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Crisi d'impresa e risanamento strategico: il caso Fiat

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

STRATEGIA MANAGEMENT E CONTROLLO

TESI DI LAUREA

CRISI D’IMPRESA E RISANAMENTO STRATEGICO:

IL CASO FIAT

Relatore Candidato

Prof. Luca Nannini Lorenzo Tirinnanzi

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Indice

Introduzione ... 3

Capitolo 1 – Crisi d’impresa ... 6

1.1 Premessa ... 6

1.2 Il concetto di crisi ... 9

1.3 Le cause della crisi ... 18

1.3.1 La crisi da inefficienza ... 26

1.3.2 La crisi da sovracapacità/rigidità ... 27

1.3.3 La crisi da decadimento dei prodotti ... 28

1.3.4 La crisi da carenze di programmazione/innovazione ... 29

1.3.5 La crisi da squilibrio finanziario/patrimoniale ... 31

1.4 La previsione della crisi ... 33

1.5 La prevenzione della crisi ... 49

Capitolo 2 – Il Turnaround ... 54 2.1 Premessa ... 54 2.2 Il processo di Turnaround ... 55 2.3 Il sistema competitivo ... 67 2.4 Il sistema organizzativo ... 73 2.5 La ristrutturazione finanziaria ... 82 2.6 Il Piano di risanamento... 93

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Capitolo 3 – Il caso FIAT ... 110

3.1 Premessa ... 110

3.2 La storia dell’impresa simbolo italiana ... 112

3.3 Le cause della crisi ... 122

3.3.1 Le responsabilità del “sistema Italia” ... 124

3.3.2 La cultura manageriale del Gruppo Fiat... 127

3.3.3 Le sfide competitive perse ... 129

3.3.4 Buone intenzioni, deludenti risultati ... 132

3.4 Il turnaround del Gruppo Fiat ... 137

3.4.1 Il riposizionamento competitivo ... 141

3.4.2 La riorganizzazione ... 148

3.4.3 La ristrutturazione finanziaria ... 155

3.5 L’attuale situazione in Fiat ... 160

Conclusioni ... 167

Bibliografia ... 171

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INTRODUZIONE

La crisi economica-finanziaria ha fortemente condizionato lo scenario economico, politico e sociale, ripercuotendosi, in maniera negativa, su tutti i comparti industriali, sia a livello europeo, che a livello mondiale, e influenzando tutti i settori dell’economia del nostro Paese.

A fronte di questa difficile situazione economica, caratterizzata da continui e profondi mutamenti, competizione serrata e da una crescente difficoltà di accesso al credito per le aziende, soprattutto per quelle di piccole e medie dimensioni, che compongono il 90% del tessuto imprenditoriale italiano, le crisi d’impresa e il risanamento sono diventate delle tematiche predominanti nella vita del sistema economico del nostro Paese.

Tali tematiche, nel corso degli anni, sono stati oggetto di numerosi studi, alcuni volti a definire modelli e strumenti utili per prevenire o prevedere l’insorgere della crisi, altri volti allo studio delle diverse tipologie delle cause all’origine di essa, ed altri ancora hanno concentrato la loro attenzione nell’individuare e definire le diverse strategie-guida che un’impresa dovrebbe seguire per tornare alla creazione di nuovo valore. In realtà, per quanto il concetto di crisi sia contraddistinto da un significato prettamente negativo, costituendo la manifestazione di una patologia che avvince l’intero sistema d’azienda, se tale crisi viene affrontata con la giusta visione e con i mezzi e le competenze adeguate può rappresentare spesso una vera e propria opportunità per l’impresa.

In particolare, in tale contesto, sono l’importanza e il ruolo del soggetto economico, così come i mutamenti e la sua vitalità, che emergono con forza ed assumono rilevanza, in quanto il soggetto economico è il principale artefice dello sviluppo aziendale e, quindi, il primo responsabile della gestione tanto nel successo, quanto nell’insuccesso dell’azienda: dalle sue idee scaturiscono le prospettive economiche; nelle sue azioni trovano sistematicità le diverse manifestazioni della combinazione produttiva; nel suo atteggiamento strategico risiedono le radici di uno sviluppo durevole ed autoalimentantesi.

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Si tratta, perciò, di riconfigurare la combinazione economica, non solo risanando la condizione di squilibrio economico-finanziario e patrimoniale, ma definendo anche le basi per un nuovo promettente percorso di sviluppo.

In questo contesto si inserisce il turnaround aziendale, ovvero l’inversione di percorso che il risanamento mira ad effettuare per riportare l’impresa sulla via del successo, basandosi sulla consapevolezza che l’impresa in crisi abbia ancora delle potenzialità inespresse da poter valorizzare e su cui far leva per poter dare inizio all’inversione di tendenza. Il processo di turnaround, che verrà analizzato in ottica strategica, costituisce, infatti, una possibile soluzione alla crisi d’azienda, comportando cambiamenti che interessano, appunto, le strategie ed i comportamenti tanto sul fronte competitivo, così come sul versante interno ed organizzativo e, in molti casi, spinge lo stesso soggetto economico a ripensarsi e verso una radicale modificazione degli assetti di governo.

Partendo da queste premesse, il presente lavoro si sviluppa in tre capitoli con l’obbiettivo di analizzare, innanzitutto, le crisi d’impresa, passando poi per l’approfondimento delle diverse modalità di intervento, che compongono le strategie di risanamento, per riportare l’impresa alla creazione di nuovo valore, e finendo con lo studio di un caso pratico, ovvero del caso Fiat.

Nello specifico, il primo capitolo presenta inizialmente un quadro teorico dottrinale del concetto di crisi, ripercorrendo l’evoluzione storica dello stesso, e successivamente presenta una classificazione delle possibili cause, interne ed esterne, ricavata dai principali studi in materia. Esso si chiude con una attenta analisi di alcuni possibili strumenti di previsione e prevenzione delle crisi.

Nel secondo capitolo viene analizzato l’approccio strategico del risanamento, partendo non tanto dalla risoluzione delle problematiche createsi, ma piuttosto dal perseguimento e raggiungimento di un nuovo vantaggio competitivo, attraverso l’analisi e la valorizzazione delle risorse critiche e delle potenzialità inespresse. Tale ottica strategica viene descritta e presentata analizzando le tre direttrici principali, ovvero il contesto competitivo, il contesto organizzativo e le ristrutturazioni finanziarie.

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Il secondo capitolo si chiude con la descrizione dei principi generali per la redazione di un piano di risanamento e dei fattori chiave di successo di tale processo.

Il terzo ed ultimo capitolo, infine, si concentra sulla vicenda di Fiat, presentando, inizialmente, la storia di questa grande azienda torinese, nata più di cento anni fa e divenuta nel corso degli anni un punto di riferimento nel settore automobilistico mondiale; successivamente, vengono analizzate le principali cause che hanno portato la società torinese, agli inizi degli anni novanta, ad una profonda crisi, per poi descrivere il processo di risanamento, in ottica strategica, attuato dall’amministratore delegato Sergio Marchionne, intervenuto in ambito competitivo, organizzativo e di ristrutturazione finanziaria, analizzando i positivi effetti economici e contabili di tali interventi sui bilanci di Fiat.

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CAPITOLO 1 – CRISI D’IMPRESA

1.1 Premessa

Nell’attuale mercato in cui operano le imprese si possono manifestare, con molta rapidità, cambiamenti significativi nelle variabili che definiscono il sistema di riferimento della gestione aziendale. Queste circostanze avvengono, a volte, secondo una precisa ciclicità e possono portare, e dare luogo, a delle accelerazioni dei processi relativi al ciclo di vita dell’azienda che comportano, per quest’ultima, ad avere periodi di successi e di insuccessi (da situazioni di crescita aziendale, a situazione di contrazione e di crisi)1.

Le aziende dei vari settori dovrebbero essere preparate a questi periodi di “alti” e “bassi” (di successo e di insuccesso), dove quelle più forti e solide, infatti, non si preoccupano più di tanto perché sono a conoscenza che, successivamente al periodo negativo, ci sarà quello positivo: hanno tutte le capacità e le conoscenze per prepararsi, tempestivamente, a questi periodi di perdita. Le imprese che, invece, non sono in grado di prepararsi, o che si preparino con regole errate, non riescono a superare questi periodi negativi e, a causa delle ingenti perdite, falliscono e vengono eliminate dal mercato.

