di Andrea Pinotti
1. Brandi purovisibilista?
Nel suo intenso confrontarsi con la questione dell’immagine e della figurazione artistica, la riflessione di Cesare Brandi incrocia il variegato e complesso percorso del cosiddetto purovisibilismo, che ha rappre- sentato fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento una delle vie maestre per la comprensione della sfera immaginale e figurale, a tutt’oggi ben lungi dall’aver esaurito le proprie potenzialità euristiche. Quel rapporto incontestabile fra Brandi e la pura visibilità ha tuttavia dato occasione a giudizi contrastanti fra i lettori italiani: v’è stato chi ha appiattito il primo sulla seconda, in particolare nella declinazione datane da Heinrich Wölfflin, che lo stesso Brandi ha effettivamente valutato in modo positivo 1; e chi, al contrario, pur riconoscendo che i
sospetti nei confronti di Wölfflin (e transitivamente del Brandi wölffli- niano) risultavano per lo più ingiustificati, ha senz’altro giudicato tale identificazione «un segno di incomprensione», dal momento che la posizione brandiana «– al di là di talune assonanze isolate, che, per se stesse, non dicono assolutamente nulla – non è per niente riducibile al purovisibilismo, cui anzi, sotto profili rilevanti, addirittura si oppone» 2.
Chi, infine, ha posto la questione in una prospettiva storica, segnalando
una successiva presa di distanza di Brandi dal purovisibilismo seguita a
una prima vicinanza: un allontanamento, un’emancipazione da situarsi tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, quando Brandi mette a fuoco l’articolazione del processo creativo nelle due fasi della costituzione d’oggetto e della formulazione d’immagine 3.
A certuni proprio la prima esplicita espressione del Brandi teorico – il dialogo Carmine o della Pittura, uscito nel 1945 – era parsa fin da subito impegnata a rettificare la posizione «della Sichtbarkeit, del puro visibilismo, della forma spaziale o immagine ottica», a rivendica- re, «contro il formalismo di Fiedler, la presenza del tempo nell’ispe- zione del fruitore», anche se alla fine si ammetteva che «possiamo considerare le sue discussioni un approfondimento più che un rifiuto delle vedute della Sichtbarkeit, che hanno lasciato un’impronta non cancellabile nella odierna problematica delle arti figurative» 4.
il filosofo Konrad Fiedler (1841-1895), colui che del purovisibilismo viene tradizionalmente considerato il teorico più raffinato, è stato pun- tualmente indicato fra le fonti primarie dell’estetica brandiana, insieme, fra gli altri, a Kant e Croce, Husserl e Heidegger, Sartre e de Saussu- re; e si è rilevato come «il significato intimo del pensiero estetico di Brandi, la sua perspicua chiave di volta, sia identificabile in questo afo- risma di Konrad Fiedler: “Come l’arte si origini nella natura spirituale dell’uomo è la prima domanda, e la più importante, che si presenta alla trattazione filosofica dell’arte: dalla sua risposta dipendono tutte le ulteriori riflessioni”» 5.
Della cosiddetta “trinità” 6 purovisibilistica (in cui il pittore Hans
von Marées, per nulla interessato a esposizioni teoretico-sistematiche del proprio pensiero, ne sarebbe stato il Padre, mentre lo scultore e teorico Adolf von Hildebrand avrebbe avuto la parte del Figlio) Brandi avrebbe dunque privilegiato in particolare il rapporto con lo Spirito Santo Fiedler; in lui (come per altri versi in Heidegger) poteva tra le altre cose trovare un significativo precedente per quel ritorno a Kant che avrebbe segnato la direttrice principale del suo discorso estetico 7.
2. Fiedler purovisibilista?
Ci pare opportuno, allora, ritornare qui alla figura stessa di Fiedler, agli assi portanti di quella sua dottrina dell’immagine e della figurati- vità che è stata storicamente all’origine di quel complesso e variegato movimento che ha preso il nome di purovisibilismo: un risalimento necessario per poter meglio intendere le ragioni (e forse gli equivoci) che hanno alimentato giudizi così contrastanti intorno al rapporto tra Brandi e la pura visibilità; ragioni – è importante sottolinearlo – che se da un lato sono dovute a quell’atteggiamento totalmente «libero e disinibito» 8 che contrassegnò il dialogo che Brandi intrattenne con
Fiedler e i purovisibilisti (come del resto con le altre sue fonti), dall’al- tro si radicano nella stessa aurorale ricezione del pensiero fiedleriano in Italia, condizionata e orientata dalla lettura che per primo ne diede Benedetto Croce agli inizi del Novecento. Indagare affinità e divergen- ze fra la dottrina di Fiedler e la concezione di Brandi potrebbe ag- giungere ulteriori elementi utili altresì alla comprensione del complesso rapporto che si istituì fra Brandi e l’estetica di Croce 9.
