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Se pensiamo agli ideali sui quali si fondano le Nazioni Unite le prime immagini che ci vengono in mente rappresentano la pace, gli aiuti umanitari e la stabilità. In alcuni casi, purtroppo, vi sono stati degli interventi internazionali non autorizzati che hanno ottenuto un risultato opposto a quelli desiderati a causa della forma con la quale vennero attuati, è il caso di citare l'Iraq di Saddam Hussein. Alcune volte bisogna domandarsi se le operazioni siano davvero necessarie e nel caso lo fossero valutare in maniera ottimale le strategie, e il percorso evolutivo, migliori da attuare per il contesto in cui si sta per agire.

Con l'insediamento alla Casa Bianca dell'amministrazione Bush nel 2001, e dopo l'attentato alle Torri Gemelle avvenuto a settembre dello stesso anno, la politica estera statunitense si è largamente cristallizzata sulla guerra al terrorismo, definendola in seguito al National Security Strategy del 2002 una guerra preventiva attuata per prevenire gli attacchi dei paesi nemici. Nella stessa conferenza il presidente Bush indicò gli Stati su cui si sarebbe concentrata la propria politica e che rappresentavano, secondo lui, "l'asse del male". I paesi menzionati nel discorso, i cosiddetti "Stati canaglia", erano sostanzialmente l'Iran, l'Iraq e la Corea del Nord. La tattica della guerra preventiva affondava le proprie radici nella dottrina Wolfowitz,

utilizzata negli anni novanta anche dal padre del neoeletto presidente. Secondo questa dottrina contenuta nel Piano della Difesa gli Stati Uniti non avrebbero atteso gli attacchi nemici ma avrebbero usato la propria potenza militare per prevenirli. Nella parte in cui vengono menzionati gli obiettivi strategici della Difesa viene affermata la volontà di prevenire l'emersione di qualsiasi potenza che si possa equiparare agli USA.

"[...] we endeavor to prevent any hostile power from dominating a region whose resources would, under consolidate control, be sufficient to generate global power. These regions include Western Europe, East Asia, the territory of the former Soviet Union, and Southwest Asia."69

Il documento teorizzava il ruolo degli USA come unica potenza globale ed esplicitava la necessità di conseguire gli obiettivi di politica estera attraverso il perseguimento di azioni unilaterali.

L'amministrazione Bush si affidò alla sopra citata dottrina attivando da subito ed in maniera unilaterale un'azione militare in Afghanistan per destabilizzare il gruppo terrorista di Al- Qaeda, avente base nel paese, e per catturarne la guida nonché responsabile dell'attentato alle Torri, Osama Bin Laden..

Nonostante la campagna in Afghanistan fosse ancora in corso l'amministrazione Bush spostò la propria attenzione sugli altri Stati ritenuti pericolosi per la sicurezza statunitense ed in particolare sull'Iraq.

L'invasione dell'Iraq, guidata dagli USA nel 2003 ed appoggiata da una piccola coalizione di Stati, fu un'azione unilaterale che infranse non pochi principi cardine del diritto internazionale e delle modalità con cui dovrebbero essere attuate le operazioni di pace. La missione in sé venne soprannominata una missione di liberazione e preventiva di future catastrofi, non potendosi inserire nella fattispecie delle missioni di peacekeeping o peacebuilding delle Nazioni Unite. Essendo carente di un'autorizzazione ufficiale fornita dal Consiglio di Sicurezza70, e violando la regola dell'ONU definita nel Brahimi Report Responsibility to

Protect (R2P), gli Stati Uniti hanno agito deliberatamente con un'azione militare che dal punto

di vista globale poteva sembrare tutto fuorché una missione di pace.

Analizzando gli obiettivi formali dell'amministrazione Bush forniti per ottenere

l'autorizzazione all'intervento notiamo fin da subito che nessuno dei tre obiettivi ebbe i risultati desiderati. E' un dato di fatto che gli americani non avevano le adeguate prove per esporre con totale convinzione le proprie argomentazioni.