Le crisi, tuttavia, si manifestano a prescindere dalle prevedibili alternanze cicliche e tutte le imprese ne sono soggette; ciò accadde, tra lo stupore generale, perché le cause dell’insuccesso, che si sono evolute nel tempo all’interno dell’imprese, sono rimaste a lungo latenti ed esplodono improvvisamente: ciò prendono il nome di fasi negative di tipo strutturale2.

1 SAF, La crisi d’impresa. L’attestazione di ragionevolezza dei piani di ristrutturazione ex art. 67,

3° comma, lettera d) L.F., a cura della COMMISSIONE GESTIONE CRISI D’IMPRESA E

PROCEDURE CONCORSUALI, n. 27, Milano, 2010, p. 23.

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L’avvicinarsi della fase negativa è preceduto, inevitabilmente, da sintomi premonitori che, tuttavia, possono non venire immediatamente accettate dai manager e dagli imprenditori, che non sempre sono consapevoli della situazione e, conseguentemente, di porre in essere le azioni necessarie ed urgenti3.

La fase negativa, infine, si manifesta nella maniera che poteva essere esattamente misurabile e individuabile, si palesa all’esterno con varia intensità, coinvolgendo tutti gli stakeholder4 in modo più o meno pesante.

Preso atto dell’insuccesso, questo si traduce gradualmente o repentinamente in declino dell’impresa, che rappresenta il momento in cui si manifestano le prime inefficienze ed i primi squilibri. È la fase in cui l’impresa distrugge valore con una intensità tale e con una tale tendenza nel tempo da compromettere la stessa sua sopravvivenza.

Questa condizione diviene irreversibile qualora non vengano prontamente posti in essere i necessari interventi correttivi. Infatti, nella fase di declino i vertici aziendali hanno l’opportunità di porre rimedio alle cause delle inefficienze, arrestare il declino stesso e risanare l’impresa attraverso un processo di turnaround, poiché tanto le perdite economiche quanto il decremento dei flussi non hanno raggiunto livelli tali da causare una situazione di insolvenza5.

Quando il declino raggiunge una certa intensità, a causa dell’assenza di interventi tempestivi e di azioni correttive, prende il nome di crisi.

La crisi sfocia in uno stato di elevata instabilità dato da rilevanti perdite di valore e di redditività che impattano negativamente sui flussi finanziari, generando situazioni di illiquidità e perdita di fiducia da parte degli stakeholders, fino a giungere all’insolvenza e al dissesto che porta conseguentemente alla cessazione dell’impresa, se non si attuano tempestivi rimedi6.

3 L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al volere, EGEA, Milano, 1995, p. 18.

4 Con l’espressione stakeholders si fa riferimento a tutti coloro che in varie forme portano “interesse” alla vita dell’impresa.

5 L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al volere, EGEA, Milano, 1995, p. 19.

6 ODCEC, La gestione dell’impresa in crisi. L’analisi di dottori commercialisti, managers ed

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Riepilogando, con lo schema 1.1, possiamo vedere le possibili linee di evoluzione delle fasi negative di tipo strutturale:

a) Il declino può tradursi in un recupero, senza avere la fase della crisi; b) Il declino si traduce in una vera e propria crisi, dalla quale l’impresa può

uscire o non uscire;

c) Nel punto a) si verifica il turnaround che può avvenire in diversi modi, ma principalmente con o senza la richiesta di sacrificio agli stakeholder; d) Nel punto b) si verifica, come già accennato in precedenza, la cessazione

dell’impresa, che può realizzarsi con forme traumatiche (fallimento o concordato preventivo) o non traumatiche (liquidazione volontaria).

La distinzione tra declino e crisi, il cui confine nella pratica può anche essere molto sottile, è importante per spiegare come, in generale, il declino può rappresentare un passaggio relativamente fisiologico della vita di un’impresa7.

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Schema 1.1. Le possibili linee di sviluppo delle fasi negative nella vita delle imprese

Fonte: L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al volere, EGEA, Milano, 1995.

1.2 Il concetto di crisi

Molti autori hanno effettuato numerosi studi dedicati al tema delle crisi di impresa i quali, però, dando per scontato il significato del termine, non hanno mai dato una compiuta ed univoca definizione del fenomeno. Nemmeno il legislatore fornisce una definizione univoca dello stato di crisi e quindi è necessario fare riferimento alla letteratura. Secondo la letteratura economica, gli studi che trattano il tema della crisi d’impresa hanno ricoperto uno spazio crescente nel corso del tempo.

Si può distinguere, in tal senso, due diversi periodi di sviluppo degli studi: il primo va dall’inizio del XIX secolo alla prima metà del XX secolo, mentre il secondo dal dopoguerra ai giorni nostri.

Fasi negative di tipo ciclico

Ritorno al successo

Eliminazione

Fasi negative di tipo strutturale

Declino

Crisi

Turnaround

Turnaround Cessazione

Con sacrifici per gli stakeholders

Senza sacrifici per gli stakeholders

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Si può osservare, infatti, che nel primo periodo gli studi delle specificità delle crisi d’impresa hanno avuto uno spazio modesto, trattando principalmente il problema da un punto di vista dell’intero sistema economico, mentre dal secondo dopoguerra hanno avuto origine due filoni di letteratura economica nei quali il problema della crisi d’impresa trova spazio maggiore. Si tratta della letteratura sulla crisi dei sistemi produttivi e di quella sulle crisi settoriali8.

In particolare, nel corso della prima metà del 1800, gli economisti classici e neoclassici hanno affrontato la problematica della crisi sostenendo come questa fosse legata alla sovrapproduzione, intesa come squilibrio tra la capacità di produzione di beni materiali e la capacità di consumo della società.

In questo ambito, infatti, Ricardo considerava la crisi come un evento congiunturale e patologico, ovvero derivante da fattori esterni al sistema produttivo9.

Similarmente avviene per la scuola neoclassica, la quale, partendo dai lavori di Jevons e Menger, considera come l’equilibrio fosse automatico e la crisi, logicamente, impossibile10; in quest’ottica, quindi, qualora si dovessero manifestare, le crisi si potrebbero interpretare come accidenti congiunturali dovuti a fattori esterni11.

Per quanto riguarda coloro che consideravano la crisi come un fenomeno connesso alla natura stessa del sistema produttivo, molti autori, in particolare Sismondi e Malthus, sottolineavano come la produzione, crescendo con l’accumulazione progressiva del capitale, non crea da sé la propria domanda.

Nella realtà, infatti, i lavoratori ricevono solo una parte del valore da essi prodotto e quindi non possono acquistare la produzione addizionale, mentre gli imprenditori risparmiano parte del sovrappiù che prelevano; per gli autori questo non si traduce

8 A. TEDESCHI-TOSCHI, Crisi d’impresa tra sistema e management. Per un approccio allo studio

delle crisi aziendali, EGEA, Milano, 1993, p. 6.

9 Si veda a riguardo: D. RICARDO, Sui principi dell’economia politica e della tassazione, ISEDI, Milano, 1976.

10 Sul concetto si veda: C. MENGER, Principi fondamentali di economia, Rubettino, Reggio Calabria, 2001; S. JEVONS, The theory of Political Economy, 5° ed., New York, 1957.

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in un aumento del consumo, ma in nuovi investimenti che aumentano la produzione, accrescendo, quindi, la crisi da sovrapproduzione12.

Questo tema è alla base degli studi del fenomeno della crisi da parte di Marx che la considera come effetto delle contraddizioni dell’economia capitalista: secondo l’autore, infatti, la crisi si ha dal fatto che un’economia capitalista è una economia di scambio nella quale produzione e consumo sono due operazioni distinte e, poiché i beni non vengono prodotti per essere consumati, ma per essere venduti, si possono verificare degli squilibri, dato il fatto che la produzione per la vendita deve dare un profitto sufficiente e ad un ritmo abbastanza veloce al fine che il capitale investito si trovi valorizzato. Secondo Marx, quindi, il modo di ripartire gli investimenti produttivi tra i diversi settori è la ragione per cui la crisi si manifesta ricorrentemente13.

