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Al di là dell’immagine, dopo Brand

Nel documento Cesare Brandi nel mondo delle scatole Brillo (pagine 174-184)

di Fulvio Carmagnola

Per me al di là è una condizione successiva, un “dopo” nel tempo storico e non un meta- nella trascendenza. In questo intervento mi pro- pongo di illustrare alcune situazioni contemporanee che a mio avviso illustrano una condizione al di là dell’immagine, come suona il titolo della presente sessione del convegno. Nella prima parte però vorrei brevemente mettere in luce che cosa a mio avviso si può intendere per

immagine nella ricerca di Cesare Brandi, e stabilire cosi alcuni punti di

orientamento, rendendo nello stesso tempo omaggio alla sua figura.

L’immagine in Brandi

Segno e immagine (1960) prende le mosse come è noto dalla rilet-

tura della nozione kantiana di schematismo. Lo schematismo è visto come «ceppo comune» e «stadio preconcettuale della conoscenza». Questo è il punto di partenza per definire il rapporto tra segno e im- magine che interessa allo studioso. Nelle parole di Brandi lo schema vale come «ceppo originario», «natività comune», da cui prende vita la differenziazione tra valore semantico (segno, scrittura) e «specularità» o «figuratività». Nello stesso tempo però Brandi enfatizza il rapporto con la percezione: lo schema deriva da un «prelevamento sul dato offerto dalla retina di particolari che generalizzano o sommarizzano l’oggetto».

Ora, in che senso si può intendere il carattere “originario”? Nello sviluppo del discorso di Brandi si presenta a mio avviso una sovrap- posizione di differenti livelli o piani che, per inciso, presenta anche il problema di una differenza rispetto all’impianto kantiano dello sche- matismo, su cui ora non è possibile soffermarsi:

– piano trascendentale: è quello che si richiama allo schematismo come “arte nascosta” di cui parla Kant, senza chiedersi il “dove” ma solo, diremmo, il “come”. Potremmo intenderlo come un dato di fat- to strutturale, una costante antropica primaria o anche un elemento funzionale di ciò che oggi si definisce “mente”;

– piano archeo-antropologico: è quello che spiega la nascita del- la scrittura dal pittogramma e di cui parla Brandi in particolare con

riferimento alla civiltà egizia e alla preistoria. Queste interpretazioni dell’origine pittografica non convenzionale del segno sono state riprese più recentemente ad esempio da Carlo Sini (Sini, 1989);

– piano psicologico e ontogenetico: la formazione del bambino che schematizza, talché i suoi “disegni” in realtà sono “segni”, sostiene Brandi (in accordo con Montessori e riprendendo alcuni dei teoremi della Gestalt). Da questo piano soprattutto emerge il carattere gnoseo- logico o cognitivo – non specificamente estetico – dello stadio iniziale di indistinzione sotto forma di schema.

Avremmo quindi una triplice forma di originarietà: strutturale, storica, ontogenetica. Ne derivano due definizioni complementari di

immagine e segno che potremmo così sintetizzare.

IMMAGINE: è una riproduzione che ha origine come “prelevamen- to”, la cui base è la percezione, e in cui opera una forma di intenziona- lità cosciente che nel corso dell’evoluzione (storica? genetica?) si diffe- renzia dalla coalescenza con il segno specificandosi come “specularità” o “figuratività” e giungendo alla sua completezza come “forma pura”. Il suo pèras è l’opera d’arte figurativa, prima dell’avanguardia.

SEGNO: pur avendo un’origine comune nello schematismo come fase “preconcettuale”, il segno è definito in rapporto alla funzione di comunicazione e in contrapposizione alla raffigurazione/rappresentazio- ne (p. 58). Il segno ha in comune con una definizione fredda e opera- zionale di simbolo una caratteristica: «nessuna relazione organica» con il significato (p. 69). Si tratta di «una visione che sollecita l’interprete» (p. 73) e c’è sempre in atto una funzione segnica quando «l’immagine induce la coscienza ricevente a diventare interpretante».

Dunque: c’è immagine quando non c’è interpretazione. Segno e im- magine nella loro reciproca raggiunta maturità devono restare distinti e «pensare per immagini […] è piuttosto un non-pensare» scrive Brandi con riferimento alla civiltà egizia e al suo “arresto”. D’altra parte non c’è art autre, «diversa da quella che si fonda nell’immagine» (ivi, pp. 80-81). Entrambe queste affermazioni avranno conseguenze di straordi- naria portata per l’interpretazione delle vicende del contemporaneo.