Gli obiettivi formali annunciati dal governo Bush furono sostanzialmente tre: 1. Disarmare lo Stato iracheno. Secondo alcune ricerche effettuate dall'Intelligence americana il regime di Saddam stava attuando un incremento della produzione di armi chimiche e di distruzione di massa;

2. Smantellare l'infrastruttura terroristica. Ancora una volta le prove erano state fornite dai servizi segreti secondo i quali diversi gruppi terroristici, in particolare Al-Qaeda, venivano appoggiati e sostenuti dal regime di Saddam;

70 Francia, Germania e Cina votarono contro l'intervento mentre i governi americano e britannico, a guida della coalizione, erano sostenuti soltanto da Spagna e Bulgaria.

3. Liberare il popolo iracheno dalla dittatura alla quale era sottomesso e quindi riportare l'ordine ed instaurare un regime pacifico e democratico in un paese che continuava a violare i diritti umani.

Nei primi mesi dell'intervento il regime baathista fu rovesciato e completamente disarmato. Nessun arma di distruzione di massa fu trovata dal gruppo di ispezione statunitense. In questo caso l'intervento americano in Iraq ebbe un'effetto opposto rispetto alla pace; mentre nella regione curda le politiche di sicurezza americane ebbero successo non si può dire lo stesso del resto del paese. Senza nessuna autorizzazione da parte di un governo formale, essendo stato completamente smantellato, si iniziò un riarmo generale subito dopo la caduta del regime nel 2003.

Nel volume How to get out of Iraq with integrity Brendan O'Leary descrive le cause inerenti a questo fallimento americano associandole alla scarsa capacità di creare un monopolio

sull'organizzazione delle forze pubbliche attraverso un'autorità legittima e all'incapacità di fornire una quantità sufficiente di truppe e forze di polizia per mantenere l'ordine mentre preparavano la sostituzione del regime.71

Quello che si nota oggi, dopo più di quindici anni dall'inizio dell'intervento, è sicuramente una situazione ben più complessa e decisamente peggiore rispetto a prima dell'operazione.

Vi sono delle carenze enormi nell'amministrazione della giustizia così come nella protezione dei civili, nei diritti civili e penali, nella legittimità delle azioni del nuovo governo

democratico da parte della popolazione, e vi è stato un incremento enorme delle stragi contro la popolazione civile e delle divisioni interne di natura etnica o religiosa.

Solo per dare un esempio dal primo luglio al 31 dicembre 2017 sono state riportate 2373 vittime tra i civili, di cui 869 morti e 1504 feriti.72 Considerando che questo dato rappresenta

una forte riduzione rispetto al primo semestre dell'anno, 2429 morti e 3277 feriti, capiamo bene quanto l'intervento sia risultato controproducente nella regione.

5.1 - Considerazioni critiche

L'intervento americano si è svolto con una genuina indipendenza internazionale e la presunzione di farlo per una giusta causa. Non ci fu un valido impegno per l'ottenimento

71 B. O'Leary, How to get out of Iraq with integrity, University of Pennsylvania Press, 2009

72 UN Assistance Mission for Iraq (UNAMI), Report on Human Rights in Iraq: July to December 2017, 8 July 2018, available at: http://www.refworld.org/docid/5b6afc544.html

dell'autorizzazione da parte delle Nazioni Unite e, per quanto riguarda quella del popolo iracheno in ottemperanza alla regola del R2P, non fu proprio presa in considerazione. Di fronte al diritto internazionale gli Stati Uniti agirono illegalmente, e sebbene ne fossero consapevoli avevano una totale fiducia nel proprio operato tanto da ritenersi i principali sostenitori della giustizia a livello globale. A distanza di anni dall'intervento possiamo dire che gli Stati Uniti auspicavano ad un rapido successo dell'operazione con la destituzione del regime di Saddam; questa fu la soluzione a breve termine e la direzione della loro politica estera. Il problema verteva intorno alla dittatura di Saddam e si ebbe l'illusione, indotta da un pensiero superficiale, di risolverlo con il rovesciamento del governo. Bisogna aggiungere che l'amministrazione Bush ripose una fiducia eccessiva nella gratitudine del popolo iracheno derivante da questo cambiamento e per questo motivo sottovalutò la difficoltà nella

costruzione di un governo democratico nel contesto iracheno. A causa della superficialità della valutazione iniziale non si cercò subito una soluzione più chiara e definita a lungo termine. Era sicuramente importante cercare di capire fin da subito quali sarebbero state le giuste strategie e le azioni da intraprendere per costruire un governo democratico in un'area

geografica e in una società così complessa. In questo caso si notano in maniera chiara e diretta i risultati derivati dalle carenze nell'approccio transitorio alla ricostruzione delle istituzioni citato nel capitolo precedente.