Un altro approccio allo studio della crisi, da parte degli economisti classici e neoclassici, è quello che inquadra questo fenomeno nell’ambito del più generale susseguirsi dei cicli economici, traducendolo come punto di passaggio dalla fase di espansione a quella della depressione. Nello specifico, riconducendo il ciclo economico a fattori di ordine monetario e finanziario, alcuni autori fornivano una spiegazione della crisi fondata su un processo di sovracapitalizzazione rispetto al risparmio disponibile, sottolineando il ruolo dell’investimento nello svolgimento del ciclo: le crisi, cioè, sarebbero dovute all’incapacità del sistema economico di adeguare il flusso di risparmio alle esigenze di accumulazione, sempre più crescenti durante il periodo di espansione14.

Altri autori riconducevano le fluttuazioni cicliche, e quindi le crisi, a cause di fattori reali, cioè legati a forme di mercato e a processi produttivi, che definivano, quindi, la crisi come una conseguenza alla sottoutilizzazione degli impianti che si crea alla

12 Si veda a riguardo: J. C. L. SISMONDI, Nuovi principi di economia politica e della ricchezza nei

suoi rapporti con la popolazione, ISEDI, Milano, 1975.

13 K. MARX, Il Capitale, a cura di EUGENIO SBARDELLA, Newton Compton Editori, Roma, 2016.

14 Tra gli studiosi ricordiamo TUGAN-BARANOVSKY (1905), SPIETHOFF (1903) e CASSEL (1903). Altri, riprendendo questo schema, hanno introdotto il ruolo del credito bancario: FISHER (1912), HAWTREY (1919) e ROBERTSON (1926).

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fine del periodo di espansione a causa della loro crescita sproporzionata rispetto alle necessità dei settori acquirenti15.

La definizione del fenomeno della crisi ha avuto un importante sviluppo a partire dagli anni trenta, grazie al contributo dato da Keynes: l’autore spiega la crisi in termini di fase del ciclo economico, valutandola nelle sue molteplici manifestazioni (caduta degli investimenti, disoccupazione, domanda insoddisfatta, caduta del livello dei prezzi ecc.). Secondo Keynes il ciclo economico è spiegato dall’evoluzione delle aspettative dove l’investimento si compie in condizioni instabili e che non possono durare perché è provocato da aspettative che saranno deluse; aspettative favorevoli, quindi, porteranno ad aumenti sensibili e improvvisi degli investimenti. Ci sarà, conseguentemente, un aumento della produzione e dell’occupazione, ma anche l’avvio della competizione tra gli imprenditori per impiegare fattori di produzione specializzati. In questo contesto, però, la produzione addizionale deve essere offerta a prezzi bassi per essere venduta e, allo stesso tempo, si ha una diminuzione degli investimenti rispetto al risparmio. Dall’espansione, quindi, si passa alla depressione con le aspettative favorevoli che vengono sostituite da errori di previsioni, con il risultato, perciò, di un crollo e di uno stato di disoccupazione che persino gli investimenti che avrebbero dovuto avere un rendimento molto alto, ne hanno uno molto inferiore.

Concludendo, quindi, per Keynes la situazione di crisi è data dalla sovrabbondanza di capitale, il cui rendimento è negativo16.

Un altro importante contributo, diverso da quello di Keynes, ma sotto diversi aspettati complementare, è quello di Schumpeter, secondo il quale, attraverso l’analisi sul processo di innovazione tecnologica, lo sviluppo economico non si compie in maniera continua, ma in successione periodica di cicli generati da processi innovativi.

15 Ricordiamo AFTALION (1913), CLARK (1917) e ROBERTSON (1926).

16 Si veda a riguardo: J. M. KEYNES, Teoria Generale dell'occupazione, dell'interesse e della

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Le diffusioni di queste innovazioni sostengono l’espansione, ma quando questa termina, gli investimenti innovativi finiscono e conseguentemente vengono meno anche le aspettative di profitto, facendo sopraggiungere, perciò, la crisi17.

Una teoria molto interessante, che prende spunto dagli studi finora citati, la fornisce Tedeschi18 che individua cinque diverse fasi dell’evoluzione del sistema

economico, all’interno dei quali troviamo lo sviluppo del concetto di crisi.

Le fasi sono: il periodo preindustriale; l’epoca del primo capitalismo; l’epoca del capitalismo burocratico; il periodo del capitalismo maturo; l’epoca post-industriale. Nello specifico, nel periodo preindustriale, con il termine di crisi di impresa si faceva riferimento alla scomparsa di un’attività mercantile; era, quindi, utilizzato come sinonimo di fallimento ed indicava un fenomeno negativo e condannabile (era la prova della disonestà del mercante che si trovava nella posizione in cui non riusciva più a far fronte agli impegni presi).

Nell’epoca del primo capitalismo la crisi di impresa era vista nella mancanza di profitto e nella conseguente scomparsa dell’impresa dal mercato. Questo fenomeno, tuttavia, non veniva visto come totalmente negativo, infatti il fallimento e la scomparsa delle imprese non efficienti erano considerati eventi naturali e necessari per garantire la migliore allocazione delle risorse e la crescita del sistema economico.

Nell’epoca del capitalismo burocratico, invece, il termine di crisi di impresa indicava lo squilibrio tra le attività e le passività aziendali; veniva identificata come la mancanza di liquidità e nella conseguente incapacità dell’impresa di far fronte alle proprie obbligazioni.

Nel periodo del capitalismo maturo il concetto di crisi non si allontana da quanto definito nel periodo precedente, anche se viene riconosciuta la possibilità di uscire dalla crisi e di risanare l’impresa, attraverso l’azione del management dell’impresa stessa.

17 Si veda a riguardo: J. A. SCHUMPETER, Teoria dello sviluppo economico, Boringhieri, Torino, 1977 e Il processo capitalistico: cicli economici, Boringhieri, Torino, 1977.

18 Si veda a riguardo: A. TEDESCHI-TOSCHI, Crisi d’impresa tra sistema e management. Per un

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Nel periodo post-industriale, infine, la crisi di impresa viene collegata alla produzione, da parte delle imprese, di elevati costi umani e sociali che dovrebbero portare alla loro scomparsa19.

A partire dagli anni settanta le crisi di impresa hanno cessato di essere fenomeni occasionali, legati all’incapacità di imprenditori o di manager o per colpa dei loro comportamenti colposi, ma sono divenuti dei fenomeni ricorrenti e diffusi, collegati al dinamismo ed all’instabilità dell’ambiente20.

Meyers, nel suo studio, individua nove diverse tipologie di crisi di impresa, che sono: immagine percepita all’esterno; improvvisi cambiamenti del mercato; fallimento di un prodotto; avvicendamento del top management; liquidità; relazioni industriali; scalate; avvenimenti internazionali avversi; controllo statale e deregulation21.

Secondo Kiyonari22 una crisi attraversa un processo evolutivo che consta di quattro fasi:

- Fase preliminare;

- Fase acuta: è la fase in cui è necessario intervenire attraverso un processo di

turnaround;

- Fase cronica;

- Fase risolutiva, dove la crisi assume carattere irreversibile.

Il momento decisivo è rappresentato dalla fase acuta, dove viene individuato il sottile confine tra semplice declino e crisi vera e propria. Durante tale fase, infatti, la crisi ha assunto caratteri gravi e gli equilibri aziendali sono altamente compromessi, ma non ha ancora raggiunto lo stadio dell’irreversibilità (del punto di non ritorno) dove è inevitabile il fallimento o la liquidazione dell’azienda.

19 A. TEDESCHI-TOSCHI, Crisi d’impresa tra sistema e management. Per un approccio allo studio

delle crisi aziendali, EGEA, Milano, 1993, pp. 7-11.

20 L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffrè, Milano, 1986, p. 3.

21 G. C. MEYERS, Gestire le crisi. Come affrontare e risolvere le difficoltà in azienda, Edizioni del Sole 24 ore, Milano, 1988, p. 20.

