondiale quando si tratta un argomento apparentemente così astratto.
Quanta importanza diamo al rispetto per la vita, alla libertà, alla giustizia, alla solidarietà, alla tolleranza, ai diritti umani e all'uguaglianza di genere?
Questi sono i valori universali per cui fu sollecitato l'impegno dell'UNESCO alla fine degli anni ottanta per costruire una nuova visione della pace. L'intento era quello di sviluppare una
cultura della pace, poiché prima di parlare di pace e di non-violenza le persone devono essere
consapevoli del significato di questo concetto e della necessità della sua messa in pratica per ottenere uno sviluppo che si possa definire davvero sostenibile.
L'idea nacque al Congresso Internazionale sulla Pace tenutosi in Costa d'Avorio nel 1989, influenzata dalla caduta del muro di Berlino e dalla situazione internazionale in cui versava il mondo dopo la fine della Guerra Fredda. Sebbene il concetto di pace sia accettato a livello globale con il suo significato più ampio di assenza di conflitti non è sicuro che abbia le stesse denotazioni e connotazioni per tutti.
Parlando di una cultura della pace sorgono alcuni quesiti. Si può portare la pace, o per meglio dire “costruirla” partendo dalle fondamenta, anche in un contesto in cui possa sembrare impossibile avere dei risvolti positivi? Come si sviluppa una società dopo aver subito il trauma di una guerra che ha completamente distrutto il suo sistema politico-amministrativo e cambiato totalmente la sua forma di governo? E' possibile consolidare e mantenere la pace in un processo basato su un modello di sviluppo di tipo top-down?
In questa tesi cercherò di trovare risposta a queste domande, e se possibile di andare oltre, sebbene mi renda conto che sia un lavoro complesso e di non facile analisi. Vorrei iniziare
provando a contestualizzare il concetto di peacebuilding e il modo in cui tale processo è stato messo in pratica facendo riferimento ai più recenti studi sulla pace. Prenderò in
considerazione il contesto della Bosnia Erzegovina, entrato in crisi negli anni novanta, e le operazioni attuate dalla comunità internazionale atte al consolidamento della pace, i risultati attesi e quelli raggiunti in seguito a tale intervento. Proverò a fare un breve confronto con L'Iraq di Saddam e la missione di democratizzazione dello Stato. I due esempi hanno degli elementi in comune e, sebbene siano state attuate diverse strategie nelle due missioni essendo avvenute in tempi diversi, cercherò di capire il motivo per cui hanno ottenuto dei risultati differenti, positivi per la Bosnia, sebbene secondo alcune considerazioni questa valutazione sembrerebbe azzardata, e negativi per l'Iraq. E' singolare il fatto che l'intervento in Iraq sarebbe dovuto essere un'evoluzione di quello effettuato in Bosnia e, malgrado la
consapevolezza e la ricerca in questo ambito sarebbe dovuta essere più matura, i risultati attuali lo smentiscono.
In questa cornice cerchiamo di seguire un percorso di analisi che ci possa indirizzare verso una comprensione delle dinamiche che si sviluppano quando si parla di pace o di
peacebuilding, di come possono apparire queste operazioni agli occhi della comunità internazionale e di come invece vengano vissute dalle comunità locali. Vorrei che fosse un'analisi quantomeno utile e soddisfacente da un punto di vista intellettuale, poiché difficilmente potrebbe essere completa ed esaustiva.
Il concetto di pace potrebbe essere considerato uno dei più antichi e profondi in senso antropologico. Nel corso della storia umana è stato approfondito e considerato da molti intellettuali, filosofi, rappresentanti politici e religiosi di culture anche molto lontane tra loro; in ognuna di queste considerazioni la connotazione stessa del termine a volte convergeva e altre volte meno.
In chiave riduzionistica la pace può essere considerata come assenza di conflitti; potremmo pensare che se non vi sono conflitti in una determinata area e in un determinato contesto allora vi è pace, ma come abbiamo detto è riduttivo.
Molte culture antiche contrapponevano il concetto di pace a quello di guerra. I romani in particolare avevano un motto che recitava si vis pacem para bellum, ovvero se vuoi la pace prepara la guerra. Essi pensavano che solo il dominio sulle altre civiltà e sugli altri popoli, la paura instillata in questo modo e la superiorità poteva far sì che fosse virtualmente
Oggi invece sappiamo che questo è il metodo migliore per aumentare la tensione e ottenere in breve tempo un risultato completamente opposto a quello di pace.
Cerchiamo quindi di vedere la pace come qualcosa di più profondo rispetto alla sola assenza di conflitti.
Nel 1959 Johan Galtung, un sociologo e matematico norvegese, fondò l'International Peace Research Institute e la rete Trascendent per la risoluzione dei conflitti. I suoi numerosi studi sull'argomento lo portarono a pensare alla pace come ad un concetto ben determinato, al centro di un vastissimo campo di ricerche. Si deve a lui la concettualizzazione della pace
negativa, vista come assenza di guerre, positiva, come tensione verso una società più giusta e non violenta, come superamento delle ingiustizie con mezzi non violenti. Rifacendosi alle
teorie di Galtung si evince subito quanto il significato generale e riduttivo del termine rifletta solo il concetto di pace negativa.
Il 12 Novembre 1984, durante la 57° seduta plenaria dell'Assemblea della Nazioni Unite, fu adottata la Dichiarazione per i diritti dei popoli alla pace; si legge: “per garantire l'esercizio del diritto dei popoli alla pace, è indispensabile che la politica degli stati tenda alla
eliminazione delle minacce di guerra, soprattutto di quella nucleare, all'abbandono del ricorso alla forza nelle relazioni internazionali e alla composizione pacifica delle controversie
internazionali sulla base dello Statuto delle Nazioni Unite.”
Anche questa appare oggi una visione riduttiva del problema poiché ormai si è fatta strada una visione positiva della pace, considerata non semplicisticamente come assenza di guerra ma come presenza di condizioni di giustizia reciproca tra i popoli che permettano ad ognuno il proprio libero sviluppo in condizioni di auto-governo. Da questo punto di vista la pace è molto più di un accordo tra governi o di una possibile scelta adottata dai capi di Stato. La pace sorge dal modo in cui un popolo si relaziona ad un altro, dal reciproco rispetto dei diritti e doveri riconosciuti dalla comunità internazionale. Non è quindi la forma di governo che garantisce la pace, né tanto meno un insieme di trattati o convenzioni internazionali. Essa è garantita solo ed esclusivamente dal comportamento e dalle scelte degli individui che insieme costituiscono il comportamento e le scelte di un popolo.
Da qui nasce la necessità di una cultura della pace intesa come conoscenza diffusa e consapevole dei fattori che contribuiscono a creare condizioni di giustizia reciproca tra i popoli, e in primis tra le persone.
pace, grazie alla quale finalmente riconosce il fatto che la pace non sia solo assenza di conflitti, ma richiede un processo positivo e dinamico di partecipazione, all'interno del quale il dialogo venga incoraggiato e i conflitti siano risolti in uno spirito di comprensione e cooperazione reciproca. Riconoscendo inoltre la necessità di eliminare tutte le forme di discriminazione e intolleranza proclama solennemente una serie di norme che devono essere utilizzate come linee guida da governi, organizzazioni internazionali e società civile nelle loro attività di promozione di una cultura della pace nel nuovo millennio. Purtroppo come si può notare dai risultati di varie missioni di pace internazionali gli attori esterni che sono
intervenuti nei contesti post-bellici, anche nel nuovo millennio, non hanno preso molto in considerazione le norme della Dichiarazione, continuando ad intervenire con strategie di tipo top-down, per la maggior parte impositive, senza cercare di approfondire e comprendere il contesto in cui agivano.
0.1 - Guerra e Pace nello sviluppo economico
Pace e guerra sono due concetti antitetici e intercambiabili, se vi è guerra non vi può essere pace e viceversa. Sebbene molte impostazioni teoriche trattino questi due concetti in maniera diversa possono essere entrambi considerati condizioni da perseguire per generare progresso in vari settori.
