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Unità oggettuale e unità immaginale dell’opera d’arte

di Fabrizio Desideri

È possibile pensare l’unità dell’opera d’arte, evitando sia di privile- giare un qualche linguaggio artistico sia di abbracciare una prospettiva essenzialista? Se sì, a quali condizioni? In quanto segue cercherò di rispondere positivamente alla prima domanda, nella convinzione che dalla possibilità di pensare l’unità dell’opera d’arte, senza sacrificare l’evidente differenza delle sue manifestazioni oggettive, dipende anche quella di definire l’identità dell’arte, al di là di ogni morte presunta o annunciata. La mia tesi è che noi comprendiamo qualcosa dell’ar- te solo a partire dall’esperienza di opere effettivamente esistenti. Per questo si tratta di rovesciare la prospettiva contenuta nel famoso sag- gio heideggeriano su L’origine dell’opera d’arte: è l’opera a costituire l’origine dell’arte e non viceversa.

Sullo sfondo di tale tesi ne stanno altre tre: (1) non c’è identità di qualcosa o qualcuno se non in virtù del suo raccogliersi in una qualche forma di unità, che persiste nonostante ogni variazione e diffe- renziazione; (2) è dal nesso ‘oggettivo’ tra unità e identità che dipende la possibilità di pensare l’organizzazione categoriale dell’esistente; (3) l’esistente (il mondo) si presenta differenziato in virtù di stabilizzazioni selettive, anteriori ad una rigida dicotomia tra soggettività e oggettivi- tà. Non è questo il luogo di sviluppare e difendere queste tre tesi di diretta rilevanza epistemica e ontologica. Qui mi limito semplicemente a presupporle.

Ritornando alla domanda iniziale, intendo anzitutto contestare quanto sostenuto da Peter Kivy nel suo Philosophies of Arts. An Es-

say on Differences. In questo libro, che può essere assunto ad esempio

significativo di una tendenza teorica di un certo peso nell’estetica con- temporanea, l’autore ritiene che bisogna rinunciare ad una determi- nazione unitaria di che cosa un’opera d’arte è, a favore dell’esplorare le costitutive differenze delle arti 1. Lo spettro che combatte Kivy è

quello dell’essenzialismo. Una tesi non essenzialista, che sottolinea la radicale eterogeneità tra i diversi linguaggi artistici, potrebbe anche coesistere con la presupposizione di una vaga credenza sociale, storica- mente effettiva, intorno a cosa ci si attende da un’opera d’arte. Questa tesi sancirebbe, però, una scissione tra un’accezione generica di arte

(una sorta di indefinita pre-comprensione) e la penetrazione filosofica delle arti, di volta in volta in volta analizzate iuxta propria principia: secondo i linguaggi, le forme e i problemi immanenti alle differenti pratiche artistiche.

A una posizione scettica circa il problema classico di definire una qualche unità dell’arte (e quindi dell’opera), nonostante le innegabi- li differenze delle sue manifestazioni, potrebbe dar conforto storico un’altra tesi oggi abbastanza diffusa: quella circa la smaterializzazio- ne dell’opera d’arte nell’epoca dei flussi digitali della comunicazione. Anche indipendentemente dall’ars electronica in senso stretto si assi- sterebbe, secondo questa tesi, ad un’irreversibile frammentazione e delocalizzazione dell’unità dell’opera d’arte. Ciò avrebbe almeno due rilevanti conseguenze per la tradizionale concezione dell’opera d’arte come formazione autoconsistente: (1) il progressivo venir meno del- la distinzione storicamente stabilita tra autori e lettori, produttori e spettatori, creatori e interpreti a favore di «un continuum di lettura- scrittura che va dagli ideatori di macchine e reti fino ai ricettori finali e viceversa»; (2) la tendenziale cancellazione del confine tra i messaggi e le opere, da intendersi come «microterritori attribuiti ad autori». Da tali conseguenze risulterebbe un’epocale trasformazione del fatto arti- stico, espressa da Pierre Lévy nello slogan «dall’opera al dispositivo» 2;

una trasformazione, nella quale l’unità dell’opera d’arte verrebbe a dissolversi in una pragmatica diffusa di creazione e comunicazione, in distribuzioni nomadi di informazioni fluttuanti su un immenso piano semiotico deterritorializzato.