22 Si veda a riguardo: T. KIYONARI, “La gestione delle crisi connesse alla crescita delle medie imprese in Giappone”, in Prevenzione e terapia delle crisi d’impresa, CEDAM, Padova, 1988.

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È solo nella fase acuta reversibile che è possibile evitare lo spettro della crisi risolutiva, naturalmente dopo un’attenta valutazione delle cause, delle possibilità di rimuoverle e della convenienza economica della loro rimozione23.

Per Vicari la crisi di impresa può essere definita anche come l'epilogo di una situazione di degrado delle risorse immateriali (conoscenza e fiducia) che, invece di arricchire il patrimonio aziendale favorendo lo sviluppo dell’impresa, innescano un circuito vizioso che, in assenza di interventi di risanamento, conduce al progressivo impoverimento delle conoscenze e alla perdita di fiducia all’interno ed all’esterno dell'impresa stessa24.

Secondo Guatri25, infine, nell’aspetto più propriamente aziendale, la crisi è una manifestazione di tipo patologico che può svilupparsi su più stadi (figura 1.2).

Figura 1.2. I quattro stadi del percorso di crisi.

Fonte: L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al volere, EGEA, Milano, 1995.

23 A. BOCCIA, “L’analisi della crisi d’impresa”, in Rivista della scuola superiore dell’economia e

della finanza, Anno III, n. 5, maggio 2006, p. 2.

24 S. VICARI, “Risorse aziendali e funzionamento d’impresa”, in Finanza, Marketing e Produzione, n. 3, 1992.

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Il percorso di crisi, infatti, si manifesta in quattro stadi per ognuno dei quali si può individuare:

- Una fase del percorso del declino e della crisi; - Le manifestazioni salienti con le quali essa si rivela.

Il primo stadio è quello di incubazione, le cui manifestazioni sono i segnali di decadenza e di squilibrio, che possono essere di origine interna od esterna.

Il secondo stadio è quello della maturazione del declino che si manifesta nella perdita di flussi reddituali e di valore del capitale.

Il terzo stadio è quello delle ripercussioni delle perdite sui flussi di cassa, che prima si attenuano e poi diventano negativi, e della diminuzione di credito e di affidabilità dell’impresa.

Il quarto stadio è quello dell’esplosione della crisi che danneggia in maniera lampante tutti gli stakeholder dell’impresa, dove l’insolvenza ed il dissesto sono le manifestazioni possibili della crisi26.

È facilmente intuibile che una crisi affrontata al primo stadio, quando ancora non ha generato perdite economiche, è più facilmente rimediabile.

La difficoltà, in questo primo stadio, sta nel fatto di individuare la crisi, cioè i sintomi che la caratterizzano (in particolare squilibri e inefficienze): se non vengono poste in atto le contromisure necessarie, circostanza frequente dato che spesso il management non si rende conto dello stato in cui verte l’organizzazione, si giunge allo stadio successivo. Nel secondo stadio si erodono, in modo graduale, le risorse aziendali, attraverso un processo di depauperamento le cui manifestazioni formali sono l’assorbimento delle riserve di bilancio e di quote di capitale, mentre le manifestazioni sostanziali sono l’erosione della liquidità, l’appesantimento dei debiti, la impossibilità di distribuire i dividenti ecc. L’arresto della crisi nel secondo stadio è sicuramente più difficile rispetto al primo, ma dipende dall’intensità e dalla durata delle perdite subite27.

26 L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al volere, EGEA, Milano, 1995, p. 111. 27 L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffrè, Milano, 1986, p. 12.

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Il terzo stadio è il cosiddetto momento finanziario, tipica manifestazione esterna delle difficoltà in essere e, oltre un certo limite, nel quarto stadio, la crisi esplode nell’insolvenza, ovvero l’incapacità di affrontare regolarmente le obbligazioni e i pagamenti in scadenza; in questo stadio l’impresa è profondamente colpita dalla crisi a tal punto che qualsiasi intervento di riparazione appare molto difficile, tardivo e con probabilità di successo molto esigue. In ogni caso sono necessari, per tentare il salvataggio, interventi profondi che investano la struttura del capitale e il management28.

All’insolvenza può seguire il dissesto che è una condizione permanente di squilibrio patrimoniale, irrimediabile senza l’intervento sui creditori. Anche in situazioni di dissesto sono concepibili interventi che possono portare al salvataggio e al risanamento di aziende, anche se tali operazioni possono essere attuate solo col ricorso alle procedure concorsuali29.

La storia dei dissesti aziendali è spesso contrassegnata da tardivi riconoscimenti dei sintomi di crisi, dall’illusione che spinge ad escludere lo stato di crisi od a minimizzarne la portata, al timore di apportare misure idonee perché inevitabilmente dolorose. In tali contesti si potrebbe tendere a comunicare all’esterno una situazione economico finanziaria e patrimoniale alterata, modificando alcune poste di bilancio e nascondendo la situazione reale in cui versa l’azienda. L’effetto finale di tali comportamenti è che il processo di disfacimento e di depauperamento diventa sempre più grave fino ad intaccare il patrimonio aziendale nella sua globalità, fino al limite dell’irreversibilità30.

28 L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffrè, Milano, 1986, p. 12.

29 L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al volere, EGEA, Milano, 1995, p. 113. 30 L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffrè, Milano, 1986, p. 13.

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18 1.3 Le cause della crisi

L’individuazione e l’analisi delle cause delle crisi di impresa sono state e continuano ad essere degli argomenti di grande interesse, non solo negli studi accademici, ma anche nel mondo professionale. Comprendere le cause della crisi è un aspetto fondamentale perché ciò rappresenta il punto di partenza per comprendere se i rimedi proposti consentiranno la rimozione delle criticità.

Prima di procedere ad elencare le possibili cause che possono determinare una crisi aziendale, appare opportuno sottolineare l’importanza della distinzione tra cause e sintomi della crisi: a tale riguardo Riparbelli31 afferma che alcuni sintomi sono stati scambiati in passato per la malattia, come, ad esempio, le alterazioni strutturali del capitale che non costituiscono una deficienza organica dell' azienda, ma l' indice riflesso di uno stato patologico esistente all' interno dell' impresa o di una anormalità dell' ambiente esterno. Troppo spesso, infatti, il soggetto chiamato a circoscrivere le difficoltà aziendali ha confuso i sintomi con le cause, come, ad esempio, la diminuzione della redditività o la mancanza di liquidità, limitandosi ad implementare interventi finalizzati a riportare in equilibrio i valori di bilancio senza rimuovere i fattori all'origine della traiettoria degenerativa, comportando così che l’azione correttiva producesse soltanto ed inevitabilmente effetti nel breve periodo, determinando, nei casi più gravi, le degenerazione in crisi irreversibile.

Una situazione di declino, e poi quella di crisi, tuttavia, non è mai riconducibile ad una causa definita, ma è quasi sempre la risultante di più fattori ed eventi interni ed esterni all’impresa; perciò per individuare le cause della crisi si distingue l’origine interna ed esterna dei fattori scatenanti della crisi stessa.

31 A. RIPARBELLI, Il contributo della ragioneria nell'analisi dei dissesti aziendali, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 64.

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Secondo il modello elaborato da Slatter32 (schema 1.3), difatti, la propensione al declino ed alla crisi è legata a tre principali fattori:

1) Caratteristiche della concorrenza e dell’ambiente (fattori di tipo macro-economico e settoriale);

2) Caratteristiche manageriali dell’impresa (fattori interni); 3) Caratteristiche organizzative dell’impresa (fattori interni).

Schema 1.3. Componenti generali della propensione al declino ed alla crisi delle imprese secondo Slatter.

Fonte: L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al volere, EGEA, Milano, 1995.