L'industria bellica, soprattutto quando è intesa come industria della difesa, produce armamenti principalmente per le forze armate statali. Per armamenti si intende armi da fuoco, munizioni, missili, aerei, veicoli, navi, sistemi elettronici. Anche l'industria tessile ne trae vantaggio grazie alla produzione di uniformi, indumenti e divise da fornire all'esercito. È stato stimato che annualmente, in tutto il mondo, più di un trilione e mezzo di dollari sono impiegati nelle spese militari; gli Stati Uniti da soli investono più di 600 miliardi di dollari, mentre l'Unione Europea ne investe più di trecento.1 In macroeconomia, dal punto di vista delle teorie
keynesiane, aumentare la domanda di qualsiasi bene da parte dei consumatori porta il sistema verso la crescita, e questo sicuramente supporta l'idea degli enormi investimenti indirizzati verso questo tipo di industria. La Germania della Repubblica di Weimar versava in una situazione economica disastrosa dovuta in gran parte alla crisi del 1929. Questa crisi, secondo Keynes, era dovuta ad un'insufficienza di domanda, da parte dei consumatori, per i beni di
consumo, e da parte delle imprese, per i beni di investimento. Secondo questa teoria era il basso livello della spesa per i consumi e per gli investimenti ad aver causato la crisi e l'allontanamento del sistema dalla piena occupazione. Quando il capo del Partito
Nazionalsocialista Tedesco salì al potere nel 1933 trasformò la maggior parte delle fabbriche del paese in industrie belliche per la produzione di armamenti, questa mossa diede un impulso enorme all'economia tedesca che iniziò a crescere in maniera esponenziale. Per quanto questa scelta possa essere sembrata apparentemente e immediatamente efficace dal punto di vista economico, essa conteneva in sé il germe di un'evoluzione parallela, con una visione a lungo termine riduttiva poiché carente di una visione d'insieme. La nascita del nazionalismo e del patriottismo furono l'inizio, i valori di una nazione e gli ideali di una società per come erano stati concepiti dovevano essere difesi con forza ed esportati oltre il proprio confine sicuri della forza dei propri principi tanto da considerare inadeguati tutti quelli che vi si opponevano. Uno sviluppo economico di questo tipo, infranto contro la consistenza della realtà, ha generato una situazione ancora più disastrosa di quella precedente ad essa.
Possiamo tuttavia continuare ad affermare che l'industria della difesa abbia generato progresso in molti settori soprattutto in età contemporanea, in quello delle telecomunicazioni, i primi telefoni cellulari, internet e il gps ne sono un esempio, oppure in quello dell'energia pensando a quella nucleare; questo tipo di industria, come ogni altra, possiede un forte potenziale di generare progresso, il problema sorge quando non viene controllata. Quando vi è un aumento dei finanziamenti governativi di un determinato paese a questo tipo di industria
automaticamente altri paesi, per "correre ai ripari", seguono questa strategia. Questa spinta multilaterale verso la creazione di un sistema difensivo ben strutturato in grado di fornire una sicurezza nazionale valida si è sempre rivelata distruttiva da un punto di vista globale e storico. Con le Convenzioni dell'Aja del 1899 e 1907, che hanno visto la partecipazione di 26 Stati alla prima Conferenza e 44 alla seconda, si è cercato di limitare e diminuire l'utilizzo e il possesso di armamenti per evitare di ricadere in futuro nella trappola della guerra o per limitarne i danni. Queste due Convenzioni erano state pensate per attuare una codifica dello
ius in bello e per definire i concetti di crimini di guerra. Venne fatto uno sforzo anche per
istituire un tribunale internazionale vincolante per l'arbitrato obbligatorio per risolvere le controversie senza il bisogno di ricorrere alla guerra. Grazie a queste due Conferenze, e prima ancora alla Convenzione di Ginevra del 1864, si iniziò ad intravedere una consapevolezza di quanto possa essere distruttiva un'economia basata sulla guerra se non regolata; si potrebbe
anche affermare che questi trattati posero le basi per una futura cultura della pace, una cultura che si sta sviluppando anche a livello normativo. Considerando che gli esempi storici, ma anche quelli attuali, sull'effetto distruttivo della guerra non sembrano abbastanza, l'idea delle organizzazioni internazionali e persino delle Nazioni Unite di "edificare" una cultura della pace ci rende più consapevoli del fatto che la pace sia l'unica scelta possibile per ottenere uno sviluppo umano che si possa definire tale e che vada ben oltre quello economico.
Viviamo nell'era della globalizzazione, negli ultimi decenni abbiamo assistito a un enorme intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali su scala mondiale e consequenzialmente si è creata un'interdipendenza delle economie nazionali sempre
maggiore, che ha portato anche a interdipendenze sociali, culturali, politiche e tecnologiche. Lo sviluppo umano in questo senso dovrebbe essere ai suoi massimi livelli, eppure la
consapevolezza non sembra essere abbastanza matura. Se diamo un'occhiata ai risultati delle ultime elezioni politiche in diversi paesi del mondo i partiti più votati sono stati i cosiddetti populisti, che esaltano il nazionalismo e il protezionismo, due ideali decisamente in
controtendenza considerati i tempi, principi ormai superati con la fine del secondo conflitto mondiale. È vero anche che si sono manifestate spinte protezionistiche a seguito delle crisi energetiche del '73 e del '79 ma si sono gradualmente indebolite per la rapida integrazione dei mercati sia economici che finanziari.
Partendo dal presupposto che principi quali l'integrazione, la cooperazione, il rispetto per l'altro, la comprensione, la reciprocità negli aiuti ma soprattutto la consapevolezza fornita da una cultura in questo senso possano portare alla risoluzione di qualsiasi conflitto, sia esso di natura microscopica o macroscopica, e che persino lo sviluppo economico sarebbe molto più visibile e durevole in un clima di questo tipo, tentiamo di vedere come si è comportata la comunità internazionale negli ultimi decenni in questo senso.
La concettualizzazione utopica di Kant nel libro Per la pace perpetua ha un enorme utilità nella comprensione di come si potrebbe sviluppare il mondo in maniera sostenibile ed equa. È sicuramente difficile pretendere che si possa creare una forma di federalismo a livello
mondiale, ma possiamo dire di esserci parzialmente riusciti con l'Europa, da sempre il continente più colpito dai conflitti; se si riuscisse a creare una cultura della pace a livello mondiale, grazie alla quale si possa comprendere che i concetti di pace e sviluppo siano complementari, allora forse potremmo vivere in pace.
1. Costruire le società su basi pacifiche
Una delle sfide attuali più importanti che deve affrontare la comunità internazionale si basa sui modi in cui assicurare la stabilità e ricostruire le società emerse da una guerra civile. Sin dalla fine della Guerra Fredda molte organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, l'Unione Europea e l'Unione Africana, iniziarono a porsi costantemente e in maniera più manifesta come rappresentanti sovranazionali degli stati membri, assumendosi una responsabilità sempre maggiore per creare le condizioni essenziali per una pace durevole nelle società post-conflittuali.
A partire dagli anni novanta vi è stato un incremento delle missioni di pace prese in carico dall'Onu che vennero attuate per numerosi Stati emersi da un contesto di guerra civile: Rwanda, Namibia, Sierra Leone, Angola, Nicaragua, Guatemala, Cambogia, Timor Est, ex Jugoslavia, Afghanistan, Haiti, Iraq. In questo periodo vi fu anche un'evoluzione dei metodi e delle strategie con le quali furono attuate queste missioni rispetto al passato. All'interno del documento An Agenda for Peace, stilato nel 1992 da Boutros-Ghali allora Segretario generale delle Nazioni Unite, viene rimarcato il fatto che dal 1987 al 1992 le missioni di pace istituite dalle Nazioni Unite, rispettivamente 13, uguagliavano quelle istituite tra il 1948 e il 1987. "Questo rilevante incremento sottolineava la necessità di un ripensamento globale del ruolo delle Nazioni Unite e delle missioni da esse istituite alla luce del cambiamento dello scenario globale."2 Le missioni tra il 1948 e il 1987 sono considerate di prima generazione ed erano
sostanzialmente operazioni di peace-keeping. Esse provvedevano al mantenimento della pace grazie alle forze militari di interposizione dell'Onu le quali aspettavano le direttive del
Consiglio di Sicurezza e non potevano ricorrere all'uso della forza armata se non nei casi di legittima difesa. Con la fine della Guerra fredda si assistette al sorgere delle operazioni di seconda generazione che si ispiravano all'Agenda for Peace. Queste nuove operazioni
venivano anche definite di peace-making o peace-building, esse fondamentalmente prendono in considerazione il concetto di sostenibilità delle missioni, e per questo "implicano il
maggiore rilievo attribuito alla componente civile delle operazioni, cioè la collaborazione con
2 Department of Peace-Keeping Operations (DPKO), a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato, 17a legislatura, Dossier n. 4.