Possiamo trarne un’altra conclusione, assiologica (come puntualizza Paolo D’Angelo nella sua postfazione): per Brandi c’è una declina- zione legittima e una illegittima del rapporto. Più precisamente, nella declinazione legittima il segno è un significante che deve riempirsi, e il cui paradigma è rappresentato dal segno linguistico. È segno, in una definizione estensiva, qualunque presenza percettiva sia in grado di entrare in rapporto di interpretazione (domanda, enigma, richiesta di senso) con una coscienza interpretante, anche quando si presenta come materialità plastica.

Nella declinazione illegittima invece il segno per cosi dire ritorna alla confusione o indistinzione originaria o vi si blocca (l’arresto del- la civiltà egizia ne è la figura chiave): «Ogni qualvolta la distinzione

strutturale tra segno e immagine si offusca, è sintomo di una grave

alterazione, che […] minaccia e inceppa gli ingranaggi della civiltà» (ivi, p. 87).

Oggi questa declinazione si presenta nella veste del «significante puro», ma anche dell’astanza o dell’evento (riferimento a Burri, ivi p. 87). Il significante puro e l’astanza per Brandi decadono a segno, non sono mai nulla più che segno, questa è un’importante conclusione

tranchant.

Nelle analisi specifiche però la sensibilità fenomenologica e la ca- pacità di accostarsi alla concretezza delle opere sembrano prevalere su una certa rigidezza dell’impianto teorico e l’assiologia si stempera. L’interpretazione del non-finito in Cézanne (1979) è caratteristica da questo punto di vista e merita di essere brevemente richiamata.

Innanzitutto: che cos’è il non finito? Non è un artificio «naturali- stico» scrive con decisione Brandi, «per intensificare la verità ottica» – ovvero con Cézanne siamo già ai margini di quella che Duchamp de- finirà «pittura retinica». È però sempre un “processo formale” – quin- di ancora appartenente all’immagine e non ancora al segno – ma nello stesso tempo, scrive Brandi nel finale del saggio, segnala un cammino ormai «inevitabile» (p. 51) sulla strada della devoluzione dell’immagine verso il segno. Dunque si tratta di «un processo formale – che attiene alla spazialità dell’immagine – che affiora […] da quel sistema […] che non segue l’andamento plastico suggerito dalla conformazione dell’og- getto – ma lo costruisce con tasselli di colore – quasi tessere musive» (Brandi 1979, p.45).

Diremmo: è costruzione e non rappresentazione, quindi già va in direzione dell’“intellettualismo” che caratterizza il contemporaneo. Nello stesso tempo vi appare ancora l’operazione conoscitiva tipica dello schematismo. Il fondo non-finito pertiene ancora all’immagine ma come «ordito di luce» che si combina alla «trama» della pittura «trasparente» e va in direzione inversa alla finzione rappresentativa tra- dizionale: verso l’interno, nella profondità virtuale del quadro, invece che verso lo spettatore (p. 46).

E ancora: «non c’è distanza focale fissa» (p. 48), ovvero si perde la misura normativa della prospettiva tradizionale (la differenza con Velàzquez è messa in rilievo da Brandi) anzi si potrebbe dire che il quadro va “brucato” – come avrebbe detto Klee – ovvero ha una dimensione aptica. Quindi c’è una sorta di decostruzione della «im- magine naturale» (p. 50) o di de-naturalizzazione.

In questo modo ci si avvicina al “motivo” – e vorrei segnalare qui una singolare somiglianza: sarà Gilles Deleuze a riprendere la no- zione di “motivo” nella sua lettura di Bacon. Allora forse potremmo dire, per inciso, che Bacon (riletto sovrapponendo Deleuze a Brandi) decostruisce Velàzquez nella direzione di Cèzanne cioè si impossessa di un implicito aspetto comune e lo rende esplicito. O addirittura,

forse, che il Bacon di Deleuze diventa un interprete (post)cézanniano di Velázquez…

Questo cammino “irreversibile”, che Brandi vede drammaticamente presente nel pittore provenzale, rende possibile tutto quel che segue: il contemporaneo. Non a caso Brandi parlerà di «pericolosi isotopi dell’immagine» scoperti o creati da Cézanne. Dove l’uso del termine “isotopo” suggerisce una somiglianza di famiglia rispetto al nucleo principale, e insieme una sorta di deragliamento. Potremmo aggiungere: il contemporaneo dopo Cézanne sarà al di là /al di qua dell’immagine (nel senso in cui la intende Brandi), ma non coinciderà mai più con quella norma dell’immagine pura, che caratterizza l’equilibrio (storico, genetico, cognitivo, formale).