32 S. SLATTER, Corporate recovery, a Guide to Turnaround Management, Penguin Books, London, 1984. Il modello è riprodotto con alcuni adattamenti, poiché l’autore non distingue chiaramente il declino dalla crisi. Slatter nel 1984 conduce uno studio su venti imprese britanniche, individuando tra i fattori più frequentemente associati alla crisi delle imprese oggetto d’indagine l’inadeguatezza del management e la debolezza del controllo finanziario. A questi elementi, tuttavia, l’autore aggiunge alcuni importanti fattori sia interni che esterni all’impresa, vale a dire l’inefficienza operativa, la scarsa competitività, le brusche variazioni nella domanda, i progetti rischiosi, i problemi ambientali, le acquisizioni errate e l’overtrading. L’innovazione dell’impostazione di Slatter rispetto agli orientamenti precedenti risiede nell’avere condotto per la prima volta, negli studi di matrice aziendalistica, un’analisi completa delle cause del declino dell’impresa. S. SCIARELLI, La crisi d’impresa. Il percorso gestionale di risanamento nelle

piccole e medie imprese, CEDAM, Padova, 1995, p. 223.

Variabili di concorrenza ed ambiente (fattori esterni) Caratteristiche manageriali (fattori interni) Caratteristiche organizzative (fattori interni)

Efficacia delle decisioni

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20

In alternativa al modello di Slatter, anche se il significato non si allontana sostanzialmente da questo, la propensione al declino ed alla crisi può essere considerata legata (schema 1.4) a:

1) Fattori macro-economici di Paese; 2) Fattori settoriali;

3) Fattori specifici delle imprese.

Schema 1.4. Le tre classi di fattori determinanti della propensione al declino ed alla crisi d’impresa.

Fonte: L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al volere, EGEA, Milano, 1995.

In conclusione, in linea con le classificazioni appena dette, Confalonieri33 afferma che la propensione al declino ed alla crisi può essere considerata legata a:

1) Fattori esterni, imputabili al mercato ed all’ambiente nel quale l’impresa opera. In tal caso si parla infatti, di crisi da anelasticità o rigidità al cambiamento;

2) Fattori interi, che riguardano manifestazioni legate ad anomalie attribuibili al management.

33 Si veda a riguardo: M. CONFALONIERI, “Le cause dei dissesti aziendali”, in Finanza, Marketing

e Produzione, IX, 1993. Fattori macro-economici

Fattori settoriali

Fattori specifici d’impresa (interni)

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Secondo una ricerca svolta da D.B. Bibeault negli Stati Uniti34, uno dei principali Paesi che ha cercato di distinguere le ragioni di declino delle imprese, il declino sarebbe attribuibile, nella media di quattro casi su cinque, a cause di tipo interno, mentre in un caso su cinque a cause esterne. Si può quindi sostenere che esiste una netta prevalenza delle cause interne nel provocare il declino delle imprese, anche se negli ultimi decenni, a partire dagli anni settanta, i fenomeni esterni, nella forma di fenomeni macro-economici, politici e sociali, hanno accentuato il loro peso in tutto il mondo35.

Le cause interne ed esterne sono fortemente correlate tra loro, dato che le prime possono dare origine alle altre e viceversa, le quali, a loro volta, generano il declino e la crisi dell’impresa (come, ad esempio, il caso in cui i manager d’impresa, non essendo in grado di leggere e interpretare in modo corretto la dinamica evolutiva del contesto di riferimento, assumono decisioni strategiche che si rilevano successivamente sbagliate; oppure, al caso in cui l’impresa perda credibilità nei confronti del mercato finanziario, derivante questa, ad esempio, da ripetuti errori gestionali, comportando, quindi, una drastica riduzione dei finanziamenti).

È opportuno, quindi, valutare adeguatamente se le cause delle crisi aziendali sono interne od esterne per poter distinguere le inefficienze gestionali dagli squilibri di mercato, dove, di solito, le cause esterne non sono il solo motivo principale di una crisi, ma contribuiscono anche ad accelerare e ad aggravare un declino che trova quasi sempre all’interno dell’azienda la causa principale.

34 D. B. BIBEAULT, Corporate Turnaround: how managers turn losers into winners, Mc Graw-Hill, New York, 1982, p. 25. Si tratta della ricerca, condotta su 300 casi aziendali, da studiosi dell’Università di North Carolina.

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Per semplificare, quindi, tra le cause esterne Boccia distingue36:

▪ Motivi macro-economici: crisi del sistema paese, debolezza dei mercati finanziari, inadeguatezza del sistema bancario, mutamenti sfavorevoli della legislazione di settore ecc.;

▪ Movimenti culturali: il movimento no global, ecologismo ecc.; ▪ Eventi catastrofici: guerre, attacchi terroristici, disastri ecologici ecc.; ▪ Problematiche di settore: calo della domanda, aumento della concorrenza

(per la qualità, per il prezzo) ecc.

Per quanto riguarda le cause interne, è rilevante l’approccio strategico, mediante il quale vengono individuate le cause di natura soggettiva, cioè risalenti agli uomini, intesi come i principali protagonisti del successo o dell’insuccesso dell’impresa37. Con tale approccio, innanzitutto, viene messo sotto accusa il management, dalla cui non adeguata capacità quasi sempre dipende in larga parte i risultati negativi dell’azienda. Gli atteggiamenti degli imprenditori e dei manager, infatti, nei confronti dei fenomeni di declino e crisi sono spesso superficiali e ottimistici, sottovalutando spesso gli indicatori di decadenza e di squilibrio, che rappresentano l’incubazione del declino (primo stadio del percorso di crisi descritto nel paragrafo precedente)38. Un bad management, infatti, rappresenta la causa di tutti i problemi aziendali39, dove, quindi, il vertice aziendale è quasi sempre coinvolto, in modo diretto o indiretto, da una crisi e dal suo successivo risanamento40.

In secondo luogo, le critiche vengono indirizzate verso i detentori del capitale, dalle cui politiche la crisi può trarre origine e alimento, attraverso, ad esempio, eccessive distribuzioni di dividenti, errata scelta del management ecc.

36 A. BOCCIA, “L’analisi della crisi d’impresa”, in Rivista della scuola superiore dell’economia e

della finanza, Anno III, n. 5, maggio 2006, p. 2.

37 L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffrè, Milano, 1986, p. 13. 38 L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffrè, Milano, 1986, p. 13. 39 S. SLATTER, D. LOVETT, Corporate turnaround, Penguin, New York, 1999, p. 19

40 A. DANOVI, G. INDIZIO, “La letteratura in materia di crisi”, in A. DANOVI, A. QUAGLI (a cura di), Gestione della crisi aziendale e dei processi di risanamento, IPSOA, Milano, 2008, p. 18.

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Altre critiche possono essere rivolte ai finanziatori, per l’eccessiva fiducia concessa da parte delle banche, e agli addetti a svolgere determinate funzioni all’interno del sistema aziendale (produzione, organizzazione, vendita ecc.) in relazione a delle loro inefficienze accertate41.

Una ulteriore distinzione delle cause della crisi è data da Sciarelli42, che collega tale

fenomeno al dinamismo ed all’instabilità dell’ambiente, dove, infatti, il fattore dominante delle stesse può essere ricollegato all’evoluzione dell’ambiente e del mercato oppure alla mancata ristrutturazione ed innovazione dell’attività aziendale. L’autore distingue situazioni di crisi a matrice esterna, nelle quali l’impatto di fattori al di fuori del controllo imprenditoriale è determinante, da situazioni di crisi a matrice interna, nelle quali errori strategici ed organizzativi compiuti dal management rappresentano la causa primaria dello stato patologico.

Per quanto riguarda la crisi di matrice esterna, si distinguono tre casi:

1) Crisi settoriale, causata dalla debolezza dei mercati finanziari, dal calo della domanda, dall’incremento della disoccupazione e dall’incremento del prezzo delle materie prime;

2) Crisi ecologica, causata da tutti quei fenomeni che danneggiano l’ambiente e di conseguenza le imprese che vi operano all’interno;

3) Crisi catastrofica, causata da eventi accidentali che danneggiano l’apparato economico della zona coinvolta.