le forze appartenenti ad organizzazioni regionali, l’amministrazione del territorio, il monitoraggio elettorale, l’assistenza umanitaria, la ricostruzione economica e finanziaria, nonché la protezione dei diritti umani."3
Gli episodi di genocidio in Rwanda nel 1994 e il massacro di Srebrenica nel 1995 spinsero le Nazioni Unite ad una rivisitazione della politica delle operazioni di seconda generazione per dare un'ulteriore svolta al funzionamento delle missioni. Si arrivò così alla pubblicazione nel 2001 del Brahimi Report da parte dell'allora Segretario generale Kofi Annan. Le operazioni più recenti "di terza generazione" vengono definite di "peace enforcing e peace support operations". Il Rapporto oltre ad analizzare le difficoltà incontrate dal personale civile e militare delle missioni ed i fattori che ne hanno determinato l'insuccesso contribuì ad
evidenziare due aspetti importanti: "dare al mandato delle Nazioni Unite maggiore chiarezza, credibilità e realizzabilità, nonché l’importanza di migliorare la cooperazione ed il dialogo con i paesi che contribuiscono alle peacekeeping operations attraverso l’invio di truppe."4
In questo quadro, anche grazie all'esperienza ottenuta dagli eventi verificatisi in Rwanda ed in Bosnia negli anni novanta, si è iniziato a dare rilievo ad una dottrina di diritto internazionale umanitario conosciuta con il nome di "Responsibility to Protect (R2P)", che rappresenta un'importante principio del diritto internazionale umanitario a cui faremo riferimento in seguito.
Possiamo dunque affermare che l'attuale approccio internazionale al peace-building nelle società consumate dalla guerra si è spinto di gran lunga oltre la gestione delle crisi e della sicurezza, includendovi altre questioni importanti relative alla trasformazione istituzionale, alla ricostruzione economica, all'inclusione sociale e alla riconciliazione.
I risultati raggiunti grazie agli sforzi internazionali per "riportare" la pace sono misti. Alcuni paesi hanno compiuto dei passi significativi verso la pace, la democrazia e lo sviluppo, altri hanno assistito in poco tempo ad un ritorno alla guerra, altri ancora hanno vissuto una parziale attuazione della pace sebbene la transizione abbia generato nuovi conflitti tra attori locali e internazionali o tra le comunità locali stesse. Provando ad analizzare gli effetti delle politiche promosse dagli attori internazionali con l'ottica di ottenere una pace sostenibile notiamo che molte di esse sono di "stampo" occidentale: democrazia liberale, liberalizzazione economica e salvaguardia dei diritti umani. Poiché la maggior parte dei paesi che hanno vissuto una guerra affondano le proprie radici in una tradizione politica ed una cultura diversa molto spesso
3 Ibidem. 4 Ibidem.
queste politiche hanno dato origine a tensioni tra i diversi attori coinvolti riguardo alla sostanza o al contenuto stesso delle norme promosse dalla comunità internazionale.
“Scholars and practitioners have for centuries sought to improve our ability to end wars. For a number of reasons, however, this challenge has recently taken on new urgency. The classic peacekeeping model aimed at consolidating a cease-fire between the armies of two warring countries today seems a distant memory from simpler times. Civil wars, historically more difficult to settle and to keep settled, now comprise 95 percent of the world's armed conflicts. Even where countries go to war with one another internal armed conflicts and external war making become intermingled in messy ways,”5
Questa premessa, tratta da un progetto pubblicato dall'Istituto Internazionale per la Pace, mette in evidenza le difficoltà che si dispiegano quando si opera per il consolidamento della pace, e in senso più lato per la risoluzione dei conflitti armati. In passato quando si parlava di guerra si faceva riferimento soprattutto al conflitto armato generato da controversie di natura economica o ideologica che coinvolgeva due o più Stati. Ancora oggi persiste
nell'immaginario collettivo un'idea simile di guerra sebbene quest'accezione non rappresenti più la realtà dei fatti. Una serie di ricerche condotte dall'Istituto hanno rilevato quanto sia poco contemporanea quest'idea, poiché le guerre tra Stati sono quasi scomparse, e la maggior parte di esse sono guerre intestine che vedono l'opposizione di diversi gruppi organizzati, etnici, sociali o religiosi appartenenti allo stesso Stato. Lo studio e le ricerche sulla pace finora si sono sviluppate su una corrente lineare che vedeva la comunità internazionale aiutarsi con metodi e tecniche “pseudo” giuridiche, consuetudini internazionali e trattati o convenzioni siglate dai diversi Stati a cui si faceva riferimento nelle situazione di pericolo di guerra, un chiaro esempio ne è l'istituzione dell'arbitrato. Ad oggi diventa più difficile intervenire in situazioni di emergenza proprio perché la maggior parte delle cornici interessate da fenomeni di ostilità sono interne agli Stati stessi. La complessità situazionale e del tessuto sociale in cui si va a intervenire pone diversi paletti alle metodologie classiche di risoluzione dei conflitti. Il peacebuilding come concetto prende forma con l'istituzione delle Nazioni Unite nel 1945. Nel preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite si legge:
5 C. T. Call & V. Wyeth, Building states to build peace, a project of the International Peace Institute, Lynne Rienner Publishers, Inc., USA 2008, pag. 1.
“Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra (...), a riaffermare la fede nei diritti fondamentali della persona (...), a promuovere il progresso sociale (...), abbiamo deciso di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini.”
Il sistema giuridico e politico su cui si basano le Nazioni Unite è caratterizzato da una buona organizzazione interna e da un'ampia separazione dei poteri. Questo è ottimo dal punto di vista teorico seppur nella pratica l'eccessiva burocrazia finisce per limitarne la sfera d'azione e per allungarne i tempi. Di fatto da quando venne istituita l'Organizzazione ha dato spazio all'elaborazione di numerosi trattati internazionali ma allo stesso tempo alla loro scarsa applicazione. Gli enormi poteri dei quali è stata conferita non le hanno comunque permesso di sovrastare la sovranità degli Stati in modo da poter agire con una forza impositiva
sovranazionale. Fondamentalmente questo limite non è negativo se non per il fatto che effettivamente freni il suo potere d'azione, la cosiddetta "anarchia" del diritto internazionale non permette a nessun ente od organismo internazionale di avere forza coercitiva, anche se attualmente ci stiamo muovendo verso una codificazione sempre più completa delle norme internazionali proprio per ovviare alle attuali lacune.
Il successo delle missioni di pace sembra oggi molto più illusorio rispetto al passato. Dopo la caduta del muro si sono intravisti i primi successi in questo senso soprattutto in Africa, in Mozambico, Namibia e Sud Africa le forze delle Nazioni Unite sono riuscite ad assicurare degli accordi negoziali che sospendessero le ostilità.6 Questo spiraglio di luce rese più
realistica l'aspettativa di molti paesi africani e del Medio Oriente di ritrovare la pace tanto desiderata, la stessa che venne apparentemente consolidata in un primo tempo ma che ha lasciato subito spazio alla ripresa delle ostilità. Riparare il tessuto sociale in questi paesi e prevenire i numerosi tentativi di riprendere la guerra da parte delle forze che avevano dato inizio alle ostilità è molto difficile. Le maggiori difficoltà derivano dalle aspettative delle persone rimaste in quel paese nei confronti dell'efficacia del lavoro svolto dalla comunità internazionale. Le paure e le aspettative in questo senso riguardano il rientro degli sfollati rassicurati dalla presenza di un clima non ostile, la necessaria punizione degli esecutori delle atrocità contro i diritti umani e in ultima analisi, sebbene rimanga di rilevante importanza, la
ricostruzione delle infrastrutture e delle economie locali. In aggiunta a questi fattori vi è quello della violenza causata dalla criminalità che divampa inesorabile nei contesti post-conflittuali che in molti casi sfocia perfino in minacce alla sicurezza transnazionale. Considerando queste grandi aspettative si capisce subito quanto sia difficile per gli attori internazionali riuscire a gestirle tutte in maniera ottimale.