Nel de-rassomigliare Brandi coglie cosi la deriva dell’immagine nel contemporaneo. Detto anacronisticamente, ancora in una tonalità de- leuziana: l’immagine complessiva della Sainte Victoire di Cézanne è data non dalla rassomiglianza, ma dalla ripetizione e dalla differenza che circolano nell’intera serie dei dipinti, ovvero in quell’oggetto (x) che si costituisce proprio in modo differenziale nelle 87 ripetizioni. Il soggetto, il referente, scompaiono cosi nel “motivo”. Se lo leggiamo in questo modo, Brandi ci si è avvicinato moltissimo, a mio avviso – ma, appunto, con un’assiologia radicalmente differente.

Per Brandi dunque il segno usurpa l’immagine ogni volta che, anche attraverso il materico o il post-figurativo, si presta a un’ope- razione di interpretazione divenuta necessaria, data la non-eloquenza dell’immagine. Il culmine di questa situazione è visto, quasi come un paradigma del presente, nella pura “astanza” di Burri, punto finale di questa de-voluzione.

In ogni caso è evidente che in Brandi c’è un implicito modello di dinamica evolutiva o meglio devolutiva, che implica certamente un giudizio di dis-valore. Quali sono le sue conseguenze per l’interpreta- zione del contemporaneo?

In sintesi:

– al di là dall’immagine c’è una nuova involuzione che si presenta come coalescenza sotto il dominio del segno, o come forma di “inter- ferenza” (D’Angelo);

– non possiamo pensare questa situazione se non come perversione o stato illegittimo. Brandi usa a questo proposito un insieme di locuzio- ni estremamente significative: «isotopi pericolosi» (in Cézanne), «punto di caduta» (il presente dell’informale), «grave alterazione» ecc.;

– l’arte contemporanea va letta allora come “esponente” o sintomo di un decadimento dell’immagine che è anche un decadimento della “civiltà”;

– infine, questa situazione critica è combinata con uno scenario ripreso da Heidegger, e che nel nostro linguaggio potremmo definire come “fordista” o industriale-classico: è l’epoca della tecnica come

predominio della macchina disumanizzante, governo dall’alto, massi- ficazione (Segno e immagine, cit., pp. 92-93).

Al di là dell’immagine, oggi

Come può essere pensata oggi questa forma di “interferenza” ri- spetto all’estetica nel contemporaneo? Cerco di dare una risposta a questa domanda delineando sommariamente, in una sorta di fenome- nologia empirica, alcune situazioni del presente che si trovano, sia dal punto di vista estetico che dal punto di vista più generalmente culturale, al di là dell’immagine, e che ci pongono anche la questione di quanto la teoria dell’immagine di Brandi sia in grado di descrivere e di tener conto di questa realtà. La mia descrizione riguarda cinque situazioni.

A – Il sublime o l’immagine di ciò che non ha immagine. Il sublime è l’oltrepassamento della forma, un «penetrare nel semplice fondo, nel silenzioso deserto dove mai la distinzione ha gettato uno sguardo» (Meister Eckart). E tuttavia, osserva Baldine Saint Girons, c’è qualcosa che lo accomuna allo stato estetico, almeno il suo essere comunque mondano, oggetto di esperienza: «il sublime non si situa in una sfera stabile ed eterea: è quaggiù che si dà a noi […] come una sorta di vertigine che destabilizza il mondo circostante, ci dissocia dal nostro abituale punto di vista e ci rende sensibili a una causalità superiore […] un’esultanza […] L’inappropriabile sembra alla nostra portata» (Fiat Lux, tr. it. p. 350).

Il sublime pare corrispondere a quello stato cognitivo che in psi- cologia è definito come breakdown. Ma in quanto stato estetico? La sua definizione è quella di una condizione di crisi o meglio di disastro dell’immaginazione, la facoltà capace di ricondurre a unità il sensibile; stato liminare o «effrazione» del terreno tradizionale dell’estetico, che «appicca fuoco al bello affinché il bene ti ritorni dalle sue ceneri» (Lyotard, Anima minima, tr. it. p. 78). C’è una vicinanza con l’etica, che Lyotard sottolinea più volte. Su altro versante, si presenta però anche la vicinanza con il Male, il male assoluto: il sublime confina con il divino e con l’orrore, con ciò che non si può vedere/dire/mostrare. Sue manifestazioni possibili sono la presenza dell’esorbitante, rispetto alle possibilità di comprensione entro una forma (la figura bianca nel finale di Gordon Pym), o all’opposto, una forma che si sdefinisce fino al limite del quasi-nulla, dell’invisibile (come nelle opere di Anish Ka- poor). O ancora, possiamo pensare all’efficace immagine del deserto (Baudrillard, L’America), assenza assoluta. O alla presenza straniata di un sacro che si sottrae alla rappresentazione iconica in un’epoca poste- riore alla morte del divino (Rothko). Si tratta comunque dell’immagine

