di Roberto Diodato
L’estetica di Brandi è, a me pare, davvero attuale, perché risponde, sulla base di un’eccezionale comprensione delle arti, con sottigliezza ana- litica e forza teoretica a problemi oggi assai dibattutie apre a ulteriori approfondimenti. Si tratta delle questioni classiche, tra loro intrecciate, di definizione e di ontologia dell’arte; per quanto concerne la defini- zione, siamo ormai addestrati a ritenere inutile la ricerca di un’essenza comune di quanto chiamiamo arte, riferibile a un�insieme o classe di proprietà, siano queste identificabili come qualità estetiche o come pa- rentele, funzioni di abiti o codici; d’altro canto, senza certo astrarre da condizioni storiche e contestuali, pare ormai chiaro che teorie istituzio- nali, funzionalistico-sintomali, storico-intenzionali, ermeneutiche e così via, non forniscono le condizioni sufficienti per evitare la dispersione in una concatenazione più o meno causale o contingente di atti e oggetti. A fronte di una differenza di ciò che chiamiamo arte forse confusamente ma comunque testimoniata dalle nostre pratiche, continua a non essere certificato il punto distintivo, punto sul quale Brandi si concentra im- plicando la questione ontologica, la questione della natura propria di ciò che chiamiamo opera d’arte. Se certamente il problema del ricono- scimento, e quindi della specificità, dell’opera d’arte è fondamentale in Brandi, esso non si pone né sul piano della considerazione storico-tenica delle operazioni artistiche intesa come reperimento di dati empirici detti artistici per via di abitudini culturali dai quali ricavare un aspetto co- mune, né viceversa sul piano della costituzione di un a priori estetico o definizione ideale capace di giustificare l’insieme o classe dei fenomeni artistici 1. Brandi imposta invece un piano metodologico corretto indi-
viduando a livello trascendentale le condizioni di possibilità estetiche dell’esperienza che rendono conto dello specifico artistico. Tali ricerca e individuazione delle condizioni, kantianamente orientata ma che procede oltre la posizione kantiana, si svolge a sua volta in due livelli connessi, l’uno, propriamente estetico relativo alle condizioni dell’esperienza di senso in generale, l’altro estetico-artistico che riguarda le possibilità del- l’esperienza di senso e ne permette l’esposizione e l’interpretazione delle sue potenzialità più profonde. I due livelli sono connessi fondamental- mente dalla questione dell’immagine e rilevati per via fenomenologica.
La dottrina che ho brevemente riassunto si dispone per approfondi- menti successivi, che sono ampliamenti e integrazioni e mai tradimenti, per tutta l’opera brandiana, e giunge forse a maturazione in Le due vie, testo che nella prima parte la espone in modo esemplare. In quel testo Brandi, com’è noto, prende le distanze dalle bipolarità insidiose per la teoresi sull’arte, bipolarità che tendono a produrre antinomie che altro non sono, strutturalmente, che apparenti circoli viziosi prodotti da un non sufficiente livello di comprensione. È questo, l’apparenza della struttura circolare, già un primo punto da tener fermo: Brandi se ne servirà per mostrare l’inadeguatezza di una semplice critica alle pos- sibilità di definizione dell’arte (come vedremo sarà necessario tornare sulla questione dei livelli di comprensione rispetto al punto notevole della temporalità non dell’opera, ma del plesso coscienza-opera). Le
due vie ricercano, in modo metodologicamente perspicuo e corretto,
l’origine delle molteplici bipolarità in una duplicità dei “punti di sta- zione” che non corrispondono, si noti, alle posizioni di “autore” e “spettatore”, e quindi a quanto potremmo sottomettere all’etichetta di un’estetica della poiesis (i celebri movimenti di costituzione d’oggetto e formulazione d’immagine sono momenti di analisi genetica della strut- tura) e di un’estetica della ricezione. I due punti sono invece l’essenza o struttura dell’opera e l’opera in quanto riconosciuta dalla coscienza o precisamente l’intercezione del momento della recezione. Era ed è, questo, certamente un discorso inattuale, perché siamo stati addestrati a conferire interesse sia da un lato alle estetiche della produzione sia dall’altro alle estetiche della ricezione; ma, a me pare, il punto di vista di Brandi è differente e non assimilabile a queste autorevoli, certamen- te rilevanti due vie percorse dall’estetica del Novecento.