La difficoltà di far cessare le guerre risiede anche nella loro urgenza; i costi del fallimento di una missione di mantenimento della pace non sono trascurabili. Lo sono ancora meno considerando che un terzo degli accordi di pace stipulati per far terminare una guerra civile falliscono entro 5 anni.7 Vi è da aggiungere che l'esplosione della violenza generata dalla
guerra produce un eco che si manifesta ancora più deflagrante e intenso a seguito del fallimento di un accordo di pace.
Vi sono anche situazioni in cui il quadro si complica ulteriormente, prendiamo ad esempio i paesi devastati dalle guerre dove le istituzioni e le autorità sono state distrutte o disgregate completamente. In posti come Haiti (1994), Kosovo e Timor Est (1999), Afghanistan (2001) e Iraq (2003) gli interventi militari esterni hanno smantellato lo Stato.8 Questi interventi non
hanno provocato solamente "macerie" umane e materiali, hanno lasciato anche un senso di incertezza su come e chi governerà successivamente milioni di persone.
Gli attori internazionali hanno intrapreso questi sforzi ambendo inizialmente ad obiettivi discreti come interrompere la pulizia etnica o far terminare una dittatura. In questi ed altri casi si sono ritrovati spesso in una situazione più grande di loro e hanno incontrato numerose difficoltà nel tentativo di gestirla. Anche nelle ipotetiche missioni di pace di successo come in Bosnia, Timor Est e Sierra Leone, gli attori esterni si sono trovati decisamente male
equipaggiati per animare un processo che favorisse l'emergere di un'autorità legittima e sostenuta dalla popolazione.9
Recentemente si è compreso che questo aspetto del peacebuilding è molto importante. Anche grazie agli interventi guidati dagli USA in Kosovo, Afghanistan, Haiti e Iraq, gli attori che si sono occupati delle operazioni post-conflittuali sono arrivati alla conclusione che la
ricostruzione dello Stato era l'implicazione logica, e forse anche l'obbligo morale, degli interventi esterni.10 L'attuazione di accordi di pace come avvenuto in Bosnia sottolinea quanto
7 Ibidem 8 Ivi, p. 2 9 Ibidem 10 Ibidem
sia importante sviluppare uno Stato autosufficiente per il consolidamento della pace e per permettere alle truppe internazionali di ritirarsi.
Vi sono altri fattori che hanno influito sull'idea delle procedure da mettere in atto in una missione di peacebuilding. L'effetto collaterale e il rischio dei paesi deboli ad esempio, o cosiddetti stati “falliti”, è quello di generare un terrorismo internazionale che non possono controllare non avendo delle istituzioni adeguate e una forma di sicurezza ben gestita. In seguito ad episodi di questo tipo, soprattutto nei primi anni del nuovo millennio, Stati e governi iniziarono a porre enfasi sui presupposti istituzionali indispensabili per generare uno sviluppo sostenibile e sulle politiche da mettere in atto a tale scopo.
Per citare il National Security Strategy of the United States of America del 2002: “L'America oggi è trattata più come stato fallimentare che conquistatore.”11 Tralasciando gli avvenimenti
innescati nel 2003 in Iraq che da un certo punto di vista pone gli USA come uno stato
"conquistatore" nei metodi e "fallimentare" nei risultati; questa affermazione riflette il cambio di prospettiva da parte della comunità internazionale per quanto riguarda la costruzione della pace in un contesto di guerra o post-bellico, causato da fattori interni e non. Da questa
citazione possiamo dedurre che si stia formando una cultura globale marcatamente costruttiva nei confronti del peacebuilding, questo si desume dall'enfasi argomentativa posta sul
fallimento di una missione più che sul giudizio di valore rispetto alla giustizia insita o meno nell'intervento.
L'esperienza degli interventi americani in Afghanistan e Iraq mostrano quanto sia difficile costruire uno Stato dopo, o durante, la guerra, così come l'importanza che assume la presa in carico e l'esercizio dei propri poteri per attivare un processo virtuoso a salvaguardia della pace e della sicurezza internazionali. Il benessere delle persone che vivono in questi posti, della regione stessa in cui vivono, e indirettamente del resto del mondo, dipende molto dal fatto che sia emerso o meno uno Stato effettivo e legittimo dalle macerie della guerra. Esperienze più problematiche in questo senso come quella della Palestina e della Somalia, aprono un dibattito su quanto il consolidamento della pace e la riconfigurazione delle istituzioni statali siano correlate, detto informalmente quanto siano interconnessi i concetti di peacebuilding e statebuilding.12
11. The White House, The National Security Strategy of the United States of America, Washington, DC, Sept. 2002, p. 1.
1.1 - Il concetto di Peace-building
E' necessario precisare fin da subito che il concetto di peace-building non possiede una connotazione chiara e univoca. Possiamo dire che una comprensione generale del termine denota i diversi sforzi a sostegno delle trasformazioni politiche, istituzionali, sociali ed economiche necessarie a ridurre il rischio di un ritorno al conflitto, e che questi sforzi pongano le basi per una pace e uno sviluppo sostenibile. Un tentativo importante dopo una negoziazione o un imposizione di pace, è quello di comprendere le dinamiche del conflitto corrente e di indirizzarne le fonti verso una risoluzione e una prevenzione futura, nonché di costruire delle capacità nazionali di gestione e risoluzione del conflitto.13 Il concetto di
peacebuilding è molto ampio, e le difficoltà nella costruzione di una chiara e coerente
tipologia di operazioni di peacebuilding sta nella visione generica che si ha del termine, a cui molti fanno riferimento associandolo alle missioni di peacekeeping viste in chiave
multidimensionale e più complessa. La complessità delle missioni di peacebuilding si può comprendere dal fatto che includano compiti che si allontanano molto dalla semplice gestione delle crisi e dai mandati di peacekeeping e mirano a una trasformazione più profonda della struttura politica, economica e sociale promuovendo azioni che si dirigono a uno sviluppo e una pace davvero sostenibili.
Le operazioni di peacebuilding includono almeno tre processi generali di cambiamento.14 Il
primo incoraggia una transizione pacifica, tramite azioni che assicurino una tutela
fondamentale per sollecitare la comunità ad un passaggio da una situazione di aperta violenza verso la pace. Il secondo implica una transizione democratica, per cui un passaggio da un sistema di governo autoritario ad uno di tipo democratico. Il terzo fa riferimento alla ripresa socio-economica, e rimanda alla transizione da un'economia basata sul conflitto a
un'economia di pace.
Di questi tre processi quello della transizione pacifica è correlato al peacekeeping convenzionale che mira a far cessare immediatamente la violenza; andando oltre questa definizione, l'aspetto trasformativo del conflitto associato al peacebuilding comprende anche un lavoro consapevole da parte degli attori che si muovono verso una modifica della
13 Trad. e adattato da W. Doyle & N. Sambanis, International peacebuilding: A theoretical and quantitative
Analysis, The American Political Science Review, Vol. 94, No. 4, Dicembre 2000.
14 La descrizione dei processi si rimanda ad una parafrasi del volume di V. Chetail, Post-conflict Peacebuilding, ed. Oxford University Press, 2009.
dimensione strutturale del conflitto con l'obiettivo di assicurare una pace durevole a lungo termine.
Il processo di trasformazione democratica si concentra sull'istituzione di un'autorità politica legittimata nello stato post-conflittuale. Gli stati post-conflittuali divergono molto tra loro ma la maggior parte dei paesi che emergono da una guerra civile condividono una storia di governo non rappresentativo, diffusa repressione politica ed esclusione istituzionale nonché disfunzione delle istituzioni stesse. Un'evoluzione verso istituzioni politiche più aperte ed elastiche è parte integrante delle contemporanee azioni di peacebuilding. Facilitare la transizione democratica significa preparare per le elezioni, amministrarle e supervisionarle, promuovere i diritti civili e politici di base, elaborare una costituzione nazionale che codifichi i diritti civili e politici, incentivare la crescita della società civile ed assicurare una
trasformazione delle parti in conflitto in partiti politici. L'imperativo per la democratizzazione nel corso del processo di peacebuilding riflette due idee fondamentali per promuovere le condizioni per una pace durevole. La prima idea è che la promozione della democrazia sia vista come una strategia di sicurezza. L'assunzione si basa sul fatto che una volta raggiunta la democrazia saranno poste le radici per la pace. In questo modo la democrazia non viene vista soltanto come un'ideale standard per una buona governance, ma anche come la base più sicura per instaurare una pace durevole. La seconda idea è un'evoluzione della prima, e si muove verso una visione della democrazia come governance in grado di porre le basi per uno sviluppo economico sostenibile.