di ciò che non ha immagine e presuppone una trans-propriazione del- l’estetica, in cui però qualcosa resta pur sempre presentabile: «l’inade- guatezza […] la dismisura» (Lyotard, Anima minima, p. 108).

L’estetico si transpropria qui in direzione della sdefinizione della forma o del riconoscimento di un territorio al quale la forma può essere tangente ma che non può ricoprire/esaurire.

B – Il segno-astrazione o l’immagine come nuovo valore-di-scambio. Si tratta in questo caso di passare dallo scenario fordista e moderno a quello postfordista dove l’esperienza estetica consiste in una forma di «trasgressione intrinseca» del circuito economico degli scambi (Zi- zek) e dove «il consumo della libido (diventa) nuovo valore aggiunto» (Camille Dumoulié). In questa situazione le manifestazioni tipiche del- l’estetica passano dall’arte a altre pratiche: design e moda, per esem- pio. Come Brandi intuiva in un breve passaggio a proposito della «carrozzeria delle automobili», dove l’immagine diventa «slittamento sotto il regime del segno» (Segno e immagine, p. 93), il design diventa perversione dell’immagine ma anche, nella mia terminologia, valore immaginario (e operativo) che è la nuova forma dominante del valore di scambio. È una situazione ambigua che può essere letta enfatica- mente e ideologicamente come “liberazione delle merci dal loro valore mercatile” e ricettacolo di desideri e valori – mentre in realtà si tratta non di una dis-economizzazione ma di un’estensione della nozione di valore economico al dis-economico.

Questa situazione implica però una critica che non può più presen- tarsi come ritorno alla forma pura dell’immagine presentazionale, ma come una trans-propriazione dell’estetica in una critica dell’economia politica estesa alle forme estetizzate che l’immaginario assume nella merce. un aspetto tematizzato da Baudrillard già negli anni settanta (Baudrillard 1972, tr. it. 1974).

C – Il reale o l’ossicino nella gola. È una situazione nella quale l’immagine diventa produzione del dis-simile; alcune sue manifestazioni possono essere cosi enunciate: il qualunque (al di sotto del valore for- male minimo: sub-realismo); la carne viva (al di sotto del corpo come forma: da Bacon a numerosi artisti contemporanei che rappresentano la “passione per il reale”); l’orrore della macchia cieca (l’enigma de

Gli Ambasciatori di Holbein); l’informe è «un’immagine che riassume

ciò che possiamo chiamare la rivelazione del reale […] si tratta di un

dissimile essenziale […] e che è l’immagine della dislocazione , del-

la lacerazione essenziale del soggetto» (Lacan, Seminario II, 1954-55, corsivi miei).

Il reale entra dunque nell’estetico sotto forma di testa di Medusa, di produzione di situazioni di “angoscia”. Nel cinema: l’orecchio moz- zato di Lynch, le ultime parole di Kurtz in Apocalypse Now... Ma si

può ricordare che nella modernità c’è già il motto di Baudelaire: «Tra i tuoi gioielli (o Beltà) l’orrore non è il meno affascinante».

In questa terza situazione, l’estetica si trans-propria nell’informe- visibile, “ossicino nella gola” che preclude la chiusura della forma in immagine. Nello stesso tempo, è possibile re-importare il reale dell’or- rore nell’immaginario, un’operazione che rientra nelle strategie dell’im- magine come nuovo valore di scambio (punto precedente). Lo stesso orrore diventa cosi ambiguo: le foto di Toscani con le immagini dei cuori strappati o del malato di AIDS, ma anche: la distruzione di New York “immaginata” al cinema che precede quella reale. Reale e finzio- ne-del-reale si scambiano continuamente e ambiguamente di ruolo.