Tornare a Fiedler significa dunque tornare a Croce: a rigore è in Croce, più che non in Fiedler, che va cercata l’origine della “pura vi- sibilità” almeno come categoria storiografica. Dobbiamo infatti questa celeberrima formula non agli scritti fiedleriani (in cui al massimo pos- siamo rinvenire un’occorrenza dell’espressione «mera visibilità [bloße
Sichtbarkeit]» 10), ma a un denso articolo steso da Croce nel 1911 con
il titolo La teoria dell’arte come pura visibilità 11 che, riprendendo alcu-
ma anche profondamente condizionato (si pensi ai casi esemplari di Lionello Venturi e Carlo Ludovico Ragghianti) la ricezione di Fiedler. La potenza della formula “pura visibilità” coniata da Croce – grazie all’amico e traduttore Julius von Schlosser presto rimbalzata in Ger- mania come “reine Sichtbarkeit” 12, e subito anche là adottata come
cifra identificativa del pensiero fiedleriano e di quanti in modo più o meno diretto, più o meno fedele, si richiamavano alle sue posizioni – si sarebbe esercitata ancora molti anni dopo sulla seconda tradu- zione italiana di scritti fiedleriani, inducendo il traduttore a “trovare” nel solo saggio sull’Origine dell’attività artistica 13 una quindicina di
occorrenze di questo terminus technicus, del tutto assente in realtà nell’originale tedesco.
Al di là di questi scrupoli filologici, è innegabile che la fortuna dell’etichetta coniata da Croce fosse dovuta a una felice capacità di sintesi di quella teoria che egli giudicava con «alta stima e riverenza» come «quanto di più notevole sia stato prodotto in fatto di estetica in Germania, nella seconda metà del secolo passato». In particolare l’aggettivo “puro”, se da un lato permetteva a Croce di evocare la purezza pretesa dalla prima Critica kantiana e quindi di rilevare l’ap- partenenza di Fiedler alla tradizione trascendentale e il suo impegno non psicologico, bensì gnoseologico nell’elaborazione di una teoria dell’arte (che Croce evidentemente poteva condividere appieno) 14,
dall’altro gli dava il destro per criticarlo laddove, nel suo concentrarsi esclusivamente sull’ambito esperienziale della visibilità, egli tendeva a irrigidirla in una purezza e in un isolamento dalle altre forme spirituali che ne avrebbero comportato alla fine la necrosi, «minacciando in tal modo di farla morire, per la smania stessa di farla vivere di una vita astrattamente pura», quella appunto di una «pura forma».
Un’etichetta ambivalente, dunque, con cui da un lato Croce si alleava a Fiedler nel comune riconoscimento del valore conoscitivo dell’arte e nel rigoroso rispetto dell’autonomia dell’ambito artistico rispetto a interferenze esterne (vuoi logiche vuoi pratiche), dall’altro lo combatteva rinfacciandogli un’indebita esclusivizzazione del vedere (Schauen, per giunta secondo Croce fisiologicamente inteso), a danno della più ampia accezione di Anschauung come intuizione del senti- mento che stava invece a cuore al filosofo italiano.
3. Realtà pura e pura visibilità
In nessun caso, pare, Brandi avrebbe condiviso queste preoccupa- zioni crociane intorno all’eccesso esiziale di purezza: la spina dorsa- le del Carmine, che organizza il dialogo attorno alla costruzione del concetto di «realtà pura», bene lo prova: «La realtà o, se preferisci, l’esistenza, è come messa fra parentesi. […] L’oggetto è staccato dal mondo, talmente isolato, che non interessa accertarsi se esiste o non esiste, e se è per un inganno dei sensi che appare in quel modo o per
la sua vera natura». E ancora: «La distinzione della realtà pura dalla realtà esistenziale non rappresenta dunque un artificio dialettico, ma rispecchiando una struttura effettiva della spiritualità umana, fonda la condizione indispensabile per pensare l’arte: poiché solo all’arte com- pete la realtà pura».