Il terzo processo di cambiamento include la ripresa economica ed una trasformazione delle relazioni economiche basate su uno schema adatto nei tempi di guerra verso un modello economico di scambi ritenuto proficuo per la pace. Lo sviluppo economico è un aspetto critico nelle fasi post-conflittuali per due ragioni. In primo luogo la povertà e il
"sottosviluppo" sono esacerbati nel corso delle violenze causate dai conflitti; in secondo luogo è la povertà stessa ad esporre le società ad un ulteriore clima di violenza. In termini economici il peacebuilding presuppone non solo riforme in ambito economico ma anche enormi aiuti allo sviluppo favoriti da donazioni internazionali per ridurre la povertà.
Sebbene queste strategie sembrino efficaci dal punto di vista teorico nessuna di queste non contiene in sé qualche problema. La liberalizzazione e l'apertura dei mercati, abbinate ai pacchetti di aggiustamenti strutturali imposti dall'alto, possono avere l'effetto di destabilizzare le società più vulnerabili e ridurre l'abilità dei governi di far fronte al malcontento domestico.
Al contrario gli aiuti internazionali allo sviluppo potrebbero non solo creare dipendenza dalle donazioni ma potrebbero anche generare nuovi conflitti nel caso in cui venissero distribuiti in maniera ineguale o fossero addirittura politicizzati.
1.2 - Peacebuilding e Statebuilding: complementarietà nei processi di
attuazione della pace
Come abbiamo accennato prima una delle difficoltà dell'analisi del peacebuilding sta nella regnante confusione riguardo all'accezione stessa del termine e al proprio impiego in quanto a strategie da mettere in atto nei processi post-conflittuali. Dalla metà degli anni '90 l'uso di quest'espressione è entrato a far parte dei discorsi accademici e politici ampliandone così l'utilizzo e le connotazioni derivate. Vi è infatti un consistente numero di termini correlati che differiscono leggermente nella loro denotazione e nei valori che sottolineano. Nella tabella sottostante ne possiamo trovare alcuni:
Il termine peacebuilding, come accennato all'inizio, divenne di uso pubblico attraverso le Nazioni Unite. Attingendo al lavoro di Johan Galtung e altri, come quello stilato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Boutros-Ghali nel 1992 nell'Agenda for Peace, il peacebuilding viene considerato generalmente in relazione a un continuum di conflitto. Vi sono vari passaggi da tenere presenti quando si utilizza quest'espressione. In linea teorica si passa da una prevenzione pre-conflittuale al peacemaking e poi al peacekeeping, il
peacebuilding viene associato alle società post-conflittuali; parafrasando Boutros-Ghali si tratta di un'azione che identifica e supporta strutture che tendano a rafforzare e consolidare la pace in modo da evitare una ricaduta nel conflitto.15 In un annesso integrativo all'Agenda for
Peace si pone enfasi sull'applicazione del termine non solo nelle situazioni post-conflittuali
ma in qualsiasi situazione che implichi lo spettro del conflitto: prevenzione pre-conflittuale, azione durante la guerra e misure post-conflittuali. Malgrado ciò il Ministero degli Affari Esteri statunitense limita le sue analisi e i suoi lavori al “peacebuilding post-conflittuale”. In ambito istituzionale si fa riferimento alle divergenze di significato del termine proveniente dalle NU. Nel 1997 il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) affermò che il peacebuilding era sostanzialmente una componente delle attività di sviluppo, mentre il Dipartimento per gli Affari Politici lo definì come la “quintessenza dei compiti politici ”16
In questa sede, voglio premettere che quando parlerò di peacebuilding tenderò a fare riferimento in maniera generica a tutti gli sforzi nazionali, locali, e internazionali per consolidare la pace nelle società devastate dalla guerra. Sebbene il peacebuilding potrebbe riferirsi anche agli sforzi di creare relazioni meno conflittuali tra le parti che potrebbero non aver mai preso in mano un'arma, in questa tesi andrò ad analizzare solo contesti entrati in crisi recentemente in cui si è vissuta un'escalation di violenza che ha portato a veri e propri
massacri e perdite di vite umane. E' importante sottolineare come questi massacri in alcuni casi siano avvenuti anche durante la presenza dei contingenti militari internazionali posti a salvaguardia e alla tutela dei civili delle nazioni considerate. Parleremo della gestione delle situazioni di crisi, di stabilizzazione, di interventi e operazioni che elevino valori quali la giustizia, l'equità sociale e il mantenimento dei mezzi di sussistenza di base, di impegno per lo
15 Il governo degli Stati Uniti si è astenuto dall'utilizzo di questo termine preferendone altri come peacekeeping e reconstruction and stabilization, sebbene quello di nationbuilding continua a prevalere nel discorso pubblico. Vedi, es., James Dobbins et al., America's role in Nation-Building: From Germany to Iraq, Santa Monica, CA, 2003
16 Cit. Margaret J. Antsee, Strengthening the Role of the Department of Political Affairs as Focal Point for
sradicamento della povertà e dell'ineguaglianza, di governance responsabile, democrazia, rispetto per i diritti umani e di una cultura della nonviolenza, principi che stanno alla base della pace e la cui carenza potrebbe portare a esiti distruttivi.
Francis Fukuyama definisce lo “statebuilding” semplicemente come la “creazione di nuove istituzioni di governo e il rafforzamento di quelle già esistenti.”17 L'approccio predominante,
ed anche il più comune, alla ricostruzione di uno Stato prende in considerazione dal punto di vista weberiano la capacità istituzionale, e vede la “costruzione” dello Stato come
rafforzamento delle capacità istituzionali. Fukuyama identifica due dimensioni dello statebuilding: capacità di attivarsi da parte dello Stato sul territorio (forza) e capacità
istituzionali attraverso le proprie funzioni (portata). Entrambe ricadono nel concetto di Stato visto come capacità istituzionale. Un elemento importate della capacità dello Stato non è semplicemente l'erogazione di servizi per la comunità ma l'istituzionalizzazione stessa delle sue varie organizzazioni. Per istituzionalizzazione si intende quel processo attraverso il quale un insieme di attività acquisiscono una serie di regole che vincolano le attività stesse,
delineano delle aspettative, e prescrivono i ruoli degli attori.18 Istituzionalizzazione significa
che la sostenibilità non dipende dal singolo individuo ma da un impegno condiviso verso i principi, le procedure, e gli obiettivi delle istituzioni. La morte o la sconfitta politica di un leader influente non pregiudica le istituzioni, proprio perché i modelli istituzionali si riferiscono al ruolo di tutti in linea generale più che al ruolo assegnato ad un singolo individuo.
Come discusso prima, l'approccio predominante al peacebuilding, aiuto umanitario e
sviluppo, hanno trascurato a lungo l'istituzionalizzazione delle agenzie statali proprio perché quelle stesse agenzie presentano delle carenze che ostacolano il raggiungimento degli effettivi risultati. Gli attori internazionali soccombono spesso alla tentazione di delineare delle
strategie intorno alla figura di un leader influente o un riformatore con una cultura occidentale poiché la ritengono la strada più breve verso il rafforzamento delle capacità statali.
Sfortunatamente, sebbene questo approccio possa avere successo nel breve periodo come strategia orientata al progressivo ritiro degli apporti internazionali, rimane un approccio poco sostenibile a lungo termine dal punto di vista del rafforzamento delle capacità istituzionali
17 F. Fukuyama, State-Building:Governance and World Order in the 21st Century, Ithaca, NY: Cornell
University Press, 2004, p. ix.