Stando alla tesi di Lévy, si stabilirebbe dunque un nesso di stret- tissima interdipendenza tra la dissoluzione dell’unità dell’opera d’arte dal punto di vista teorico e la pervasiva dilatazione di processi estetico- comunicativi dal punto di vista socio-storico. Il modello ludico-interat- tivo che caratterizza net-art e video-games farebbe insomma esplodere l’unità dell’opera in frammenti immaginali stocasticamente percepiti e/o prodotti. Questa tendenza non si limiterebbe alla sfera dell’arte digitale, ma coinvolgerebbe in maggiore o minore misura anche arti fortemente connotate in senso oggettivo-materiale come l’architettura (con l’attuale enfasi, ad esempio, sulla dimensione scenografica a sca- pito di quella tettonica 3).

Le due tesi cui mi oppongo (quella che risponde scetticamente al problema classico dell’unità delle arti e quella che diagnostica la dissoluzione dell’artistico a favore dell’estetico) si alimentano dunque a vicenda, facendo perdere di vista il senso specifico della funzione artistica nel complesso delle attività umane e l’interna connessione tra tale funzione e l’esistenza di opere, presenti nel nostro mondo come oggetti unitariamente definiti. Ciò rende necessario pensare di nuovo tale connessione. Anzitutto, per il motivo che è proprio l’unità ogget- tuale dell’opera d’arte a farci capire, in maniera per così dire esem-

plare, la coappartenenza e codeterminazione di mente e mondo nella forma di un intreccio, che non è mai pura e semplice confusione 4. In

secondo luogo, perché è proprio all’interno dell’effettività dell’intreccio tra mente e mondo che l’opera d’arte può esibire un senso dell’im- magine non riducibile né al suo carattere fisico-percettivo né ad una pura fantasmaticità.

Per rispondere in maniera positiva al nostro problema dobbiamo dunque accettare la sfida della smaterializzazione e delocalizzazione dell’opera d’arte, pensandone sul serio il carattere di immagine. Quella circa il carattere di immagine di ogni opera d’arte è una tesi avanzata da Adorno nella Teoria estetica, in evidente rapporto con l’affermazione che l’opera d’arte «è res che nega il mondo delle res» 5. Singolarmente

anche Heidegger, nel già citato saggio su L’origine dell’opera d’arte, parte dal carattere di cosa dell’opera d’arte, per poi negarlo. Non lo fa, però, in maniera radicale, continuando ad opporre l’ostinatezza cosale dell’opera d’arte alla sua dissoluzione psicologico-estetica nell’orizzonte immediato dell’Erlebnis.

Ma torniamo a quanto sostiene positivamente Adorno circa la natu- ra delle opere d’arte: «Come “apparition”, come manifestazione e non come copia, le opere d’arte sono immagini. Se attraverso il disincanto del mondo la coscienza si è liberata dell’antico brivido, questo si ri- produce però permanentemente nell’antagonismo storico di soggetto e oggetto. L’oggetto è divenuto così incommensurabile, estraneo, pau- roso all’esperienza, come una volta fu solo il Mana. Se l’apparition è lo sfavillio, l’esser toccato, allora l’immagine è il tentativo paradossale di avvincere questo massimo di fuggevolezza. Nelle opere d’arte un elemento momentaneo arriva alla trascendenza; l’obiettivazione rende l’opera d’arte attimo» 6.

Cosa intende Adorno con questa identificazione-unificazione del- l’opera d’arte in immagine? Posto che qui il termine è consapevolmen- te distinto da “figura” e da ogni altra immagine artificiale, si tratta di pensare l’estensibilità del carattere di immagine ad ogni opera d’arte, in connessione con la dimensione dell’apparition. L’immagine, in questa estensione, è quanto l’opera d’arte, in quanto obiettivazione, manifesta. Ciò equivale a dire che l’opera si mostra unificandosi in immagine.

Per poter sostenere il carattere di immagine dell’opera d’arte biso- gna, però, delineare una teoria più ampia o, perlomeno, tentare una definizione minimale di opera d’arte (quella che Schaeffer chiama una «nozione prototipica» 7), dove il suo carattere di immagine si possa

giustificare. La questione è abbastanza intricata: il problema di una definizione non normativa e pur tuttavia esplicativa di “opera d’arte” è – come sappiamo – oggi al centro di un intenso e non pacificato dibat- tito, in particolare nell’area della riflessione estetica cosiddetta analitica. Tra le soluzioni maggiormente dibattute se ne possono individuare, come tipiche, almeno cinque: (1) quella scettico-wittgensteiniana di

Morris Weitz, secondo la quale è logicamente impossibile fornire una definizione dell’arte: quanto possiamo fare è piuttosto rilevare somi- glianze di famiglia tra un’opera e all’altra (ferma restando la non tran- sitività dei tratti comuni individuati); (2) quella semiotico-sintomatica di Nelson Goodman (dove si tratta di rilevare quando qualcosa fun- ziona come arte); (3) quella istituzionale di George Dickie; (4) quella filosofico-interpretativa o post-tradizionale di Arthur Danto; (5) quella storico-intenzionale di Jerrold Levinson.

