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Buone intenzioni, deludenti risultati

Capitolo 3 – Il caso FIAT

3.2 La storia dell’impresa simbolo italiana

3.3.4 Buone intenzioni, deludenti risultati

La crisi di Fiat Auto, e con essa dell’intero gruppo torinese, è stata causata, come già analizzato, dalla cultura manageriale e dalle errate strategie adottate, che hanno portato una fatale combinazione di sconfitte; tuttavia, è importante sottolineare come questa non sarebbe stata così grave e vasta se non fossero stati compiuti una serie di errori per quanto riguarda l’attuazione di un insieme di politiche e di processi che, anche se buoni nelle intenzioni, hanno dato, però, risultati molto deludenti. Ci si riferisce al processo di internazionalizzazione, alla gestione della rete di fornitura e all’introduzione dell’EVA.

Per quanto concerne il processo di internazionalizzazione, dal secondo dopoguerra sino agli anni settanta, le poche grandi imprese italiane (Fiat, Olivetti e Pirelli) intraprendono tali processi verso Regioni e Paesi economicamente deboli, ma legati strettamente all’Italia sotto il profilo storico, culturale e commerciale, come l’America Latina e la Spagna; Fiat Auto identifica sette Paesi, quali Brasile, Argentina, Polonia, India, Cina, Russia e Turchia, in cui vi effettua investimenti diretti prospettando, nei primi anni novanta, la produzione di quattro milioni di auto232.

231 G. VOLPATO, “Una crisi che viene da lontano. Il marketing strategico di Fiat Auto”, in

Economia e politica industriale, n. 116, 2002, pp. 80-81.

232 I Paesi vengono selezionati sulla base delle seguenti variabili: ammontare della popolazione, tasso di crescita del reddito previsto nel medio-lungo termine, grado di stabilità politica, appartenenza ad aree di libero scambio.

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Ciò sembra realistico in quanto i Paesi selezionati presentano tutti una dimensione demografica adeguata, idonea a sostenere una domanda interna di mezzi di trasporto significativa e con buone prospettive233. Inoltre, sono tutti Paesi emergenti, in cui il processo di motorizzazione è ancora poco sviluppato e per i quali si prevede un ciclo economico di forte espansione, con tassi di incremento del PIL e del numero di autovetture immatricolate di gran lunga superiori a quelli dei Paesi sviluppati; Fiat, infatti, operando in un mercato europeo saturo, con poche prospettive di crescita, vedrà la sua quota di mercato in Italia destinata a ridursi, mentre in questi Paesi potrà avere successo, in quanto essi sembrano esprimere una elevata domanda potenziale di vetture di piccola dimensione, suo tradizionale punto di forza234.

La strategia di globalizzazione della Fiat presenta due aspetti innovativi rispetto a quella dei concorrenti: in primo luogo, decide di effettuare pesanti investimenti, riproducendo, in ogni Paese, il modello della fabbrica integrata di Melfi, ed inducendo i suoi principali fornitori a localizzarsi in quei Paesi; in secondo luogo, Fiat punta su un unico modello di autovettura per tutti i Paesi emergenti, ovvero la Palio, concepita come world car, ossia un modello medio economico sostanzialmente uguale per le nuove classi medie dei Paesi in sviluppo235.

Con tale progetto il Gruppo mira ad una serie di obiettivi economico-finanziari:

- Ripartire, su un alto volume di produzione, i costi di progettazione e

sviluppo;

- Realizzare un’unica piattaforma globale di produzione che consenta di

utilizzare l’eventuale capacità produttiva in eccesso di un Paese per rifornire altri Paesi;

- Contenere il rischio di business associato alle violente fluttuazioni del

mercato di sbocco.

233 G. BODO, “Una rivoluzione non annunciata. La FIAT nell’ultimo decennio”, in L’Industria, vol. XXIII, n. 1, gennaio-marzo 2002, pp. 41-42.

234 A. GAVOSTO, La Fiat e la globalizzazione, www.lavoce.info, 14 ottobre 2002.

235 G. BALCET, “I limiti della globalizzazione mirata di Fiat Auto”, in Economia e politica

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Nel seguire ciò, tuttavia, Fiat, innanzitutto, non prende in considerazione la possibilità che si possano manifestare eventi indesiderati, quali le crisi finanziarie che investono proprio i Paesi emergenti e che frenano la crescita dei relativi mercati; sul piano produttivo, poi, la realtà è più complessa in quanto ogni Paese impone propri standard tecnici, dove la loro conformità implica costose variazioni delle specifiche di prodotto, ed esistono numerose barriere amministrative, legali e doganali che rallentano la movimentazione di componenti da un Paese all’altro; sul piano commerciale, ancora, la Palio consegue un grande successo in America Latina, ma non altrettanto negli altri Paesi emergenti; infine, Fiat Auto non rinforza la sua posizione in Europa, ed anzi addirittura taglia gli investimenti per i nuovi modelli236. Il modello di internazionalizzazione adottato dall’impresa, anche se presenta elementi innovativi, è affetto da gravi debolezze, come la trascuratezza nei confronti dell’Europa e l’elevata complessità gestionale, che ne compromette l’efficienza operativa e comporta risultati negativi su entrambi i fronti.

Per quanto concerne la gestione della rete di fornitura, Fiat persegue due diverse strategie che comportano una riduzione del grado di integrazione verticale ed una contestuale razionalizzazione di tale rete, da cui derivano una riorganizzazione della filiera secondo linee gerarchiche ed una forte contrazione del numero dei fornitori: la prima strategia, di deverticalizzazione, prevede che, per la casa produttrice, l’automobile non sia più un insieme di componenti, ma un insieme di sistemi di componenti complessi (per esempio, il sistema frenante, il sistema di trasmissione)237; la seconda strategia, di razionalizzazione della rete di fornitura, comporta una forte contrazione del numero di fornitori ed una riorganizzazione della supply chain secondo linee, tale da rendere i rapporti con i fornitori che producono sistemi più intensi e privilegiati238.