Cercherò ora di delineare, in estrema sintesi, i due livelli fenomeno- logici ai quali ho fatto cenno, che a me sembrano costituire un momento strutturale della teoresi brandiana, attraverso l’analisi di pochissimi passi; ovviamente affrontare così in breve un’opera eccezionale per profondità e ampiezza esige almeno alcune premesse: innanzi tutto la sostanziale continuità della produzione filosofica di Brandi 2, sicuramente densa
di approfondimenti (si pensi all’emergere nella questione dello schema preconcettuale) e chiarimenti successivi, ma senza smentite rispetto ai risultati in precedenza raggiunti: le variazioni lessicali note ai lettori, più che innovazioni accentuazioni dell’uso di certi termini, credo siano da imputare soprattutto alla grande apertura intellettuale di Brandi, sempre attento a discutere le emergenze culturali dell’epoca, dal crocianesimo alla fenomenologia al gestaltismo, dallo strutturalismo alla grammato- logia; non mi dedico poi al gioco dei rapporti con correnti e filosofi, certamente interessante a livello di ricostruzione storiografica: è eviden- te, anche perché i testi lo esplicitano sempre con esemplare chiarezza, che Brandi è attento lettore di molti autori, classici e contemporanei,
e che alcuni tra questi stimolano la sua riflessione: è semplicemente quanto accade a chiunque tenti di pensare; il punto è che Brandi pensa in proprio, così che idee e termini di varia provenienza sono tradotti in un’ottica del tutto originale. Sono infine consapevole che per Brandi «ogni arte realizza il proprio processo artistico secondo specifiche opzio- ni concezionali, per cui la fenomenologia delle modalità immaginifiche di un particolare dipartimento non può essere estesa, tout court, per estensione analogica a tutti gli altri» 3, ma qui dovrò limitarmi ad alcune
considerazioni di carattere generale.
Riflettiamo ora su alcune righe di Brandi sulle quali ha attirato l’at- tenzione Luigi Russo in nota a un suo recente saggio 4. Si tratta di un
passo di Le due vie, che a me pare in perfetta continuità con le teo- rizzazioni precedenti e non smentito ma confermato e rafforzato dalla
Teoria generale della critica, in cui Brandi pone il problema del ricono-
scimento dell’opera d’arte, questione che incide non soltanto la critica d’arte e l’attività di restauro, ma anche la teoria della coscienza, del tempo, della materia e in generale l’ontologia brandiana, e rappresenta il livello estetico-artistico della possibilità del senso. Il passo, denso e importante, è il seguente: «Ma proprio in questo fatto, di manifestarsi solo nell’hic et nunc d’una determinata coscienza, si dà l’attestato della sua particolarissima struttura come essenza capace di rivelarsi. In quel momento stesso la coscienza storicamente determinata, che s’istituisce tramite, si riconosce anche come uno degli infiniti tramiti, nello stermi- nato ambito dell’intersoggettività, attraverso cui quella rivelazione può avvenire, se anche, ciascuna volta, nel foro interiore di una coscienza individuale» 5.