Nell’elaborare l’idea di arte come realtà pura in quanto scaturen- te da una preliminare «riduzione che la coscienza opera sull’oggetto, riguardandolo fuori della connessione diretta con la realtà esistenzia- le» 15, il Carmine attinge a fonti che sono state in più di un’occasione
evocate: sono il Kant del disinteresse estetico nei confronti dell’esi- stenza dell’oggetto, lo Husserl della riduzione fenomenologica con conseguente messa fra parentesi della posizione di esistenza, il Sartre dell’Imaginaire. Bene ha fatto chi vi ha aggiunto il nome di Fiedler 16:
«Rispetto all’oggetto naturale – leggiamo in Sull’origine dell’attività
artistica –, che si deve accogliere esattamente così come ci si presenta,
o del prodotto di una qualsiasi attività umana, per la quale risulta determinante ora questa ora quella considerazione, ci troviamo ora di fronte a un prodotto che sembra esistere unicamente in virtù della sua visibilità» 17. Ogni riferimento a qualsivoglia elemento che esuli
dall’ambito del visibile e dai suoi scopi deve venire secondo Fiedler espunto dalla trattazione in quanto non pertinente e turbativo dell’au- tonomia della visibilità.
Ma un confronto con la posizione fiedleriana giova anche a illumi- nare lo sviluppo successivo del pensiero brandiano intorno alla pro- blematica della realtà pura dell’arte contrapposta all’esistenza dell’og- getto che, attraverso la mediazione del volume del 1966 Le due vie, si sarebbe declinato nella Teoria generale della critica come riflessione sistematica intorno all’“astanza” dell’opera d’arte contrapposta alla “flagranza” della realtà esistenziale. Già in Le due vie Brandi medita sulla presenza inaggirabile dell’opera che questa, almeno prima facie, pare condividere con la presenza di un qualsiasi oggetto appartenente alla realtà esistenziale, con cui talvolta viene anche confusa; eppure vi è, in quella peculiare presenza che è l’opera, un modo di darsi che si accompagna all’esperienza della sua diversità rispetto al mero feno- meno: «Se mi pongo di fronte ad un’opera d’arte, può darsi che non la recepisca in me come tale; ma se la recepisco, la sua presenza non sarà meno diretta ed immediata, eppure a questa presenza si connet- terà la certezza del suo non essere fenomeno, talché non potrà esservi ambiguità tra l’astanza dell’opera d’arte, che mi si rivela attraverso una determinata fenomenicità, e il porsi astante del fenomeno come fenomeno in diretta flagranza» 18.
In altre parole, il concetto di astanza corregge e approfondisce il concetto di realtà pura laddove questo poteva indurre a pensare che si trattasse non solo di sospensione, bensì di totale obliterazione della realtà o di cedimento all’irreale (punto su cui Brandi aveva significativa-
mente preso le distanze dalla teoria dell’arte di Sartre 19): «L’arte è una
realtà senza esistenza, non illusoria né virtuale, ma realtà astante» 20.
Analogamente Fiedler si preoccupava da un lato di identificare ciò che nel fenomeno (che di per sé e di regola chiama in causa molte- plici fattori sensoriali, pratici, conoscitivi, ecc.: il «mutevole gioco di tutti gli innumerevoli elementi della nostra vita spirituale») pertiene esclusivamente al regno della visibilità; dall’altro non voleva correre il rischio di dissolvere i valori della visibilità così isolati nella loro autonomia in un fluttuante mondo onirico e caleidoscopico, che ci costringerebbe «a far da teatro per immagini spettrali di cose visibili che nascono e muoiono, compiendo, con la loro variopinta e mutevole folla, il loro gioco fantastico e arbitrario». Perciò la visibilità delle cose deve necessariamente svilupparsi «in una forma di esistenza più alta di quella che le è concessa nelle percezioni dell’occhio e nelle forma- zioni interne della nostra facoltà rappresentativa»; ed è solo agendo e configurando l’opera nella sua concreta presenza, a sua volta offerta all’occhio, che l’artista ha la possibilità di assolvere a tale compito: «Il fatto che l’artista debba ricorrere a un’attività meccanica e sottoporsi alla faticosa elaborazione della materia per creare il visibile, si può spiegare considerando come la visibilità della natura resti dipendente e vincolata finché essa si presenta soltanto nelle percezioni o in un de- corso di rappresentazioni interne. Anzitutto, solo nell’attività l’interesse per la visibilitàdi una cosa può venir isolato al punto da cancellare senza lasciar traccia la rappresentazione di un oggetto in cui appare la visibilità, e trasformare la visibilità stessa in forma autonoma del- l’essere» 21.