18 Parafrasi di Robert O. Keohane, International Institutions: Two Approaches, International Studies Quarterly 32, no. 4, Dic. 1988.
statali. La sostenibilità limitata garantita da questo approccio si può associare al probabile insuccesso sociale e di legittimità del leader incaricato. Bisogna porre come premessa il fatto che gli attori internazionali che prendono parte agli interventi non possono conoscere
perfettamente il contesto in cui agiscono, né i meccanismi sociali storicamente formati né quelli politici, ma soprattutto non possono conoscere i bisogni, i valori o le necessità insite in quella società, se non a livello teorico. Un leader politico filo-occidentale imposterà un programma politico, convenuto con gli attori internazionali, che si baserà su un'ideologia diversa da quella conosciuta storicamente e culturalmente dalla società considerata, e dovrà sottostare ad eventuali vincoli economici e politici predisposti dall'alto che prevarranno sulle necessità istituzionali e sociali di quella specifica comunità. E' possibile che una parte della comunità lo accetti e lo acclami per il progresso che apporterà alla nazione ma sicuramente non lo faranno tutti. La coesione sociale è uno dei fattori più importanti nelle società
consumate dalla guerra e il contrasto che potrebbe derivare da questa strategia non è positivo per una futura pace davvero sostenibile. Un altro fattore importante per la costruzione
effettiva di uno Stato è la forma di governo scelta. In base ad essa si legifera e si prendono decisioni per la comunità in maniera diversa; In questo senso sono diversi anche i livelli di autorità a cui si fa riferimento. Uno Stato può essere di tipo federale o confederale, e può presentare quindi un decentramento del potere effettivo dell'autorità centrale; al contrario potrebbe essere centralizzato affidando più poteri al governo centrale; può anche delegare il potere decisionale su alcune materie specifiche ad alcune comunità autonome. Questo tipo di disposizioni statali da forma alle aspettative del popolo rivolte allo Stato, in particolare alle modalità con le quali lo Stato agisce, che possono essere intrusive o minime. La soluzione per far fronte alle guerre richiede spesso che la struttura delle istituzioni statali sia ridisegnata in modo da garantire delle autonomie regionali ai territori associati alle parti in conflitto. Questo permette in qualche modo alle varie comunità, prima parte del conflitto, di autogovernarsi, o comunque di ridisegnare le leggi statali secondo i propri bisogni e di gestire e amministrare le proprie risorse autonomamente facendo sì che non si rigenerino fattori conflittuali.
Negli ultimi decenni abbiamo visto vari processi formativi e performativi da parte di attori esterni in territori toccati dai conflitti; tra i vari esempi si possono citare Haiti (1994, 2004), Timor Est e Kosovo (1999), Afghanistan (2001) e Iraq (2003). Anche se gli attori esterni esercitano un ruolo nella ridefinizione dello Stato in questi casi, gli attori nazionali continuano
a giocare un ruolo determinante nelle decisioni riguardanti la struttura dello Stato.19 Durante
questi momenti formativi le idee e gli interessi esterni si congiungono ai percorsi storici e regionali per ricreare il sistema politico composto dall'apparato giudiziario, quello della sicurezza, quello elettorale e dalle relazioni tra i poteri locali e provinciali. Per cercare
un'analogia in questo senso possiamo pensare al ciclo della gestione di un progetto di sviluppo in ambito economico. Allo stesso modo anche le missioni di pace sono dei progetti che
partono dall'analisi del contesto, da quella delle azioni da intraprendere per raggiungere gli obiettivi, generali e specifici, prefissati, e si dirigono verso un'elaborazione dettagliata degli interventi da realizzare al fine di raggiungere i risultati attesi. Anche in questo caso la parte più importante è la gestione stessa del progetto sin dai primi momenti del suo avvio. Per tutto il ciclo del progetto si deve collaborare con partner locali che conoscano bene il contesto, la storia, la società e la cultura del paese in cui si agisce. Questo è molto importante perché innanzitutto produce fiducia da parte della comunità verso gli attori esterni che intervengono nella loro comunità, e poi perché il partenariato locale avendo vissuto in quel contesto conosce bene le strategie da mettere in pratica per concludere il progetto positivamente. Un altro fattore fondamentale alla conclusione del ciclo del progetto è la valutazione del
raggiungimento degli obiettivi e dei risultati attesi; in questa parte del progetto si fa un'attenta analisi del successo ottenuto dando molta importanza alla sostenibilità. Per sostenibilità si intente l'analisi di come i benefici di un'attività, in questo caso dell'intervento, possano continuare dopo la cessazione dei finanziamenti e degli aiuti esterni lasciando la situazione in mano ai partner locali. Nel caso di una missione di pace essa si dovrebbe dispiegare
collaborando fin da subito con partner locali i quali, man mano che si sviluppa la missione, possano avere a disposizione sempre più strumenti per controllare i conflitti e ricostruire uno Stato pacifico. La sostenibilità in questo senso è fondamentale soprattutto dopo il ritiro delle forze e degli aiuti internazionali che hanno preso parte al progetto.
La preminenza dello Stato è importante per molte ragioni ed una di questa è la possibile minaccia di terrorismo. Dopo gli attacchi dell'11 Settembre le questioni sul peacebuilding si sono eclissate largamente sui problemi degli Stati deboli o “fragili”. Nonostante i primi riferimenti alla Somalia e alla Bosnia come “Stati falliti” nei primi anni novanta, il termine assunse una maggiore rilevanza soltanto nel ventunesimo secolo in quanto la debolezza dello
19 C. T. Call & V. Wyeth, Building states to build peace, a project of the International Peace Institute, Lynne Rienner Publishers, Inc., USA 2008, p. 10
Stato afghano sotto i Talebani era associata all'abilità di Al-Qaeda di agire liberamente. Gli Stati legittimati e supportati dal popolo sono necessari per provvedere i beni di prima
necessità e i servizi alla popolazione di un determinato territorio, se non vi riescono si incorre facilmente in una guerra civile.
La maggior parte delle teorie politiche e gli accordi di pace postulano l'esistenza di uno Stato sovrano che "funzioni". Il regime internazionale dei diritti umani postula che gli Stati non solo esistano ma che esercitino un controllo effettivo e totale sui propri agenti e i propri territori.20
In diversi campi, sebbene siano interconnessi, come quello dello sviluppo, dell'assistenza umanitaria e della risoluzione dei conflitti, vi è spesso l'assunzione che gli Stati siano capaci di sviluppare politiche sociali e continuino a migliorarle revisionandole continuamente. I presupposti per gli Stati e per la condizione stessa di Stato indicano che le istituzioni esistano e funzionino come tracciate sulla carta. Le NU sono state create da (e per) gli stati; non vi sono disposizioni atte a revocare agli stati "falliti" la possibilità di esercitare anche le funzioni più basilari tramite le proprie istituzioni. Nelle più recenti missioni di peacebuilding gli Stati non sono stati soltanto trascurati, ma attivamente minati dagli sforzi internazionali per la pace e lo sviluppo nelle loro funzioni. Molti filantropi e professionisti dello sviluppo hanno avuto la tendenza a "sdegnare" lo Stato vedendolo come un impedimento al loro lavoro ben
intenzionato. Le agenzie umanitarie o le ONG preferiscono fornire i loro aiuti ai più colpiti dai disastri naturali o compiuti dalla mano dell'uomo. Comprensibilmente preferiscono consegnare i loro aiuti direttamente ai più bisognosi piuttosto che convogliarli attraverso agenzie statali che possono essere corrotte, inefficienti o perseguire interessi etnici o in ogni caso di parte. Conseguentemente gli Stati vengono aggirati e si atrofizzano di fronte ad altri enti che assumono le loro funzioni.
Gli eventi della fine degli anni novanta diressero gli operatori di pace a riconoscere di aver trascurato lo Stato a scapito delle società post-conflittuali stesse. In posti come la Bosnia o l'Afghanistan, dove le guerre sembrarono cessate, la sostenibilità della pace si rivelò elusiva. In seguito a questi risultati gli attori esterni, come le forze di pace militari, i diplomatici e gli esperti di sviluppo, sono tornati a pensare allo Stato come l'antidoto necessario al ritorno alla guerra. La debolezza delle istituzioni statali ha contribuito alla scarsità di risultati nei processi di pace in molti paesi che hanno ricevuto aiuti esterni. Oggi le idee prevalenti sul
20 L'emergere della norma della “responsabilità di proteggere” riflette la crescita della consapevolezza che non tutti gli Stati sono capaci di provvedere alla propria popolazione. Vedi Commissione Internazionale sugli Interventi e la Sovranità dello Stato (ICISS), The Responsibility to Protect, Carta di Ottawa: Centro Internazionale della Ricerca sullo Svilupo, 2001
peacebuilding ripongono molta più attenzione al rafforzamento e all'efficienza delle istituzioni statali. Là dove il processo di pace richiede riforme sulla sicurezza o nuove protezioni per i diritti umani diventa necessario creare o rafforzare quelle istituzioni di cui lo Stato necessita per sostenere questi cambiamenti importanti. Molti paesi poveri che emergono da un contesto di guerra richiedono maggiori risorse umane e capacità istituzionali per avere un'efficienza adeguata.