L'intervento americano in Iraq produsse un importante effetto collaterale incrementando ampiamente il numero di persone che supportavano Al-Qaeda e altre cellule terroristiche operanti oltre i confini nazionali; alcuni gruppi di persone iniziarono ad organizzarsi in milizie con scopi terroristici anche all'interno del paese al fine di far scoppiare una guerra civile che rendesse il paese ingovernabile. Queste azioni furono perpetrate ai danni delle forze

internazionali, in particolare americane, per spingerle verso il ritiro delle truppe dal paese. E' necessario sottolineare che questa particolare situazione non era il risultato dell'intervento americano posto in essere, quanto delle strategie attuate e del modo in cui venne configurato. Nel momento in cui venne rovesciato il governo di Saddam gli Stati Uniti stabilirono

l'Autorità Provvisoria della Coalizione (CPA) con a capo Paul Bremer, un diplomatico statunitense; i ruoli chiave vennero affidati ad esponenti dell'opposizione del precedente partito baathista rientrati dall'esilio e ad alcuni rappresentanti delle comunità curda e sciita. Nello stesso mese Bremer emise due ordinanze al fine di escludere tutti i membri del partito Ba'th dal nuovo governo e per sciogliere tutta la struttura militare irachena (esercito, polizia e

intelligence).

Quest'azione determinò la perdita del lavoro per 400.000 soldati sunniti e molti funzionari statali che lavoravano per il precedente governo; è importante dire che molte di queste persone si erano iscritte al partito soltanto per ottenere il lavoro; professori universitari, intellettuali e l'alta società divennero l'obiettivo formale della politica statunitense in modo da porli ai margini della società; soltanto per dare un esempio circa 40.000 insegnanti persero il lavoro in seguito a queste due ordinanze. Da molti punti di vista questa fu una grande lacuna della strategia americana la quale, invece di attuare politiche di inclusione della componente sunnita, fondamentale per la costituzione di una nuova società fondata su basi democratiche, essa la ostracizzò e la marginalizzò. Inoltre l'Iraq rimase senza un sistema di sicurezza formale in grado di prevenire l'incombenza della violenza nella regione. Gli arabi sunniti videro se stessi perdere i diritti e il lavoro, nonché tutto il potere che avevano posseduto fino a quel momento. I nuovi rappresentanti del governo non fecero molto per risolvere questa situazione. Si trattava di un governo composto in maggioranza da quelle persone che furono represse e perseguitate per più di vent'anni, ma che nonostante ciò avrebbero potuto evitare di

commettere i medesimi errori del precedente governo baathista, andando oltre il passato e agendo in modo da costruire uno Stato democratico con un governo basato su una forte suddivisione dei poteri dove i diritti civili, ma soprattutto quelli costituzionali, valessero per tutti.

Dopo l'opposizione iniziale, nel 2007 si assistette ad una svolta nelle strategie messe in atto dal governo americano attraverso la cosiddetta operazione "surge". Tale strategia si basava su forme di negoziazione per contrastare le insurrezioni e, come nota l'autore del volume sopra citato, essa sarebbe stata la strategia giusta per raggiungere una stabilità nella regione. In nome della stabilizzazione dei conflitti interni l'amministrazione Bush decise di coinvolgere la comunità sunnita sia nel nuovo regime politico che nella lotta all'estremismo. In questo modo molti soldati sunniti, alcuni dei quali avevano inizialmente partecipato a forme di guerriglie contro gli americani ed i propri alleati, iniziarono a collaborare con loro ed a ricevere uno stipendio come incentivo diretto a questo obiettivo. Questa strategia ebbe parzialmente successo, poiché sebbene da un lato portò alla reintegrazione nel nuovo regime di quelle persone che erano state precedentemente escluse, dall'altro lato alla fine del 2008, quando questa operazione giunse al termine, molti gruppi sunniti si ritrovarono alla situazione di partenza, senza più un ruolo né uno stipendio, e ritornarono ad allearsi con i ribelli. Sebbene