Per quanto riguarda, invece, la crisi di matrice interna, queste prendono la loro origine principalmente da errori decisionali del vertice aziendale o da inefficienze insite nelle funzioni aziendali; è possibile, quindi, individuare quattro differenti tipologie di crisi:

1) Crisi strategica, causata da errori nella definizione del mix di portafoglio degli investimenti, da scarsi livelli di imprenditorialità o dall’inesistenza di un orientamento e di una tensione all’innovazione;

41 L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffrè, Milano, 1986, p. 13.

42 S. SCIARELLI, La crisi d’impresa. Il percorso gestionale di risanamento nelle piccole e medie

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2) Crisi competitiva o di posizionamento, causata da errori nella scelta dei segmenti di mercato da servire;

3) Crisi dimensionale, causata da uno squilibrio tra potenzialità organizzative e risultati in termini di produttività, economicità e redditività;

4) Crisi operativa o da inefficienze, causata da uno squilibrio tra costi sostenuti e i ricavi ottenuti.

Quest’ultima distinzione delle situazioni di crisi di matrice interna, quanto l’approccio soggettivo rilevante nelle cause esterne, il quale può dipendere da fenomeni e da forze che sfuggono al dominio degli uomini d’impresa, non si rivela, però, il più significativo e adatto a descrivere la complessa realtà della crisi aziendale. Per tali ragioni, si preferisce adottare uno schema di tipo obiettivo, nella descrizione e nell’analisi delle cause della crisi.

In questa ottica Guatri43 distingue cinque tipi fondamentali di crisi, in funzione delle cause che le provocano.

È opportuno precisare fin da subito che le cinque tipologie di crisi che andremo ad analizzare si presentano spesso in combinazione, ovvero con una pluralità di concause; inoltre, nel considerare tale approccio obiettivo, non si devono perdere di vista le componenti soggettive della crisi che, di volta in volta, devono essere evidenziate e discusse, al fine di poter determinare quali cause è possibile eliminare intervenendo sui soggetti.

Le cinque tipologie di crisi sono: a) La crisi da inefficienza;

b) La crisi da sovraccapacità/rigidità; c) La crisi da decadimento dei prodotti;

d) La crisi da carenza di programmazione/innovazione; e) La crisi da squilibrio finanziario.

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25

Prima di procedere alla descrizione di queste cinque tipologie di crisi, è opportuno evidenziare come Bastia44 sottolinei che la classificazione proposta da Guatri abbia il pregio della obiettività e semplicità di individuazione e catalogazione delle cause, ma trovi grossi limiti nella genericità del metodo e nella scarsa rilevanza in ordine alla diagnosi e all’impostazione delle soluzioni45.

Secondo l’autore la crisi d’impresa, nonostante si possa originare da molteplici fattori di differente natura, trova la sua principale causa nella mancanza di imprenditorialità e managerialità all’interno dell’azienda. Questa visione, sebbene possa sembrare di tipo soggettivo, vede fortemente correlati i fattori soggettivi con i fenomeni oggettivi e con le variabili di contesto, quali i fattori interni aziendali ed i fattori esterni ambientali: i fattori interni, essendo frutto di processi di selezione e di acquisizione, hanno comunque un’origine soggettiva, derivando da scelte umane, e quindi possono essere generalmente considerati come fattori indirettamente soggettivi; i fattori esterni possono essere osservati, solo in parte, come interamente oggettivi, in quanto possono essere il risultato di scelte discrezionali (il settore di appartenenza, la tipologia della clientela ecc.).

La crisi aziendale, quindi, è innanzitutto crisi dei valori imprenditoriali.

Una ulteriore classificazione, proposta da Bastia, ordina le crisi in base all’individuazione delle responsabilità, ossia crisi per cause soggettive e crisi per cause oggettive46. Le prime sono attribuibili alla responsabilità dei proprietari o di dirigenti per scelte di loro competenza rivelatesi sbagliate, per trascuratezza, per incompetenza a ricoprire certi ruoli o per cattivo uso delle risorse a disposizione, tra cui strumenti di prevenzione e di controllo o di gestione.

Le cause oggettive, invece non sono controllabili, in quanto si allontanano dalla responsabilità di qualsiasi soggetto dell’azienda (calamità naturali, provvedimenti legislativi, recessione economica ecc.).

44 P. BASTIA, Pianificazione e controllo dei risanamenti aziendali, Giappichelli, Torino, 1996, p. 116.

45 Si veda a riguardo: V. CODA, “Crisi e risanamenti aziendali”, in Sviluppo e Organizzazione, n. 75, 1983; C. VERGARA, Disfunzioni e crisi aziendali, Giuffrè, Milano, 1988.

46 P. BASTIA, Pianificazione e controllo dei risanamenti aziendali, Giappichelli, Torino, 1996, p. 116.

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26

Questa classificazione, tuttavia, non si sovrappone all’altra perché non sempre le cause interne sono soggettive, né quelle esterne sono sempre oggettive.

1.3.1 La crisi da inefficienza47

La crisi è determinata da motivi di inefficienza quando uno o più settori dell’attività aziendale operano con rendimenti non in linea con quelli dei concorrenti.

L’area nella quale tale situazione si manifesta con più evidenza è quella produttiva. Varie ragioni possono determinare un livello di costi superiore alla media del settore o comunque alle migliori aziende concorrenti: la disponibilità di strumenti produttivi in tutto o in parte obsoleti, la scarsa capacità o lo scarso impegno della manodopera, l’utilizzo di tecnologie non adeguate ecc., sono solo alcune delle possibili cause.

Lo stato di inefficienza non riguarda solo l’area produttiva, ma può essere rilevato anche in altre aree di attività: innanzitutto si può considerare l’inefficienza commerciale, determinata genericamente dall’esistenza di una sproporzione tra i costi di marketing ed i risultati ottenuti dal marketing stesso (ad esempio, si hanno costi troppo alti se la pubblicità è condotta malamente).

Anche nel settore amministrativo si possono rilevare delle situazioni di inefficienza, a causa di, ad esempio, eccessi di burocratizzazione (procedure amministrative troppo lunghe e complesse che generano costi troppo elevati o tempi di risposta non veloci); gravi carenze del sistema informatico; operatività insoddisfacente in uno o più settori dell’attività amministrativa.

Anche nel settore organizzativo si possono segnalare significative situazioni di inefficienza come, ad esempio, la carenza di mezzi di programmazione: la mancanza di strumenti di programmazione e controllo come il budget annuale; strumenti per la definizione dei compiti e delle responsabilità; per la determinazione dei risultati conseguiti dai singoli o dai gruppi ed infine per collegare i risultati coi compensi.

47 Per tale argomento sono stati utilizzati gli elaborati di L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e

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27

Infine, anche nell’ambito dell’attività finanziaria possiamo rilevare le condizioni di inefficienza, date principalmente dal più elevato costo, rispetto alla concorrenza ed alla generalità dell’aziende, dei mezzi a disposizione.

Le due fondamentali cause che portano l’azienda ad avere questi maggior costi sono la debolezza contrattuale dell’azienda e l’incapacità degli addetti alla funzione finanziaria. È facilmente dimostrabile, infatti, come un’azienda con deboli strutture patrimoniali e finanziarie e con scarsi risultati sia in uno stato di inferiorità rispetto al mercato, ad esempio nel trattare le condizioni per l’ottenimento del credito, che la costringe ad accettare condizioni altamente onerose e vincolanti.

1.3.2 La crisi da sovraccapacità/rigidità48

La crisi da sovraccapacità/rigidità trae origine da una delle seguenti situazioni:

- Duratura riduzione del volume della domanda per l’azienda (con

conseguente caduta della dimensione reale dei ricavi) originata da fenomeni di sovraccapacità produttiva a livello dell’intero settore. Tale situazione delinea un’ipotesi tipica di crisi derivante da un eccesso di capacità produttiva rispetto alle possibilità di collocamento sul mercato;

- Duratura riduzione del volume della domanda per l’azienda connessa alla

perdita di quote di mercato. In tal caso, la sovraccapacità interessa unicamente l’impresa colpita dal fenomeno; non si hanno, perciò, manifestazioni a livello settoriale. Per il modo in cui sono originate, le difficoltà appaiono allora più gravi, poiché connesse a debolezze specifiche dell’azienda (la concomitanza di inefficienze è quasi inevitabile);

- Sviluppo dei ricavi inferiore alle attese, a fronte di investimenti fissi

precostituiti per maggiori dimensioni. La situazione di sovraccapacità può essere vista sotto due aspetti: mancato od insufficiente aumento della quota di mercato rispetto alle attese; oppure errata previsione di sviluppo della domanda globale. Manifestatosi la sovraccapacità, per l’azienda non resta

48 Per tale argomento sono stati utilizzati gli elaborati di L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e

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28

che: aspettare il tempo necessario al fine che il naturale sviluppo della domanda riassorba l’eccesso di capacità, subendo delle perdite; oppure provare delle politiche di mercato aggressive per migliorare la quota di mercato nel breve periodo.