Non è questo il luogo per entrare nei dettagli di ciascuna di queste soluzioni. Osservo soltanto, limitatamente alla soluzione “wittgenstei- niana” di Weitz 8, che una lettura puramente empiristica della nozione

di “somiglianze di famiglia” può facilmente sfociare nello scetticismo. Se concetti come quelli di gioco, di gioco-linguistico o di opera d’arte sono aperti, ovvero non hanno dei confini rigidi nel senso di Frege 9,

da ciò non è affatto lecito trarre la conclusione che non si ha comun- que una qualche nozione, pur intuitiva e vaga, dell’unità d’immagine della famiglia di volta in volta in questione e anche – perché no? – di cosa si intende per famiglia. L’errore, a tale riguardo, consisterebbe nel voler determinare tale unità d’immagine (la comprensione, di volta in volta, di una certa ‘aria di famiglia’) in una precisa foto di gruppo (una figura) o, alternativamente, in un modello concettuale definito, a cui guardare preliminarmente (con gli occhi del pensiero) come al criterio necessario alla rilevazione di una qualche somiglianza. La definizione che proporrò non deve, perciò, valere come un criterio concettuale a priori capace di discriminare un’opera d’arte da ciò che non lo è; var- rà, semmai, come la condizione di possibilità interna all’effettività del suo riconoscimento e della sua produzione. Per questo il suo carattere, nella sua origine riflessiva, è quasi trascendentale: non sta prima, ma dentro l’effettività dell’esperienza.

La prima mossa del mio tentativo di definizione consiste, però, nel sostenere che prima di essere un’immagine, di unificarsi in un’imma- gine metasensibile, che si mostra o manifesta esteticamente (spesso nella modalità di uno choc percettivo), ogni opera d’arte è anzitutto un oggetto e, dunque, è caratterizzata da un’unità oggettuale anteriore alla sua manifestazione estetica. Per poter sostenere ciò in maniera da comprendere ogni genere di opera d’arte, quale che sia il suo medium percettivo e il suo linguaggio, bisogna separare nettamente l’identi- ficazione dell’oggettualità dell’opera d’arte dalla nozione di cosalità, come oggetto materiale spazio-temporalmente determinato. Già a que- sto proposito, sia la riflessione fenomenologica husserliana sia quella di autori interni alla scuola fenomenologica (come Conrad, Geiger e Ingarden) o prossimi alla sua tematica, seppur con una posizione ori- ginale (come Hartmann) 10, offrono gli elementi per una teoria del-

l’identità dell’opera d’arte più sofisticata e internamente articolata di quella heideggeriana, nella quale tra il carattere di cosa, e poi di mezzo

dell’opera d’arte e il suo carattere Welterschliessend stanno solo le de- terminazioni categoriali della tradizione (come la coppia forma/conte- nuto), subito considerate del tutto inadeguate a pensare il Kunstwerk nella sua “provenienza essenziale” (nella sua origine).

L’indubbia virtù di quella che si potrebbe chiamare con qualche approssimazione ‘tesi fenomenologica’ sta proprio nell’asserire che l’unità oggettuale dell’opera d’arte è reale senza essere una cosa. A questa tesi si potrebbe obiettare che corre sia il rischio dell’essen- zialismo (facendo coincidere l’unità oggettuale dell’opera d’arte con la sua essenza) sia quello del mentalismo (riducendo tale oggettualità all’intenzionalità della coscienza). Entrambi i rischi potrebbero essere

attenuati (se non evitati) applicando alla consistenza e coerenza ogget- tuale dell’opera d’arte la dottrina hartmanniana degli strati di realtà 11.