Fukuyama nella prima pagina del libro State-building affermava che lo statebuilding è uno degli aspetti più importanti per la comunità internazionale poiché i paesi deboli o "falliti" sono la causa dei più seri problemi del mondo.21
Lo statebuilding dovrebbe supportare il consolidamento della pace in diversi modi. In primo luogo migliora la sostenibilità dei meccanismi per la sicurezza e per la risoluzione dei conflitti a livello nazionale, e questo dovrebbe condurre a una maggiore legittimità agli occhi della popolazione e della comunità internazionale. Questi meccanismi (sistema giudiziario, sistemi di polizia o agenzie di erogazione dei servizi) forniscono un'affidabile cornice per i gruppi sociali per esprimere le loro preferenze e risolvere i loro conflitti in maniera non violenta. Se gli Stati funzionano in modo da poter fornire questi beni pubblici, invece di contribuire agli interessi privati, questi riducono gli incentivi per cercare beni di prima necessità al di fuori dei canali stabiliti e formali o attraverso la violenza. Nelle società post-conflittuali con una presenza internazionale, lo statebuilding dovrebbe accelerare il ritiro ordinato delle truppe e dei civili internazionali, assicurando stabilità e supporto da parte della popolazione al regime emergente. Da una prospettiva di economia sostenibile, gli Stati efficienti e legittimati devono fornire un'infrastruttura adeguata per uno sviluppo sostenibile con un ruolo sempre più ridotto degli attori esterni. Tutti questi fattori sottolineano la relazione complementare tra il
peacebuilding e lo statebuilding, una relazione che deve essere alimentata in molte circostanze. Le analogie valoriali presenti tra i due concetti sono facilmente tracciabili. Autosufficienza, legittimità ed efficienza statale possono essere viste come importanti pietre miliari del peacebuilding, ma allo stesso tempo sono gli obiettivi finali dello statebuilding, mentre una pace "auto-sostenibile" è l'ultimo obiettivo del peacebuilding.22
Durante i processi di statebuilding è fondamentale tener conto di alcuni aspetti a cui bisogna dare importanza. L'esperienza insegna, come rilevato da molti analisti, che l'utilizzo di
21 Trad. Fukuyama, State-building: Governance and World Order in the 21st Century, ed. Profile Books Ltd, 2005, p. 1.
22 C. T. Call & V. Wyeth, Building States to build peace, a project of the International Peace Institute, Lynne Rienner Publishers, Inc., USA 2008, p. 13
politiche amministrative simili per contesti e situazioni simili non funzionano affatto come sperato. Per fare un esempio l'amministrazione transitoria impostata dalle Nazioni Unite in Kosovo ha avuto parzialmente successo e la stessa è stata presa da esempio come strategia da attuare in Timor Est, questa volta però con risultati diversi. Si è capito così che non esiste un modello standard di statebuilding che possa adattarsi a tutti i casi. Alla prima assemblea della Commissione delle NU per il peacebuilding a maggio del 2006 professionisti esperti del settore e gli stati membri delle NU hanno ribadito il concetto di porre molta attenzione ai contesti nazionali e locali. L'esperienza ha anche mostrato come certe funzioni statali si siano dimostrate ripetutamente essenziali per la vitalità di uno Stato divorato dalla guerra.
Vi sono quattro aree tematiche da considerare nella costruzione di uno Stato:23
Sicurezza - Una delle lezioni più importanti nelle operazioni di pace è quella sulla sicurezza.
Vi è una netta distinzione tra i concetti di sicurezza “nazionale” o dello Stato e “sicurezza delle persone”. Entrambi i concetti sono importanti ma il secondo lo è di più. Senza la sicurezza, gli altri compiti dello statebuilding e della ricostruzione post-conflittuale sono impossibili. Allo stesso tempo, la disposizione dello Stato a fornire altri beni e servizi statali come l'educazione, un contesto normativo per gli investimenti esteri e la capacità di estrarre le risorse o di tassare i cittadini incidono molto sulla capacità dello stato di provvedere alla sicurezza. Ognuna di queste funzioni sono interconnesse. Concentrarsi concettualmente su una senza prestare attenzione all'interazione che si crea con le altre potrebbe essere disastroso. Analogamente può essere disastroso concentrarsi solo sulla tutela della sicurezza. Anche là dove attori privati sono assunti per provvedere alla sicurezza, la regolamentazione e la sorveglianza di questi attori rimane una prerogativa dello Stato centrale.
Legittimità - La legittimità non è tanto una responsabilità dello Stato quanto un requisito o una
caratteristica necessaria. Poiché la sua presenza è intrecciata con ogni funzione dello Stato, la legittimità è vista come una risorsa che si ripercuote su tutte le funzioni statali piuttosto che su una sola funzione o settore. Il concetto è comunque difficile da analizzare in ogni suo
significato. Gli Stati emergenti avranno raramente un alto livello di legittimità, le nuove istituzioni devono riuscire a fornire i beni e i servizi fondamentali per avere la giusta
legittimità a meno che non siano il risultato di un insurrezione che abbia rovesciato un regime,
23 I quattro aspetti sono introdotti da Charles T. Call, Building States to Build Peace; What are the priorities in
in questo caso il nuovo regime potrebbe essere conferito di un eccesso di legittimità piuttosto che di un deficit della stessa. Là dove storicamente lo Stato non è mai stato il “fornitore” dei beni e dei servizi fondamentali, vedi Stati “deboli”, non è realistico pensare a un nuovo stato che acquisisca ed effettivamente riesca a svolgere il suo compito nel fornire questi servizi in pochi anni. Inoltre data la contemporanea influenza degli attori esterni nel legittimare i regimi transitori, specialmente nei conflitti armati, gli attori nazionali necessitano della legittimità non solo interna ma anche esterna, e quindi di una duplice legittimità che non è facile da ottenere.
Finanza Pubblica e Politiche Economiche - Lo Stato richiede risorse, e le risorse a loro volta
costruiscono lo Stato. Più nello specifico la capacità dello Stato di raccogliere e distribuire i capitali è un valido mezzo di misura della statualità. Più lo Stato è il punto focale per la raccolta e la distribuzione del capitale per i beni pubblici, più esso detiene un peso di fronte alle istituzioni quasi-pubbliche (es.: moschee, chiese, gruppi di quartiere, ecc.). Gli attori militari e diplomatici internazionali tendono a trascurare l'importanza della capacità dello Stato di raccogliere, gestire e distribuire tasse, di imporre dazi doganali e simili, sebbene le istituzioni finanziarie internazionali hanno iniziato a prestare sempre più attenzione a queste capacità dello Stato proprio perché una carenza in questo senso potrebbe indurre parte della popolazione ad attingere a risorse per il proprio fabbisogno illegalmente.
Giustizia e Stato di Diritto - Lo Stato di diritto è riconosciuto come una funzione importante
dello Stato nelle società post-conflittuali più contemporanee. Storicamente gli studiosi non vedevano la capacità di amministrare la giustizia e di garantire uno Stato di diritto come una funzione fondamentale dello Stato. Gli standard globali di giustizia e la comunicazione nel mondo globalizzato hanno reso la legittimità dello Stato sempre più importante di fronte alla distribuzione della giustizia. Più vi è legittimità più diventa facile amministrare la giustizia. Diversi casi studio di peacebuilding suggeriscono che sia la legittimità che la sicurezza dipendono molto dal fatto che la popolazione riesca a vedere i micro-conflitti quotidiani risolvibili pacificamente, sia tramite tribunali che tramite meccanismi locali di giustizia.