La crisi da sovraccapacità, quindi, viene a generarsi spesso dall’esistenza di sovraccapacità a livello settoriale, come di seguito riassunti:

- Sovraccapacità legata dalla ricerca di economie di scala;

- Sovraccapacità data da una forte riduzione della domanda globale in ragione

di mutamenti delle preferenze dei consumatori;

- Sovraccapacità determinata, in un Paese, da nuove correnti di importazione; - Sovraccapacità legata a scelte errate di previsione della domanda;

- Sovraccapacità dovuta a politiche manageriali non rispondenti alle reali

esigenze del mercato.

Un caso particolare di crisi da rigidità, non connessa peraltro a situazioni di sovraccapacità, si ha per variazioni all’aumento dei costi non controbilanciate da corrispondenti variazioni dei prezzi, soggetti a controlli pubblici.

In questo caso, pur in presenza di criteri razionali e capaci di assicurare il pieno adattamento dei prezzi ai costi, si possono manifestare difficoltà burocratiche od ostacoli di tipo politico che portano a ritardi che lasciano, anche per lunghi tempi, le aziende in condizioni di difficoltà.

1.3.3 La crisi da decadimento dei prodotti49

La crisi da decadimento dei prodotti sono, nella maggior parte dei casi, legati al fatto che il mix di prodotti offerto da una impresa si rileva inefficace e non più in grado di reggere la concorrenza (ad esempio, i prodotti non sono più attrattivi perché non sono stati tempestivamente aggiornati o rinnovati).

49 Per tale argomento sono stati utilizzati gli elaborati di L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e

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29

Questo può essere dovuto per carenza di capacità innovativa, scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, insuccessi, o perché i concorrenti hanno proceduto con maggiore velocità, capacità, efficienza.

Le crisi da decadimento dei prodotti sono espresse da due fenomeni: sotto il profilo commerciale, dalla tendenza a perdere quote di mercato; sotto il profilo contabile, dalla riduzione dei margini positivi tra prezzi e costi al di sotto del limite necessario per la copertura dei costi fissi o comuni (non imputati al prodotto) e per garantire una sufficiente misura di utile. L’assenza di utili e la mancata copertura, anche parziale, dei costi fissi o comuni trascina l’azienda nelle fasi preliminari della crisi, portando inizialmente al manifestarsi di segnali di squilibrio e successivamente provocando perdite. Gli strumenti operativi che consentono di misurare il fenomeno in esame, ovverosia la redditività del prodotto, sono il margine lordo di contribuzione e il margine semilordo di contribuzione50.

1.3.4 La crisi da carenze di programmazione/innovazione51

In alcuni casi, le crisi aziendali appaiono motivate da profonde carenze di alcune funzioni di rilievo, quali la programmazione e l’innovazione. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’incapacità a programmare va intesa come incapacità di adattare le condizioni di svolgimento della gestione ai mutamenti ambientali.

Le aziende totalmente incapaci di adoperarsi in tal senso operano guardando solo all’immediato, avendo, cioè, come unico obiettivo, il conseguimento di qualche risultato a breve termine, ma allo stesso tempo trascurano totalmente la predisposizione delle condizioni necessarie per affrontare il futuro.

50 Il margine lordo di contribuzione di un prodotto è il risultato economico con cui quel prodotto contribuisce alla copertura dei costi fissi e all’ottenimento di un profitto aziendale; il margine semilordo di contribuzione segnala il reddito di specifica competenza di un prodotto, conseguito impiegando risorse, finalizzate a quello specifico scopo, senza considerare le risorse generali o comuni. U. SOSTERO, P. FERRARESE, Analisi di bilancio. Strutture formali, indicatori e

rendiconto finanziario, Giuffrè, Milano, 2000, p. 162.

51 Per tale argomento sono stati utilizzati gli elaborati di L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e

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La conseguenza è un progressivo peggioramento delle capacità di reddito e, quindi, della capacità di resistere sul mercato alle inevitabili fasi di generale difficoltà. Le aziende in questione, inoltre, sono incapaci di stabilire precisi obbiettivi alla propria azione e di verificarne la compatibilità con le risorse disponibili.

Spesso queste aziende non hanno chiari obiettivi strategici perseguibili, che le porterà, conseguentemente, ad avere risultati economici negativi.

La carenza di programmazione significa spesso anche incapacità di coinvolgere il management ed il personale nell’attuazione dei conseguenti obiettivi operativi. La formazione di programmi e l’individuazione di chiari obiettivi sono, infatti, strumenti che sollecitano il coinvolgimento di tutte le risorse umane; al contrario, la carenza, la contraddittorietà o l’incertezza degli obiettivi e l’indeterminatezza riguardante le vie per il loro raggiungimento provocano reazioni negative, dove il management e il personale non si sentono coinvolti all’azione in corso di svolgimento, alla quale partecipano spesso con scarso impegno.

Altro rilevante fattore di crisi è la carenza di innovazione: l’impresa ben difficilmente si mantiene nel tempo produttiva con risultati positivi, senza frequenti iniezioni di nuove idee, che si traducono nell’individuazione di strategie di differenziazione e quindi di nuovi prodotti, di nuovi mercati, di nuovi modi di produrre, di nuovi modi di presentare e diffondere i prodotti, di accrescere la lealtà dei clienti, e via dicendo. In generale, ciò significa la capacità di studiare nuove opportunità e di ricercare nuove e più valide combinazioni.

Per l’innovazione pura la dimensione aziendale crea la differenza: nelle imprese di limitate dimensioni la ricerca potrebbe essere meno favorita avendo limitate risorse, mentre nelle aziende di grandi dimensioni le nuove idee, economicamente produttive, si associano molto spesso alla ricerca sui prodotti, sui processi produttivi, sui mercati, sui consumatori, sui mezzi di promozione ecc., e quindi su importanti investimenti. Una ricerca dimensionalmente idonea e qualitativamente efficace è spesso la premessa indispensabile alle innovazioni e in alcuni rami d’industria è addirittura condizione imprescindibile di sopravvivenza dell’azienda. Una ricerca insufficiente, invece, può anche non produrre conseguenze negative nel breve periodo, ma nel medio-lungo periodo essa può portare ad esiti dannosi.

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31

1.3.5 La crisi da squilibrio finanziario/patrimoniale52

Gli squilibri di natura finanziaria e patrimoniale sono spesso indicati come causa della crisi (anche se molto spesso ne sono una conseguenza, salvo alcuni chiari casi). Occorre innanzitutto chiarire il concetto di squilibrio finanziario.

Con questa espressione si fa riferimento a situazioni caratterizzate dai seguenti eventi:

- Grave carenza di mezzi propri (a titolo di capitale) e corrispondente netta

prevalenza di mezzi a titolo di debito;

- Netta prevalenza di debiti a breve termine rispetto alle altre categorie di

indebitamento;

- Squilibri tra investimenti duraturi e mezzi finanziari stabilmente disponibili; - Insufficienza o inesistenza di riserve di liquidità;

- Scarsa o nulla capacità dell’azienda a contrattare le condizioni del credito,

data la necessità di disporne ad ogni costo;

- Nei casi più gravi, si ha anche difficoltà a seguire e affrontare le scadenze,

con il conseguente ritardo di alcune categorie di pagamenti. La successione dei fatti è rappresentata dal seguente schema 1.5.

52 Per tale argomento sono stati utilizzati gli elaborati di L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e

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32

Schema 1.5. La successione dei fatti che portano dallo squilibrio finanziario alla crisi.

Fonte: L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al volere, EGEA, Milano, 1995.