In tal caso l’unità oggettuale dell’opera d’arte risulta realizzata dalla dialettica tra forma e processo, di cui costituisce appunto la sintesi. Pensare la costituzione dell’oggettualità artistica nell’intreccio tra ge- nesi e struttura consente, tra l’altro, di non considerare l’opera d’arte come mera realizzazione di un’idea separabile da essa, di cui sarebbe la rappresentazione e/o l’interpretazione. Così, non solo si può ribadire

l’autonoma esistenza dell’opera d’arte (il suo effettivo costituirsi ogget- tuale) 12 nei confronti di chi intende invece risolvere tale esistenza in

un’interpretazione (ad esempio Danto 13), ma diviene anche pensabile

(contro un’identificazione tra unità oggettuale ed essenza atemporale) la dinamica temporale del suo quasi naturale auto-organizzarsi rispon- dendo a leggi immanenti alla sua stessa costituzione. In quanto unità

oggettuale (ma non cosale) auto-organizzata, l’opera d’arte si costitui- sce dunque come una forma emergente e tale forma non è altro che l’unità aspettuale della sua struttura oggettiva.

Si potrebbe osservare a tale riguardo che la nozione di “forma emergente” ci fa perdere per strada il tenore reale dell’oggettualità dell’opera d’arte. Per sostenere la realtà oggettuale (ma non cosale) dell’opera d’arte non si può, insomma, trascurare il rapporto che essa instaura con il mondo fisico che condividiamo percettivamente, per- ché è proprio in tale rapporto che si dà quello che Husserl chiama la sua Erscheinungsweise e Hartmann il suo Erscheinungsverhältnis. Per rispondere sinteticamente a tale osservazione si può riprendere la definizione minimale data da Joseph Margolis dell’opera d’arte come «entità fisicamente incorporata (embodied) e culturalmente emergen- te» 14. Questa definizione prevede, infatti, una pluralità di istanziazioni

di un’unica entità culturale (l’opera d’arte) 15. L’unità formale dell’ope-

ra d’arte come oggetto emerge, dunque, solo dalle instanziazioni reali che la rendono effettivamente esistente; quest’ultime possono essere singole o multiple, a seconda del tipo di opera d’arte in questione (a seconda del linguaggio non tanto scelto, quanto piuttosto ad essa necessario). Così otteniamo una nozione di unità oggettuale di opera

d’arte anteriore alla distinzione tra opere autografiche e allografiche, senza dover accettare la tesi di Margolis, secondo cui «tutte le opere d’arte sono in una certa misura autografiche» 16. A quest’ultima tesi di

Margolis si potrebbe opporre che tutte le opere d’arte, prima ancora di essere autografiche o allografiche, sono indice (nel senso di Peirce) di autorialità. Ogni opera d’arte, in questa prospettiva, può così esse- re considerata come individualmente tipica 17, senza doversi risolvere

nella singolarità di una cosa (di un oggetto materiale). L’individualità dell’opera d’arte può quindi essere anche espressa dalla tesi che essa è sempre tipo di se stessa 18. E ciò varrebbe sia nel caso che la sua

costituzione preveda un numero infinito di repliche sia che si manifesti in un singolo oggetto fisico (come un quadro)19.

Tornando alla tesi fenomenologica circa l’autoconsistenza oggettuale (ma non cosale) dell’opera d’arte, un altro indubbio merito di essa sta nel chiarirne la natura relazionale e costitutivamente intersoggettiva: «In questo essere lo stesso, vi è attualmente qualcosa di bello. Ciò che è identificato da me, ciò che è posto come un oggetto valido in modo permanente, può anche essere posto come oggetto intersoggettivamen- te: l’identico Fiktum ideale come oggetto è quindi un oggetto inter- soggettivo, un oggetto che esiste idealmente e in modo intersoggettivo, del quale tutti noi siamo in grado di appropriarci attraverso l’esistenza oggettivamente reale dell’opera nella sua incorporazione fisica» 20.

Nonostante la straordinaria chiarezza di questo passo husserliano, ritengo tuttavia che la nozione di intersoggettività, limitata a contenuti intenzionali della coscienza in rapporto con l’intenzionatezza (con il contenuto di senso intenzionato: la Vermeintheit) dell’opera, non sia sufficiente a definire la specificità oggettuale dell’opera d’arte e quindi il senso relazionale della sua effettiva esistenza. A tale proposito va considerata con attenzione la proposta teorica contenuta nel libro del- l’antropologo Alfred Gell, Art and Agency. In questo lavoro Gell, sep- pur con intenti teorici e con argomenti assai diversi, converge con la critica mossa da Schaeffer alla definizione (d’ascendenza goodmaniana) di opera d’arte come «entità semiotica nativa» ovvero come rappre- sentazione e/o espressione di stati intenzionali 21. Restando a Gell, egli