nel 2009, anno in cui O'Leary scrisse il suo volume, era ragionevole pensare che la situazione si sarebbe potuta evolvere in maniera positiva, poiché l'amministrazione americana, guidata da Obama, stava chiedendo all'allora primo ministro iracheno Al-Maliki di continuare la loro strategia reintegrando la comunità sunnita nel nuovo regime e continuava a dare incentivi per la liberazione del popolo iracheno dal terrorismo e dai conflitti interni; sfortunatamente oggi sappiamo che il governo iracheno non si assunse molta responsabilità in questo senso. E' possibile che la maggioranza sciita, guidata dal primo ministro, non fosse molto interessata ai problemi della comunità sunnita e che diffidasse dall'assegnare a essa incarichi politici. Se prendiamo in considerazione il terzo obiettivo dell'amministrazione Bush, ovvero la liberazione del popolo dalla dittatura, O'Leary ha notato che nonostante l'intervento fosse finalizzato alla rapida rimozione del regime, i suoi tentativi di raggiungere l'obiettivo sono risultati inefficaci e disorganizzati. Quello che notiamo oggi, dopo più di quindici anni dall'intervento, è probabilmente una situazione sociale ben più complessa e difficile da gestire rispetto a quella associata al regime precedente di Saddam considerando il numero delle morti civili, l'utilizzo della tortura e l'amministrazione della giustizia.

Secondo O'Leary la forma statale migliore per l'amministrazione dell'Iraq sarebbe quella sancita dalla costituzione del 2005 di stampo federale. Questo punto di vista entra in contrasto con quello dell'amministrazione americana e quello della comunità sunnita. Dal punto di vista dei sunniti una decentralizzazione avrebbe significato la distruzione dell'Iraq. Gli americani invece preferivano un governo centralizzato per due motivi: uno di natura geopolitica, per mitigare il timore interno alla Turchia di vedere un Kurdistan indipendente e per

controbilanciare il potere politico dell'Iran islamico sciita; l'altro di natura politica, in riferimento ai bisogni degli arabi sunniti per porre termine alle loro violente reazioni contro l'intervento e contro il nuovo regime.73 La costituzione del 2005 rimane un accordo di

condivisione del potere all'interno di una federazione pluralista. Assumendo una prospettiva a lungo termine questa potrebbe essere la scelta giusta per la struttura del governo iracheno, diretta verso una legalizzazione, provincializzazione e regionalizzazione delle milizie arabo- sunnite, non soltanto dei curdi e degli arabi sciiti. Allo stesso tempo questo significa

un'importante mancanza di potere del governo centrale non favorevole alla stabilizzazione della regione.

Per ciò che concerne il ritiro sostanziale del contingente internazionale, tema centrale del

volume di O'Leary, l'autore afferma che un ritiro ben organizzato e definitivo eseguito da una nuova amministrazione statunitense potrebbe attenuare la credibilità delle affermazioni di quelle persone che indicano l'intervento americano in Iraq come un fallimento.74

Secondo l'autore nonostante tutti gli orrori perpetrati l'intervento del 2003 è costato meno vite di quante ne abbia tolte il regime baathista mentre rafforzava, consolidava, e anche mentre stava perdendo il potere. Bisogna quindi domandarsi se un ritiro ben organizzato porterebbe ad un incremento o ad una diminuzione delle perdite nella regione. O'Leary giunge alla conclusione che le conseguenze dipenderanno dall'emersione di un sistema di sicurezza più o meno stabile. In riferimento all'Iraq egli afferma che nonostante il paese stia avendo qualche difficoltà a livello economico la situazione era ben peggiore durante il regime di Saddam, a causa delle sanzioni autorizzate dalle Nazioni Unite contro il regime, oltre al fatto che le entrate derivate dal petrolio non incrementavano a causa della decadenza dell'infrastruttura petrolifera del paese. Egli sosteneva inoltre che, al fine del raggiungimento dei potenziali benefici economici, sarebbe stato necessario presentare un efficace accordo di sicurezza per l'Iraq. Questa strategia era rappresentata dall'operazione "surge" messa in atto