236 M. ROSSO, “Fiat, sconfitta annunciata. Un manager deluso racconta”, in CorrierEconomia, 10 marzo 2003.

237 il produttore di automobili non acquista più singole parti, ma sistemi di componenti.

238 F. GARIBALDO, “Il riposizionamento di Fiat Auto e l’outsourcing. Riflessioni a partire da una ricerca empirica sulla sub-fornitura torinese”, in Economia e politica industriale, n. 116, 2002, pp. 101-113.

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Tali strategie dovrebbero consentire a Fiat di ridurre i costi (in particolare quelli di struttura), di recuperare flessibilità (anche nella gestione delle risorse umane) e di concentrarsi sulle fasi di ricerca e di progettazione, a monte, e sulle attività di distribuzione, vendita e servizi post-vendita a valle. Tuttavia, la società torinese non è riuscita a tradurre i potenziali vantaggi in reali, ed anzi, rispetto ai suoi concorrenti, ha manifestato evidenti difficoltà nel rapportarsi alla propria rete di fornitura, commettendo una serie di errori239:

- Ha gestito la rete di fornitura con minore efficienza rispetto ai suoi

concorrenti, dove i cicli operativi (logistica, trasporti e manutenzioni) e produttivi (stampaggio, verniciatura ecc.) vengono frantumati in decine e decine di segmenti, venduti all’esterno, comportando un aumento della complessità e la perdita di controllo della catena del valore;

- Non ha condotto il gioco nei confronti di alcune categorie di fornitori di

primo livello, comportando, ad esempio, che i produttori della componentistica dell’elettronica acquisiscono un potere negoziale crescente nei suoi confronti;

- Ha continuato ad investire, in maniera cospicua, sulla componentistica,

attraverso le acquisizioni delle aziende Renault, della Pico per la Comau, della Cofap e dell’illuminazione dalla Bosch per la Marelli, della Meridien per la Teksid, avvenute senza alcun pagamento in azioni e comportando l’esborso di alcuni miliardi di euro; tuttavia, tutte le società della componentistica conseguono risultati cattivi ed i flussi di cassa previsti nei business plan non si realizzeranno mai.

Per quanto concerne l’introduzione dell’EVA (Economic Value Added o valore aggiunto economico), è l’approccio più diffuso per la misurazione e l’utilizzo del concetto di reddito economico, ideato e reso popolare dalla Stern Stewart & C., una società di consulenza di New York240.

239 M. ROSSO, “Fiat, sconfitta annunciata. Un manager deluso racconta”, in CorrierEconomia, 10 marzo 2003. Si veda anche G. BODO, Fiat: una storia di investimenti sbagliati, www.lavoce.info, 14 ottobre 2002.

240 Si veda a riguardo: J. M. STERN, G. B. STEWART, “EVA: Fact and Fantasy”, in Journal of

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Secondo questa metodologia, il reddito economico puro, inteso come surplus, è dato dal reddito operativo netto (NOPAT, Net Operating Profit After Tax) conseguito dall’impresa, meno il costo medio ponderato del capitale (WACC, Weighted Average Cost of Capital). In sostanza, l’EVA definisce come il reddito, riportato nelle relazioni di bilancio, incorpora due tipi di rendimenti: il normale rendimento di capitale, quale ricompensa dell’investimento, ed il reddito economico, quale puro surplus. I vantaggi che, in linea di principio, dovrebbero derivare dall’applicazione di tale approccio comprendono una migliore definizione degli obiettivi di risultato per l’impresa e per le sue unità di business ed una migliore valutazione delle performance realizzate, evidenziando quale attività, con un rendimento inferiore al costo del capitale, procurerà certamente una perdita.

Grazie all’implementazione di sistemi di controllo finanziario basati sull’EVA, le imprese come Coca-Cola, Eli Lilly e Briggs & Stratton, ma anche imprese italiane quali Pirelli e Finmeccanica, hanno dichiarato miglioramenti di performance; tuttavia, ciò non è accaduto per Fiat Auto, in quanto, innanzitutto, l’introduzione dell’EVA ha affievolito il vincolo posto dal debito ed ha concorso all’esplosione della posizione debitoria che, dopo un picco negativo di circa 5.400 miliardi nel 1993, torna ad un valore positivo di circa 2.800 miliardi nel 1998 e tocca, a fine 2000, i 13.000 miliardi circa241; in secondo luogo, l’introduzione dell’EVA assorbe molte energie manageriali per architettare soluzioni di deconsolidamento degli asset e del capitale investito netto; in terzo luogo, l’adozione dell’EVA, in Fiat Auto, manca uno degli obiettivi più importanti per il quale era stato invece introdotto: creare valore per gli azionisti242.

241 G. BODO, “Una rivoluzione non annunciata. La FIAT nell’ultimo decennio”, in L’Industria, vol. XXIII, n. 1, gennaio-marzo 2002, p. 49.

242 A. GAVOSTO, “Le strategie del Gruppo Fiat negli anni Novanta”, in Economia e Politica

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Per concludere, se la crisi Fiat non è di origine finanziaria, è certo che i gravi e copiosi errori commessi in tale campo, a partire dall’elementare ricorso a metodologie di gestione finanziaria, nate in contesti pervasi da una cultura evoluta di gestione finanziaria e con mercati dei capitali più efficienti, ne hanno ulteriormente amplificato la portata.

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