Lo squilibrio finanziario è, senza dubbio, generatore di perdite economiche. Ciò dipende dall’eccezionale entità degli oneri finanziari, provocati dal pesante indebitamento e dal suo elevato costo e porta a identificare, negli squilibri finanziari, la causa tipica della crisi. Tuttavia, non è da escludere che lo squilibrio finanziario sia, a sua volta, generato da altri profondi fattori di crisi: inefficienze, rigidità, decadimento dei prodotti, carenze di programmazione e di innovazione. Queste potrebbero essere le vere cause che minano gradualmente la vitalità dell’azienda e che, tra l’altro, la indeboliscono sul piano finanziario.

Lo squilibrio finanziario si associa, spesso, ad un altro tipo di disequilibrio che, più propriamente, può essere definito patrimoniale. Esso consiste nella scarsità di mezzi vincolati all’azienda a titolo di capitale e di riserve rispetto ad altre componenti della situazione patrimoniale (indebitamento, totale dell’attivo) e della situazione economica (giro d’affari, entità delle perdite effettive e potenziali).

La scarsità di mezzi propri espone più intensamente l’azienda al rischio di crisi, a parità di altre condizioni, in quanto essa ha poche risorse da opporre alle perdite che si producono.

Squilibri finanziari

Perdite economiche (causate da alti oneri finanziari)

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33

Un’azienda ampiamente dotata di capitale e di riserve può, al contrario, assorbire perdite di un certo rilievo, senza che l’impoverimento che ne deriva giunga al punto di compromettere il necessario equilibrio tra attività e passività.

1.4 La previsione della crisi

La crisi può essere scaturita da molteplici cause e può manifestarsi in diverse modalità, come abbiamo visto nel paragrafo precedente. La cosa fondamentale da evidenziare, per quanto riguarda la crisi, è che essa si verifica, nella maggior parte dei casi, come conseguenza dell’inadeguatezza dei modelli strategici, gestionali ed organizzativi. Questo comporta che la crisi, oltre ad essere un fenomeno ricorrente, è anche un fenomeno prevedibile e, prima che abbia prodotto danni difficilmente riparabili, tempestivamente affrontabile.

Guatri53, infatti, afferma che l’impresa deve imparare a convivere con il rischio del declino e della crisi, nel senso che l’impresa deve essere capace di convivere con tutte quelle situazioni che originano il declino e la crisi (ad esempio, come un errato e tardivo adattamento all’ambiente; come carenza di flessibilità; come forte degrado delle risorse immateriali) e che sono destinate a durare per un lungo periodo ed a portare deterioramenti nell’impresa stessa.

L’impresa deve sapersi misurare per superare tutte queste situazioni, diventate negative, per innescare il rilancio. Molto spesso, però, le imprese non sono in grado di cogliere per tempo i segnali di allarme, non riuscendo a limitare efficacemente gli effetti dannosi della crisi54.

Gli strumenti di previsione sono stati, quindi, studiati per identificare tempestivamente i sintomi della crisi, consentendo, così, all’alta direzione e al management di intervenire con rapidità ed in modo appropriato.

53 L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al volere, EGEA, Milano, 1995, p. 59. 54 Nella prima fase delle crisi aziendali si pongono le premesse per gli sviluppi successivi del fenomeno: sorgono cioè le ragioni delle future difficoltà. Ma mentre le fasi centrali e finali hanno manifestazioni evidenti, e talvolta clamorose, le prime sono appena accennate, o di equivoca interpretazione; e non di rado, perciò, difficili da individuare. L. GUATRI, Crisi e risanamento delle

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34

La previsione della crisi può essere affrontata con vari strumenti che si possono distinguere in tre livelli di accertamenti, che si caratterizzano per il grado di complessità e di sofisticazione degli strumenti adottati:

a) Metodi fondati sull’intuizione; b) Metodi fondati su indici; c) Metodi fondati su modelli.

I metodi fondati sull’intuizione si basano sulla riconoscibilità esterna dei fattori di crisi e con questi le imprese possono tentare di monitorare l’andamento aziendale, individuando anticipatamente, l’eventuale crisi, prima, quindi, che essa si possa verificare. I fattori di crisi più noti sono, ad esempio (si veda la tabella 1.6), l’appartenenza a settori decadenti od in difficoltà per momentanee cadute della domanda; la perdita di quote di mercato; le inefficienze produttive, commerciali, amministrative, organizzative, finanziarie; le carenze manageriali ed organizzative; gli squilibri finanziari e patrimoniali. Un altro importante fattore di crisi, quando si manifesta, è la presentazione del bilancio in perdita, che, tuttavia, segnala, quando queste perdite sono molto rilevanti, che la crisi è già in uno stato avanzato e conseguentemente la sua previsione è ormai tardiva e gli effetti negativi che si manifesteranno, anche nei confronti dei creditori, saranno difficilmente eliminabili. Proprio per questi motivi, i metodi più avanzati di previsione si predispongono nell’identificare la probabilità della crisi con un ampio anticipo temporale rispetto alla sua chiara ed evidente manifestazione55.

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35

Tabella 1.6. I fattori di crisi: riconoscibilità e possibilità di intervento. Fattori riconoscibili Riconoscibilità

esterna

Possibilità di intervento

Appartenenza a settori maturi o decadenti

Elevata Minima

Appartenenza a settori in difficoltà per diminuzione della domanda

Elevata Minima

Perdita di quote mercato Media Media

Inefficienze produttive Minima Elevata

Inefficienze commerciali Media Elevata

Inefficienze amministrative Minima Elevata

Inefficienze organizzative Minima Elevata

Inefficienze finanziarie Media Media

Rigidità dei costi Media Media

Carenze di programmazione Minima Elevata

Scarsi costi di ricerca Media Elevata

Scarso rinnovo dei prodotti Media Media

Squilibri finanziari Elevata Media

Squilibri patrimoniali Elevata Media

Blocco dei prezzi Elevata Minima

Fonte: L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffrè, Milano, 1986.

I metodi basati su indici si fondano sul principio di giudicare la rischiosità dell’azienda osservando la deviazione di alcuni dei suoi indicatori più importanti rispetto alle generalità delle aziende o alla media di un gruppo di aziende selezionato56. Questi indicatori possono essere suddivisi in patrimoniali, economici e di rotazione: i primi possono essere rappresentati come quozienti o come indici.

(37)

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Con riferimento allo Stato Patrimoniale i quozienti mettono a confronto una voce dell’attivo con una voce del passivo, mentre gli indici misurano una voce dello Stato Patrimoniale con il totale della sezione di cui essa fa parte. Gli indicatori economici e di rotazione assumono generalmente la denominazione di indici in quanto confrontano grandezze economiche con grandezze patrimoniali.

Questa metodologia si basa, infatti, sul calcolo di specifici indicatori e consente di vigilare sullo stato di salute dell’impresa in maniera piuttosto efficiente ed efficace, di individuare i punti di forza e debolezza dell’organizzazione, di indagare gli eventuali squilibri ed inefficienze del sistema e, quindi, risulta capace di fornire utili spunti per la diagnosi dei potenziali fattori di crisi57. I valori di bilancio, infatti, rappresentano le conseguenze delle azioni umane e del comporsi, più in generale, delle variabili interne ed esterne e perciò, nel momento in cui il bilancio evidenzia, in maniera certa ed evidente, sintomi di crisi, le relative cause potrebbero già attraversare la fase degenerativa, difficilmente sanabile; pertanto viene utilizzata questa metodologia, non tanto per riconoscere le crisi già in atto, ma per cogliere, come detto in precedenza, i primi squilibri, intesi come misure di sintomi o fattori negativi, per una eventuale crisi futura58.

Per misurare gli squilibri si possono distinguere gli indici statici e i flussi di valori: gli indici statici sono basati sul confronto tra grandezze riferite ad un dato momento (classi di attività, classi di passività, capitale netto ecc.) e consentono di valutare le condizioni di solidità, liquidità e redditività dell’impresa59.

57 G. MARIANI, Dalla crisi alla creazione di valore: il processo di turnaround, Pisa University Press, Pisa, 2012, p. 50.

58 A. DANOVI, A. QUAGLI, Crisi aziendali e processi di risanamento: modelli interpretativi,

prevenzione e gestione della crisi d’impresa, casi aziendali, IPSOA, Milano, 2012, p. 45.

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