dall'amministrazione Bush, la quale tuttavia funzionò fino al momento in cui la responsabilità dell'operazione passò nelle mani del governo federale iracheno il quale, compatto in una maggioranza sciita, lasciò prevalere le antiche rivalità. Oggi sappiamo che le previsioni di O'Leary non hanno mai trovato un riscontro effettivo nei fatti; dopo sette anni dall'effettivo ritiro delle truppe internazionali il numero di morti civili è sicuramente aumentato, sono incrementati anche i conflitti interni, le divisioni confessionali e la presenza degli estremisti, inoltre la mancanza di coesione sociale sta divorando l'economia del paese. Se si volesse tentare di spezzare una lancia a favore dell'intervento americano si potrebbe affermare che la missione che si erano preposti di guidare è risultata troppo grande rispetto alle loro

aspettative. Assumendo una visione d'insieme è importante considerare il fatto che per quasi trent'anni la società irachena ha vissuto nel dispotismo. Ci sono sempre state delle divisioni interne di natura etnica e religiosa ma la presenza di un regime autocratico ha funzionato da collante sociale, e nonostante il suo carattere repressivo in alcuni sensi ha protetto la

popolazione da potenziali attacchi interni ed esterni. Nel momento stesso in cui crollò il regime di Saddam si assistette a un conseguente crollo dell'Iraq e ad un immediato passaggio dall'autocrazia all'anarchia. Venne a mancare un intero sistema di sicurezza, i sunniti si videro

senza più potere e senza un lavoro e cominciarono a commettere atti di violenza contro i gruppi sciiti e contro il regime; in risposta gli sciiti iniziarono una dura repressione contro i sunniti creando un circolo vizioso di rappresaglie difficile da interrompere. In aggiunta a ciò gli estremisti islamici, le milizie sunnite, al-Qaeda ed altri gruppi terroristici riuscirono ad insediarsi in Iraq con molta più facilità creando una grande infrastruttura favorita dalla nuova situazione di instabilità. Mentre gli americani confidavano nel ringraziamento della

popolazione per aver posto fine alla dittatura e nella facilità di ricostruire un nuovo governo democratico con l'aiuto della popolazione stessa, i risultati di quest'azione non rispecchiarono le loro aspettative. La coalizione dovette intraprendere azioni e attuare strategie in molteplici direzioni e a più livelli: bisognava creare un nuovo Stato democratico con la propria

costituzione; dare importanza ad ogni componente della società per evitare la diffusione della violenza; creare un sistema di sicurezza ufficiale; raggiungere un compromesso tra i bisogni degli sciiti, dei curdi, dei turcomanni e dei sunniti; combattere i ribelli estremisti vicini ad al- Qaeda e le milizie sunnite che li supportavano; bisognava anche fare attenzione alla situazione presente nei paesi vicini all'Iraq. Sebbene da un lato sappiamo che i piani della coalizione erano troppo ambiziosi, dall'altro bisogna affermare che alcuni di questi obiettivi hanno ottenuto un discreto successo, anche se la complessità contestuale rese difficile l'instaurazione di un buon esempio di democrazia nella regione.

Secondo l'evoluzione logica delle operazioni internazionali l'intervento in Iraq sarebbe dovuto essere ottimizzato rispetto a quello attuato in Bosnia, eppure sembra che una parte della comunità internazionale non abbia acquisito l'adeguata esperienza dagli episodi passati. Se si considerano le quattro funzioni chiave dello Stato elencate nel capitolo precedente e teorizzate dalla direttrice del Centro per la Cooperazione Internazionale di New York capiamo subito il motivo fondamentale del fallimento della missioni in Iraq dal momento che nessuna delle quattro funzioni è stata raggiunta in maniera ottimale dalla Coalizione Provvisoria, mentre in Bosnia si è data molta importanza alla realizzazione efficace di ognuna delle quattro funzioni riuscendo a consolidare un compromesso di governo tutto sommato pacifico.

Nel caso in cui volessimo fare una reale considerazione critica all'intervento bisogna

domandarsi se al di là della situazione e delle strategie messe in atto dagli Stati Uniti esso sia stato giusto dal punto di vista del diritto internazionale e della prassi che lo contraddistingue. E' giusto intervenire in un paese senza il consenso ed il supporto della comunità

internazionale? Al di là dei giudizi di valore che si possono fornire a sostegno, o meno,

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