Certamente l’ottica è in cui si muove questo passo è “squisitamente kantiana”�6; ponendo al centro la coscienza procede infatti verso l’affer-
mazione della trascendentalità, la quale si pone come risultato dell’atto di riconoscimento permesso dalla presenza rivelante dell’opera. È da questo plesso riconoscimento-presenza allora che si dovrà prendere le mosse. Ma si può subito notare che Brandi oltrepassa, si potrebbe quasi dire, il problema forse più acuto della riflessione attuale sull’ontologia dell’arte: non si pone la questione se le proprietà che definiscono l’opera come tale, ammesso che esistano e siano identificabili, siano soggettive o oggettive, secondo tutte le declinazioni possibili di questa coppia op- positiva, ma piuttosto si domanda quali siano le condizioni di possibilità per cui un oggetto è opera o “fa opera”. La risposta avviene come rico- gnizione fenomenologica che porta a testimonianza una certa modalità intenzionale, un tipo peculiare di esperienza. Ciò comporta la possibilità di comprendere il plesso coscienza-opera a diversi livelli: a un primo livello si può affermare che una cosa non possiede di per sé la proprietà di essere opera d’arte, ma soltanto relativamente al riconoscimento che ne fa la coscienza: ciò non implica però che la proprietà di essere opera
d’arte sia priva di “oggettualità” 7; a un secondo livello si può affermare
che il riconoscimento dell’opera da parte della coscienza è la coscien- za stessa in una sua modalità di essere, poiché la coscienza, di per sé inoggettivabile, non è che un centro di atti intenzionali: ciò implica che l’opera d’arte sia la coscienza, cioè una modalità intenzionale, e insieme implica che sia altro dalla coscienza, il suo correlato noematico. A un ulteriore livello di comprensione si affermerà la struttura relazionale del plesso coscienza-opera, che non deriva dall’incontro tra polarità soggettiva e oggettiva, come se coscienza e “cosa che attende di essere riconosciuta come opera” fossero per loro conto previamente costituite, la prima con il suo parco di modalità intenzionali possibili, la seconda con le sue qualità proprie: bensì è “l’opera in quanto riconosciuta”: è cioè, dal punto di vista esperienziale, l’astanza, l’originario che permette di comprendere la coscienza come qualità specifica dell’intenzione e insieme l’opera come specifica funzione di senso. Brandi mostra bene cosa significhi astanza: astanza è realtà senza esistenza 8, realtà pura 9,
realtà massimamente concreta, realtà attiva presente 10: «L’opera d’arte
realizza una presenza, ma noi sappiamo che, nel realizzare una presenza, l’opera d’arte si pone al tempo stesso altra dal fenomeno. L’opera d’arte realizzando una presenza, che nell’atto del medesimo si distingue in modo radicale dalla presenza che realizza il fenomeno, pone il problema ontologico della differenziazione di queste due realtà, dove non c’è altro modo possibile di porsi come realtà, se non realizzando una presenza. Ma realizzare una presenza, porsi astante, è porsi in modo assoluto e originario» 11. L’astanza è una modalità intenzionale e al tempo stes-
so un modo di essere del mondo: Brandi esprime così perfettamente l’essenziale teoretico dell’intenzionalità come funzione di apertura che traduce il rapporto interno-esterno in relazione immanenza-trascenden- za o modalità di costituzione di presenza o ancora, per usare un altro linguaggio, come impossibilità di astrarre l’essere dalla comprensione dell’essere. Proprio dell’astanza, dell’esperienza realizzata da quella presenza che è l’opera, sono una peculiare temporalità, una peculiare determinatezza di senso della presenza, o significato puro della presenza, un peculiare rapporto con il nulla: tutti fattori della testimonianza di essere dell’opera, ovvero della risposta alla questione ontologica. Sono fattori in sintesi, di fatto non separabili, in quanto costituiscono l’unità dell’esperienza, ma l’analisi costringe a distinguere: partiamo dall’ultimo fattore, il rapporto col nulla. Le due vie è chiarissimo e molto profon- do al proposito: le opere d’arte, in quanto sono una determinata unità di esperienza, sono le cose “che non sono quello che non sono”: «le cose che non sono quello che non sono, sono le opere d’arte alle quali compete una realtà diversa da quella delle cose» 12, si intende le cose
“esistenti” o fenomeni 13.