D – L’immaginario o il fantasma o il simulacro. Come è noto, Bau- drillard definiva a suo tempo il simulacro un’immagine senza corri- spondenza, che realizza una sorta di “precessione” rispetto al suo refe- rente svanito. Su questa base potremmo definire l’immaginario come il dominio delle immagini senza referente, fluttuanti nello spazio mediale: immagini-di-nulla o di qualunque cosa , indifferentemente accoppiabili con referenti variabili o inesistenti che violano proprio la condizione essenziale posta da Brandi, la precedenza del sensibile e il successivo “prelevamento”.

In questa dimensione l’immaginario si contrappone al simbolico, che Heidegger definiva come «ciò che tiene in reciproco legame». Si può anche pensare alla nozione lacaniana di oggetto a o fantasma: un oggetto qualunque che ricopre la posizione di “causa del desiderio”. L’oggetto a «[…] non è ciò che desideriamo […] ma piuttosto ciò che mette in moto il nostro desiderio, nel senso dello schema formale che conferisce consistenza al nostro desiderio […] un insieme di caratte- ristiche fantasmatiche (del desiderio) che quando sono accumulate in un oggetto positivo ci fanno desidera quell’oggetto. L’objet petit a, in quanto causa del desiderio non è altro che questo schema formale di consistenza» (Zizek, L’epidemia dell’immaginario).

In questa occorrenza dell’al-di-là, l’estetica si trans-propria dunque nella figura enigmatica di forme-simbolo della merce, in opere come quella di Ashley Bickerton che mima ironicamente l’invasione delle marche, dei marchi commerciali, e la loro appropriazione dello spazio del corpo e della persona. L’arte mima la merce fino all’ironica opera- zione del cover (Senaldi, 2004).

E – Il contatto o l’immagine-testimone. In questa dimensione l’im- magine ha essenzialmente un compito etico (Didi-Huberman, 2003; Montani, 2004). L’estetica si trans-propria nell’etica, il problema è come lo può fare restando se stessa. L’immagine-testimone individua una zona di contatto con il reale sotto forma di «immagine-lacuna […] un’immagine-traccia e un’immagine-sparizione al tempo stesso

[…] testimone di una sparizione e al contempo resiste ad essa» (Didi- Huberman, cit. p. 206)

Di questa immagine-testimone vorrei ricordare un esempio che ho già proposto in altre occasioni: l’opera di Dennis Del Favero Motel

Vilina Vlas (2000). L’opera è composta di due strati sovrapposti: uno

strato visivo e uno strato testuale che riporta un frammento del verbale di interrogatorio di un imputato nei processi successivi alle vicende della guerra serbo-bosniaca. Le immagini sono riprese al di sotto del- la distanza focale, e quindi sono letteralmente “immagini informi”. Ci lasciano capire un reale fatto di corpi viventi violati, ma non ne possiamo decifrare la figura complessiva. E dunque è impossibile ri- costruire l’intero, in un’emergenza dell’orrore che le accomuna alle immagini di Auschwitz di cui parla Didi-Huberman, specie estrema di oggetti parziali, appunto. Queste immagini stanno tra il vedere e il non vedere, sulla soglia dell’insostenibile. La loro sequenza non è “totalizzabile”, sfugge alla diegesi e produce una domanda che resta senza risposta, finché il collegamento con le ri-concatenazioni della parte testuale – dei segni linguistici – non permette di discernere il senso. Non nella percezione diretta, ma solo nella lettura delle frasi del testo (una per ogni pannello) appare allora un senso che rivela e spiega il senso delle immagini informi: la pulizia etnica, gli stupri, l’as- sassinio ci assalgono come un reale insopportabile, proprio attraverso la coalescenza tra immagine e testo.

Di queste immagini dunque non si può dire che siano pura frat- tura, significante alla deriva. La forma dell’intero è violata ma questa violazione porta alla luce qualcosa che nella forma intera, completa – nella completa visibilità – non sarebbe cosi eloquente. Sono il punto in cui l’opera può sporgersi oltre se stessa e dire altro. Per questo sono propriamente immagini al di là dell’immagine.

Brevi considerazioni conclusive

Questi cinque domini – il sublime, il valore, l’informe, il simulacro,

il testimone – hanno tra loro significativi punti di contatto. Inoltre

ognuno di essi implica un’uscita dal terreno tradizionale dell’estetica. In tal senso la diagnosi di Brandi si rivela corretta (a parte il suo giu- dizio di valore). Ognuna di queste circostanze allarga dunque il gioco dell’estetica, lo rende più difficile e ne aumenta le responsabilità criti-

Nel documento Cesare Brandi nel mondo delle scatole Brillo (pagine 174-184)