4. Intuizione, espressione, attività
Croce ebbe a ridire anche sul soggetto che va pensato correlato a tale attività configurativa. Già nel 1902 l’Estetica aveva lamentato nella concezione fiedleriana della “compiuta visibilità” l’inclinazione a divaricare illegittimamente l’artista dall’uomo tout court: «Ciò che si desidera nel Fiedler e negli altri scrittori della medesima tendenza – scriveva Croce – è la concezione del fatto estetico, non come pro- dotto eccezionale di uomini eccezionalmente dotati, ma come attività di ogni istante dell’uomo, il quale non altrimenti possiede tutto ciò che possiede davvero del mondo se non in rappresentazioni, e in tanto conosce in quanto produce» 22.
Questo rilievo è tanto più significativo quanto più si consideri che si solleva a partire da una base condivisa sia da Croce sia da Fiedler (e da Brandi): configurare è conoscere, l’arte è una forma (non logi- ca, non concettuale) di conoscenza del reale. Scrive Fiedler: «Il non passare dall’intuizione all’astrazione non significa fermarsi a un livello dal quale non è ancora possibile entrare nel regno della conoscenza; significa piuttosto tenere aperte altre vie che conducono anch’esse alla
conoscenza e se questa è diversa da quella astratta, può comunque essere una conoscenza effettiva, ultima e somma».
Lamentare tuttavia, come fa Croce, la separazione di artista e uomo comune significa non comprendere che, come invece rileva Fiedler, non tutti gli individui formano la loro esperienza del reale allo stesso modo: «In particolari individui possiamo notare sin dalla prima gio- vinezza una differenza: alcuni, dal materiale offerto alla loro capacità di comprensione, si sforzano di ricavare concetti e applicano la loro attenzione alle interne connessioni causali che legano le apparenze;
altri per contro, non curandosi affatto di queste invisibili relazioni tra le cose, adoperano le loro facoltà intellettive per considerare lo stato esteriore dell’apparenza» 23.
Ma anche fra coloro che si mostrano votati più alle apparenze vi- sive che non alle astrazioni concettuali si danno sensibili differenze: il mondo delle immagini visive ci offre un caleidoscopio fluttuante di luci e colori cangianti che può risultare bastevole per l’uomo comune che si muove nel mondo di tutti i giorni, ma che accusa tutta la propria insufficienza all’occhio di una classe peculiare di soggetti, gli artisti figurativi. Questi avvertono l’esigenza di sviluppare quel caleidoscopio a una maggiore chiarezza, e per far ciò passano dall’intuizione (An-
schauung) del visivo a un gesto, a un’attività (Tätigkeit) che configuri
in una forma più chiara e coerente quanto era ancora oscuramente colto nella passiva percezione visiva; ad esempio fissando il contorno di una figura in un disegno.
Questo passaggio al gesto comporta fondamentali conseguenze. Innanzitutto, lungi dall’ammettere con Croce un’identità di intuizione ed espressione, occorre al contrario riconoscere che l’arte ha inizio solo nel momento in cui vien meno l’intuizione, di cui quella è dispie- gamento successivo verso un’ulteriore chiarezza: «Per quanto la cosa possa sembrare paradossale, bisogna dire che l’arte comincia soltanto quando cessa l’intuizione. L’artista non si distingue per una speciale attitudine intuitiva, perché possa vedere più, o più intensamente, degli altri, oppure perché i suoi occhi posseggano una speciale facoltà di scelta, di concentrazione, di trasformazione, di nobilitazione, di tra- sfigurazione, in modo da rivelare nei suoi prodotti le conquiste del suo vedere; egli si distingue invece per il fatto che una particolare attitudine della sua natura lo pone in grado di passare immediatamente dalla percezione intuitiva all’espressione intuitiva: il suo rapporto nei riguardi della natura non è un rapporto intuitivo, ma un rapporto espressivo» 24.