Ora il termine “esistenza” significa la posizione dell’ente fuori dalla propria causa: ex-sistere è sistere-ex, cioè porsi in sé a partire da un
termine anteriore da cui si dipende, perciò il termine “esistenza” ha sto- ricamente significato il modo d’essere che conviene al possibile quando si trovi attualizzato: siccome qualsiasi ente dato all’esperienza sensibile, ordinaria e fenomenica sembra essere causato, così l’esistenza si presenta allo stato ovvio di ciò che è sfuggito alla semplice possibilità; ma da ciò non segue affatto che “essere” si confonda con “esistere”. Brandi mostra con chiarezza, nel notevole capitolo di Le due vie dedicato all’uso del principio di causalità nella critica d’arte e nella storia 14, come l’interpre-
tazione dell’esperienza secondo il mero principio di causalità non possa essere assunto nel suo significato apparentemente semplice relativamen- te all’essere qualitativo, o nesso coscienza-opera, che distingue l’opera d’arte; e mostra altresì la complicazione storico-teoretica del principio di causalità, del principio di identità, e del principio di ragione sufficiente, complicazione che consolida da un lato la posizione dell’identità del- l’ente (“le cose che sono quello che sono”) per cui «la ratio come causa risulta implicita nell’ente, sia considerato come ente sia come effetto» 15,
dall’altro procede al «facile scambio fra la struttura logica del giudizio e la struttura con cui si pensa lo svolgimento del reale» 16. Brandi in-
somma vede bene ciò che seguendo altre vie si potrebbe dimostrare17,
e che Brandi stesso sviluppa trattando il rapporto tra astanza e semiosi: determinate modalità intenzionali, determinate unità di esperienza mo- strano che l’ente non si riduce al suo aspetto concettualizzabile, alla sua identità come effetto posto da una causa in una catena ricostruibile di ragioni, a una posizione di “sostanza con proprietà” leggibile nei termini di giudizi predicativi; se vogliamo esprimerci con un linguaggio classico: l’ente, talvolta, non si dà come essenza (non essendo altro il concetto che la formula dell’essenza), ma esibisce la differenza dall’essenza che lo costituisce in essere, differenza 18 non propriamente definibile; non
si mostra esistente, o si mostra non esistente, affermando la sua at- tualità non concettualizzabile, sigillo dell’alterità, della singolarità, della irripetibilità. Da questo punto di vista l’opera d’arte è esibizione di una potenzialità dell’esperienza che è potenza dell’essere, e i momenti genetici della struttura dell’opera (in Brandi costituzione d’oggetto e formulazione d’immagine) possono essere intesi come modalità secon- do cui emerge, o si fa coscienza, il senso dell’essere come atto. Da qui possiamo risalire al significato della presenza, al suo darsi in purezza: presenza non come congiungimento di distinti fino a quel punto assenti, bensì come costituzione di distinzione, non alterità di positive diversità, ma alterità di partecipazione, di somiglianza, cioè, come si preciserà, di immagine; presenza, ancora, come relazione reale: non come enti che soli e con solo se stessi producano un insieme, ma come riconoscimento di un atto. Da qui l’eternità, che in Brandi non è negazione del tempo o fissazione di un istante che altro non sarebbe che un punto di un flusso temporale, di una catena di eventi segmentabile per numeri e nomi, ma attualità di partecipazione coscienza-opera che implica una compren-
sione non astratta della temporalità, una partecipazione che coagula la temporalità dei gusti, delle teorie, delle ideologie, delle aspirazioni che proprie del tempo storico sono precipitate nel presente hic et nunc di una determinata coscienza 19: nell’unità dell’esperienza del plesso inten-
zionale coscienza-opera, cioè nella struttura dell’opera, il tempo storico è colto finalmente nel suo ritmo, nel suo senso altrimenti segreto 20.
Abbiamo così considerato l’avvio del passo brandiano; resta da ve- dere il seguito, altrettanto significativo: «In quel momento stesso la co- scienza storicamente determinata, che s’istituisce tramite, si riconosce anche come uno degli infiniti tramiti, nello sterminato ambito dell’in- tersoggettività, attraverso cui quella rivelazione può avvenire, se anche, ciascuna volta, nel foro interiore di una coscienza individuale». Si coglie qui bene il piano trascendentale: ogni coscienza è storicamente deter- minata, è quindi empiricamente un’unicità distinta e un principio di distinzione, eppure nell’esplicazione di sé come orizzonte di manifesta- zione dell’opera, che è insieme manifestazione della potenzialità della coscienza come comprensività del senso della presenza, del tempo e dell’essere, la coscienza si comprende come quanto è comune alle possi- bilità della coscienza in generale, proprio restando sempre questa e non altra coscienza, foro interiore individuale. Brandi usa la parola “tramite” sia in senso sostantivo che in senso transitivo: la coscienza è la via, il sentiero in cui accade la manifestazione, e insieme è l’intermediario: in quanto funzione di mediazione è condizione di possibilità, in quanto luogo è una tra le infinite determinazioni storiche in cui e per cui la rivelazione accade. In sintesi, per Brandi l’opera d’arte è il punto unico personale e insieme intersoggettivo di un incrocio coscienza-realtà che come tale determina una specifica apertura temporale e spaziale in cui si danno in plesso coscienza e realtà nella forma di una peculiare strut- tura relazionale. Così che l’opera d’arte è propriamente questa struttura relazionale o chiasmatica e non esiste se non come relazione: perciò si può dire immagine in senso eminente. incrocio che è prima o al di qua di oggettivismo e soggettivismo, di idealismo e realismo, ma punto genetico del senso e vero senso comune che è apertura e condizione di possibilità di molteplici determinazioni.