contesta decisamente che la nozione prototipica di opera d’arte possa essere offerta da una teoria istituzionale o da una teoria semiotica o da una teoria estetica. La peculiare identità dell’opera d’arte non può consistere, per Gell, né in oggetti la cui specificità è di essere “veicoli di segni” che trasportano-comunicano significati né in oggetti fatti per provocare una risposta estetica culturalmente approvata (culturally en- dorsed) 22. Proponendo di mettere l’accento sulla nozione socialmente

dinamica di agency, Gell intende l’opera d’arte come «un sistema di azione teso a cambiare il mondo, piuttosto che a codificare proposi- zioni simboliche intorno ad esso». Anziché insistere sull’intenzionatez- za delle opere, sui contenuti intenzionali della loro oggettualità, Gell

considera gli oggetti artistici (le opere) come «equivalenti di persone o, più precisamente, di agenti sociali» (e la definizione di agent sta appunto, kantianamente, nella «capacità di iniziare eventi causali in sua prossimità, che non sono ascrivibili allo stato corrente del cosmo fisico» 23). Le opere d’arte sono così da considerare come oggetti attivi,

intenzionalmente attivi, seppur non in un senso diretto e primario, ma «secondario» 24. Questo, però, non significa affatto che la loro agency

non sia effettiva. In breve, la teoria dell’arte sostenuta da Gell è, come egli stesso precisa, una teoria antropologica maussiana che considera gli «art objects come persone» 25.

Fin qui la tesi di Gell nei suoi lineamenti essenziali. Ritengo che la sua istanza critica possa essere accolta, a condizione di non vederla in secca alternativa alla caratterizzazione semiotica dell’opera d’arte. Ciò permette di superare il mentalismo o coscienzialismo della nozio- ne husserliana di identità intersoggettiva dell’opera d’arte come unità oggettuale e, nello stesso tempo, di capire tanto la dimensione con- testuale dell’opera d’arte quanto la sua potenza decontestualizzante e ricontestualizzante, appunto in virtù del suo tenore attivamente e socialmente simbolico. La mia proposta mira, così, a definire l’unità quasi trascendentale di ogni opera d’arte come un “oggetto sociale simbolicamente attivo”. Sotto questo profilo si potrebbe rilevare una qualche aria di famiglia tra l’oggettualità artistica, i primi oggetti sim- bolici dei bambini, i giocattoli in genere, gli oggetti sacri, i feticci. La definizione si potrebbe precisare, sostenendo che la modalità di attivazione del tenore simbolico dell’opera d’arte è necessariamente estetica o meglio estetico-percettiva.

Resta da chiarire cosa intendo qui per simbolico e, dunque, in che senso le opere d’arte possono esser dette “simboli attivi”. A tale proposito propongo di integrare la caratterizzazione semiotica della nozione di simbolo con quella antropologica, nel senso già suggerito da Cassirer, includendovi sia il senso dinamico del ‘formare’ sia quello del “congiungere”. L’opera d’arte come unità formale di un oggetto simbolico sarebbe, in altri termini, una forma formans che congiunge e intreccia mente e mondo producendo simboli dotati di una autonoma vitalità; simboli attivi, appunto, e come tali capaci di oltrepassare la stessa distinzione tra mente e mondo (tra soggettuale e oggettuale), pur presupponendola come condizione del funzionamento simbolico dell’arte stessa in tutte le sue manifestazioni oggettive. Un funziona- mento che riguarda la produzione di senso in un’accezione più ampia di quella che lo identifica con un contenuto intenzionale, avendo esso a che fare primieramente con l’allentare e riannodare vincoli percettivi nei confronti del mondo, stabilizzando e/o destabilizzando relazioni genericamente cognitive (fino ad instaurarne di nuove). Ciò permet- te di cogliere la polarità immanente al peculiare tenore simbolico di ogni opera d’arte come oggetto sociale attivo (nel senso di Gell). Tale

polarità è da intendersi come una continua tensione tra economicità (il carattere di riduzione simbolica dell’opera d’arte – la sua “ricer- ca di invarianti” nel rendere perspicua e nel modellizzare la nostra esperienza del mondo 26 – e surplus (eccedenza di senso) rispetto ad

ogni relazione omeostatica tra mente e mondo ed in particolare tra dimensione emotiva e cognitiva.

Alla polarità per così dire verticale del tenore simbolico dell’opera d’arte come oggetto sociale (quasi) autonomamente attivo ne corri- sponde una orizzontale, relativa alla sua effettiva esistenza di individua- lità tipica (secondo la definizione proposta da Genette). Da un lato, il suo carattere di unità oggettuale instanziata in oggettivazioni materiali (dove si presenta di volta in volta come una sintesi densa: come una