Parimenti respingendo l’identità crociana di intuizione ed espres- sione, Brandi avrebbe declinato il passaggio all’atto nei termini del movimento dalla fase della “costituzione di oggetto” a quella della “formulazione d’immagine”. Con una sfumatura diversa però rispetto a Fiedler: già nel percepire, e prima del configurare, il pittore rivolge
un’attenzione selettiva all’oggetto, non è neutro né accoglie ogni aspet- to dell’oggetto che guarda, bensì accentua alcuni elementi e ne trascura altri, avvalendosi di quella “facoltà di scelta” e delimitazione che ab- biamo sentito Fiedler vorrebbe negargli: «In questa delimitazione, che si muove dall’apparenza, rimarrà solo una parte ridotta dell’oggetto, solo certi caratteri che l’artista individua e antepone agli altri: ma se per lui divengono essenziali, non è detto affatto che siano i caratteri essenziali per formarsi il concetto della cosa, e neppure essenziali al modo di intuire immediato della cosa stessa». Questa stessa fase auro- rale, e non solo quella più propriamente configurante e oggettivantesi in un’opera della formulazione d’immagine, contribuisce a pieno titolo all’individuazione dello stile: «Lo stile del pittore non sarà solo nella sua pennellata, ma comincerà nella scelta dell’oggetto e via via prose- guirà in tutte le fasi che l’immagine dell’oggetto deve subire nella sua coscienza» 25.
5. Opera e operazione
L’accentuazione dell’operatività artistica, che abbiamo incontrato – fatte salve le differenze di cui abbiamo detto – tanto in Fiedler riguar- do al passaggio dall’intuizione all’attività quanto in Brandi riguardo al passaggio dalla costituzione d’oggetto alla formulazione d’immagine, ascrive i due teorici non solo a un’estetica della produzione (di contro a un’estetica della fruizione), ma anche a un’estetica del produrre (di contro a un’estetica del prodotto). Anche in questo caso il confronto con Croce è illuminante: se l’estetica crociana è tutta rivolta all’opera finita e compiuta, al risultato nella sua staticità – «l’oeuvre d’art n’est
pas une recherche, mais une réussite» 26–, quella brandiana è attenta alla
processualità, alla formazione, alle fasi preparatorie, alle condizioni che rendono possibile un certo esito figurale, alla formulazione appunto, più che al formulato: «La forma non è mai un resultato, è sempre una scoperta» 27.
Fiedler dal canto suo parlava espressamente di produzione dell’ope- ra nei termini di Leistung, di prestazione, di performance: collocando- si in una tradizione morfologica che lo precedeva (con Goethe) e lo avrebbe seguito (con Klee), egli opponeva la fissità della Gestalt come esito alla dinamicità della Bildung come movimento operativo e pla- smante. L’artista ha bisogno dell’opera per estrinsecare la sua esigenza di chiarezza e dispiegamento della visibilità; ma l’opera non va soprav- valutata e irrigidita nella sua compiutezza, poiché è pur sempre il prov- visorio e imperfetto documento di un’attività che è di per sé incessante e inconcludibile: l’attività artistica «non perviene mai a un’espressione esterna compiuta. L’opera d’arte non è la somma dell’attività artistica dell’individuo, ma un’espressione frammentaria di qualcosa che non può essere espresso in tutta la sua complessità. L’attività interiore che l’artista sviluppa spinto dalla sua natura si manifesta soltanto sporadi-
camente nell’atto artistico esterno, che non rappresenta il lavoro arti-
stico in tutto il suo svolgimento, ma soltanto uno stadio determinato.
Questo apre uno sguardo nel mondo della coscienza artistica in quanto
porta a espressione comunicabile visivamente una figura proveniente da quel mondo; essa tuttavia non esaurisce né conclude tale mondo. Come essa è preceduta da una attività artistica infinita, così può essere seguita da un’attività parimenti infinita» 28.
Perciò, così come sarebbe del tutto errato negare alle opere un ruo- lo fondamentale nella creazione artistica (riducendo, come avviene in Croce, l’oggetto concreto in cui si estrinseca il nesso intuizione-espres-