Abbiamo così sommariamente esaminato il secondo tra i livelli di condizione di possibilità estetica dell’esperienza, quello propriamente estetico-artistico, riguardante le possibilità dell’esperienza della coscien- za in generale poiché nel riconoscimento dell’opera viene intenzionato, nella stessa determinatezza spazio temporale della coscienza, un senso che oltrepassa tale determinatezza, condivisibile da coscienze “altre”, ma, al livello trascendentale delle loro potenzialità, non “diverse”, e tale da costituire un modo comune possibile del loro esperire. L’altra, la prima, struttura trascendentale, rappresenta invece il livello propria- mente estetico e riguarda le condizioni dell’esperienza di senso in ge-
nerale. Si tratta della questione dello schema preconcettuale, trattato da Brandi in diverse opere almeno a partire dal Celso 21, e segnatamente
nello studio di apertura di Segno e immagine. È un luogo giustamente famoso della riflessione brandiana 22, ed è stato opportunamente da più
parti segnalata l’importanza di quel «collegamento diretto dello sche- ma col linguaggio» 23 (per cui lo schema è piuttosto ideogramma che
monogramma dell’immaginazione pura), assente in Kant, così rilevante e fecondo di applicazioni. Vorrei qui accentare un altro aspetto della questione dello schema, quell’aspetto propriamente estetico che rende lo schema preconcettuale condizione appunto estetica di possibilità del- l’esperienza di senso sia linguistica sia figurale, e quindi dell’esperienza come conoscenza in genere: tale aspetto estetico è rappresentato da una concezione profonda dell’immagine come origine dello schema, immagi- ne come “valuta aurea” che rende possibile lo schema, quindi la parola, quindi la conoscenza concettuale, ed è anche condizione di quell’imma- gine pura che è, secondo quelle declinazioni e modalità differenti che Brandi ha accuratamente spiegato nei suoi scritti, la struttura essenziale delle arti. Spesso si è insistito, con buoni motivi, sull’importanza dello schema, l’esigenza ineliminabile del quale ha, scrive Brandi, ricevuto conferma dagli studi della Gestalt-Psychologie; schema che si colloca “all’atto stesso della percezione”: «Si pone cioè, la rudimentale attività schematizzante, con cui realizza la percezione, come il germe stesso di ciò che diventerà intelletto. L’indissolubilità di intuizione e intelletto riceve allora una conferma all’atto primo della percezione» 24. E già
questa è una grande lezione: intendere lo schema come un punto di equilibrio, come il punto già per sua natura estetico in quanto plesso intuizione-intelletto o pensiero percettivo, in cui precipita e si stabiliz- za una sostanza conoscitiva comune al di là delle variazioni percettive, schema come luogo di tramite della percezione in conoscenza, perciò generatrice di parola nella sua fondamentale struttura, adatto a evolversi in concetto o in figuratività. Bisogna però ricordare che per Brandi l’im-
magine «rappresenta la valuta aurea a cui la parola, come carta moneta,
si riferisce: il concetto n’è il corso ufficiale; quotazione di mercato, lo schema preconcettuale» 25. È l’immagine la radice che costituisce il va-
lore del nostro ordinario commercio col mondo, si svolga esso in forme iconiche o discorsive, valore che si rivela finalmente nell’apertura della coscienza all’opera d’arte 26. Perciò se l’immagine sta alla radice dello
schema, non è fondamentalmente lo schema ad essere la condizione di