Con quest'analisi abbiamo gradatamente delineato il concetto di statebuilding. La sua interrelazione con il concetto di peacebuilding apre delle sfide importati. In molte società
post-belliche gli attori internazionali distribuiscono un notevole numero di risorse concentrate in un periodo limitato cercando progressivamente di diminuirle. La particolare sfida dello statebuilding nelle società consumate dalla guerra risiede proprio nella generazione di una base solida per lo Stato e le sue funzioni, con l'aspettativa che le forniture esterne di queste risorse saranno ritirate o ridotte drasticamente in pochi anni. Come risultato le agenzie internazionali si assumono la responsabilità di sviluppare una serie di strategie che col tempo possono risultare sia positive che autodistruttive. Vedremo in seguito gli errori più comuni nel processo di creazione delle istituzioni e anche delle raccomandazioni chiare e concrete tratte da una ricerca dell'Istituto Internazionale per la Pace atte ad evitare questi errori. Prima però inizierei ad addentrarmi in quello che sarà la parte centrale della tesi che comprende il processo di peacebuilding in Bosnia Erzegovina e le strategie attuate dalla comunità
internazionale per riportare la pace in un contesto fragile e complesso come quello scaturito dalla dissoluzione della Jugoslavia.
2. Jugoslavia: un mosaico tradizioni ed un miscuglio di
radici
La caratteristica fondamentale di quella che fu la Jugoslavia è il suo pluralismo etnico, culturale e geografico. Nell'area balcanica sono presenti numerose etnie che si
contraddistinguono nettamente per i loro caratteri di ordine storico, culturale e religioso. Nella regione è sempre risultata visibile una mescolanza di numerose comunità ortodosse, cattoliche e musulmane le quali, non essendo mai perdurata storicamente una netta distinzione
territoriale tra le varie comunità, spesso condividevano gli stessi spazi sociali.
Crocevia di molteplici culture, religioni e tradizioni, la Jugoslavia è la storia di un campo di battaglia, ideologico e reale, conteso dalle grandi potenze per il predominio strategico della regione, che contemporaneamente conteneva in sé tutte quelle differenze presenti tra l'oriente e l'occidente. E' una storia di aggregazioni e disgregazioni territoriali, di conflitti ma anche di resistenza ai conflitti, una questione complessa della quale cercherò di tracciare un'immagine globale per arrivare a parlare nello specifico della Bosnia Erzegovina e dello sviluppo della missione internazionale di pace del 1992.
Non avendo intenzione di sconfinare nel vasto tema della storiografia dei Balcani tenterò di fare un breve excursus storico che spieghi i contrasti interni alla Jugoslavia concentrandomi sulla storia contemporanea; da come si cercò di plasmare una società omogenea con la fondazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, senza dei veri presupposti che stessero alla base di una struttura solida, alla disgregazione avvenuta con il crollo della cortina di ferro e le conseguenti missioni di pace e di costruzione dello Stato condotte in Bosnia. Come abbiamo accennato prima i territori rappresentati dalla Jugoslavia facevano parte di un'unione difficile fin dall'inizio viste le diverse realtà storiche e culturali di ogni singolo Stato federale. La Federazione era composta da Croazia, Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Slovenia e Macedonia. Ognuno di questi Stati era una realtà a sé formata nel corso di secoli di invasioni straniere, di continue migrazioni interne ed esterne che diedero vita alle numerose comunità, di influssi politici, culturali e ideologici delle grandi potenze; tutto ciò diede forma ad un'importante eterogeneità sociale visibile ancora oggi.
Come ci si potrebbe aspettare da un contesto simile non possono che sussistere contrasti e conflitti derivati dalle diverse esigenze, aspettative e aspirazioni delle varie comunità in qualche modo "costrette" a convivere insieme.
La Slovenia e la Croazia avevano a lungo subito la dominazione austro-ungarica e con essa facevano parte della cultura occidentale cristiano-cattolica. La Serbia, il Montenegro e la Macedonia avevano subito la dominazione turca e quindi appartenevano all'area orientale cristiano-ortodossa.
Al centro di questa divisione vi era la Bosnia con una situazione ancora più complessa. Essa era il prodotto di diverse dominazioni straniere che avevano trasformato la società in un mosaico di comunità costituite da serbo-ortodossi, croato-cattolici, bosniaco-musulmani e da ebrei sefarditi. In questa Repubblica le divisioni etniche, religiose e culturali erano ancora più rimarcate rispetto alle altre e, a livello locale, rappresentava complessivamente le differenze e i contrasti che coesistevano nella Federazione.
Prima della Repubblica Socialista istituita dal maresciallo Tito il sistema della Jugoslavia era governato dalla dittatura monarchica del re Alessandro I il quale, in seguito ad un colpo di stato realizzato nel 1929, riuscì a riunire tutti i popoli della regione sotto il suo potere, abolendo in maniera sistematica "tutti i simboli, gli stemmi e le bandiere tradizionali
sostituendoli con quelli Jugoslavi; tutto ciò che ricordava le diversità delle tribù da un giorno all'altro venne proibito."24
Dopo la Seconda guerra mondiale, e grazie al successo ottenuto dalla guerra di liberazione, il maresciallo Tito trasformò il paese in una Repubblica Socialista Federale. La Jugoslavia fu quindi strutturata in cinque Repubbliche indipendenti: Slovenia, Croazia, Serbia, Macedonia e Montenegro; a queste si aggiungeva la Bosnia-Erzegovina tenendo conto della sua consistente popolazione musulmana e croata.
Tito sosteneva la necessità e l'importanza di valori quali la libertà, gli uguali diritti e la fratellanza tra i popoli, principi fondamentali per costruire uno stato solido in un contesto così complesso e policromo; in particolare "fratellanza e unità" fu il motto della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.
Come afferma Joze Pirjevec nel libro Il giorno di S. Vito "Il concetto di fratellanza ed unità sembrava dunque trionfare un’altra volta non per germinazione spontanea, ma per
24 Storia della ex Jugoslavia, parte 7. Il regno di Jugoslavia, Prof.ssa Gabriella Bressan con collab. prof.ssori Paolo Vidali e Giuliano Parodi, pubblicazione di un numero speciale interistituto "Quadrifoglio".
imposizione dall’alto. Esso mascherava però una realtà ben diversa, caratterizzata dal sospetto nei confronti di ogni manifestazione di sentimento nazionale non “jugoslavo”, e dalla
discriminazione, più o meno esplicita, degli albanesi, degli ungheresi e di altre minoranze nazionali."25
La nuova struttura dello Stato andava a svantaggio dei serbi i quali in primo luogo persero il controllo sul Montenegro, in secondo luogo videro alcune parti del proprio territorio diventare province o circoscrizioni autonome, come la Vojvodina e il Kosovo, e infine si ritrovarono divisi da vere e proprie frontiere amministrative diventando "minoranza" in Croazia e Macedonia. Bisogna sottolineare che i padri costituenti del 1946 non diedero molta importanza alle questioni etniche poiché consideravano la forza unificatrice dei principi socialisti superiore ad esse.
Nella Jugoslavia di Tito il principale organo esecutivo era il governo federale guidato dal presidente. Quest'ultimo aveva la facoltà di interpretare e sanzionare le leggi nonché di emanare decreti. Il parlamento aveva il dovere di riunirsi due volte l'anno e non aveva poteri, se non quello di ratificare gli atti presentati dal governo o dalla presidenza.
La proprietà privata scomparve e vi fu un processo accelerato di nazionalizzazione delle banche, delle industrie, delle imprese e di tutto ciò che tracciava le fondamenta private dell'economia nazionale. Un'importante segno di distinzione dagli altri Stati socialisti era l'indipendenza da Mosca. L'autorevolezza e la buona reputazione acquisita da Tito in seguito alla guerra di liberazione gli permise di mantenere una buona autonomia dall'URSS e, sebbene venisse condannato da Stalin per questo motivo, riuscì a costruire in Jugoslavia una forma originale di socialismo rifiutando di "allinearsi" con il blocco orientale. Infatti durante tutto il periodo della guerra fredda, sebbene il paese fosse al centro dei due blocchi e si ergesse su una forma di governo comunista, si trovò ad essere uno dei pochi paesi europei "non allineati". La posizione autonoma rispetto alla Nato e al Patto i Varsavia gli permise di assumere un ruolo importante nel Movimento dei paesi non allineati. Questo fatto è
particolare proprio per la situazione globale di quel periodo. Nella guerra ideologica e
culturale combattuta virtualmente dalle due potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale molti paesi si videro schierati con una delle due parti mentre un giovane Stato di stampo comunista decise di non schierarsi, nemmeno con l'URSS che rappresentava l'emblema dell'ideologia su cui poggiavano le fondamenta dello stesso. Si può giudicare verosimile il