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Cambiamenti identitari della partenza dell’arrivo

I luoghi dell’abitare

5.1 Cambiamenti identitari della partenza dell’arrivo

Nell’introduzione al libro La mente del viaggiatore7 Eric Leed sostiene che nel corso della storia il viaggio abbia agito come «una forza che trasformava le personalità individuali, le mentalità ed anche i rapporti sociali». Nel viaggio infatti c’è un’implicita concezione della «trasformazione», intesa come «mutamento» che può «spogliare, ridurre o logorare» chi lo intraprende, ancor di più se si tratta di un viaggio difficoltoso e pericoloso –come spesso accade per i migranti–. Questo può accadere perché l’identità del viaggiatore si «impoverisce» tanto da ridursi ai suoi «elementi essenziali».8

È doveroso precisare, però, che Leed non fa alcun riferimento all’esperienza migratoria nella trattazione dei tre momenti del viaggio che ha individuato, ma con accortezza e i dovuti adattamenti, possono essere applicati anche alla diaspora, la quale per molti migranti non prevede la fase del «ritorno», che invece l’autore prende in considerazione per alcune tipologie di viaggio da lui trattate.

Nella prima fase, la «partenza», lo studioso spiega che si ha la perdita di un’unione raggiunta con l’«ambiente» originario, una perdita che spesso è «intrinsecamente affettiva». Questa separazione in alcuni casi è dettata dall’esigenza dell’individuo di lasciarsi alle spalle ciò che ha definito la sua «identità civile». Ne è un esempio Adua, la protagonista dell’omonimo romanzo di Igiaba Scego, 4 Ivi, p. 40. 5 Ivi, p. 58. 6 Ivi, p. 332.

7 ERIC J. LEED, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, Il Mulino, 1992. 8

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che decide di fuggire dal suo paese, inseguendo il sogno di diventare attrice, per allontanarsi da una situazione infelice e cercare un segno di riconoscimento e approvazione che la famiglia non le manifestava.

La partenza inoltre dà luogo a una sofferenza (ad una sorta di «lutto») perché prevede l’allontanamento (nella maggior parte dei casi, fortunatamente momentaneo) dai «rapporti e dagli arredi» che qualificano l’identità di una persona. Considerato da un’altra prospettiva, però, questo allontanamento potrebbe consentire al viaggiatore-migrante di acquisire una «nuova coscienza» della sua identità, a volte anche di arricchirla attraverso nuove esperienze compiute nel paese ospitante.

Il momento che Leed chiama del «transito» è sicuramente nella maggior parte dei migranti un tempo di disagio. Secondo l’autore, può portare a «particolari tipi di riflessione», laddove le condizioni del «periodo di movimento» non siano estreme, per cui la principale preoccupazione è sopravvivere. Come è avvenuto per il giovane marito di Adua sbarcato sulle coste di Lampedusa, che lei con una affettuosa e amara ironia chiama «Titanic».

La terza fase, l’«arrivo», coincide con un tentativo da parte del viaggiatore-migrante di «fondare un’unione e una coesione nuove tra il soggetto ed il contesto» in cui approda. L’autore sostiene che questo processo abbia «specifiche caratteristiche epistemologiche»,9 infatti ritiene che comporti un’attenzione all’osservazione e alla conoscenza della nuova situazione, delle tradizioni e degli usi del nuovo paese raggiunto.

L’allontanamento dalla propria casa e dalla propria terra comporta inevitabilmente la perdita di una parte (forse la maggiore) della propria identità, che produce una profonda sofferenza che «fa sorgere la sensazione di invisibilità» e, nel caso degli esuli, diviene particolarmente acuta. Questo accade perché «il distacco dell’individuo dai riconoscimenti e dalle identificazioni che lo definiscono, è fonte di sofferenze».10 Però, secondo Leed, qualunque luogo raggiunto in cui non ci siano delle condizioni estreme di vita, seppur difficoltose, può diventare «matrice di identità» per coloro che lo raggiungono e creano con esso una coesione, fanno «esperienza di esso».

In un nuovo paese, (almeno inizialmente) il migrante può sentirsi come una «individualità autonoma» al di fuori dei contesti e dei rapporti che la «identificano», ed il nuovo ambiente risulta un luogo dal «significato misterioso» da decodificare, inizialmente soltanto sulla base delle apparenze, successivamente per mezzo dell’integrazione e della conoscenza del paese ospitante e

9 Ivi, p. 36. 10

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della sua cultura.11

Per quanto riguarda la fase dell’«arrivo», lo studioso sostiene si tratti di un momento particolare perché, si dovrebbe venire a «creare un livello di coesione tra la persona ed il luogo» ospitante, tanto da poterlo chiamare «casa». Si possono formare dei «legami» di riconoscimento e accettazione reciproci tali per cui si potrebbe andare incontro ad una «ridefinizione nell’essenza sociale» che permetterebbe al viaggiatore, che ha ampliato la sua identità «rimappandosi», di percepirsi almeno al pari di un indigeno, se non diventare parte della «specie indigena».12 Questo potrebbe avvenire, spiega l’autore, perché c’è la possibilità che il viaggiatore-migrante in primis venga riconosciuto e accettato, successivamente perché attui una sorta di «trasformazione» diventando una persona «familiare», un «corpo sociale inserito» in una particolare realtà, e in un particolare territorio. Leed definisce questi processi «procedure di incorporamento» e di «acclimatamento, adattamento» che possono rivelare qualcosa sui «metodi di territorializzazione umana», sulle modalità con cui gli esseri umani «stabiliscono» dei legami con il territorio, la terra, la topografia.13

Le trasformazioni che compie l’«individuo sociale» sono il frutto di un campo di riconoscimenti che mutano. Pertanto si può ipotizzare che il riconoscimento identitario si crei attraverso atti di «identificazione» mutevoli, attraverso i quali l’identità di un soggetto può trovare nuovo terreno dove far crescere le proprie radici. In questa dinamica la presenza di “un’alterità” è importante per permettere ad “un io” di potersi riconoscere, per poter affermare il proprio “Sé”.14 Le sue trasformazioni sono quindi influenzate dal mutare dell’“ambiente” che gli permettere di identificarsi ma anche di affermare la sua diversità.

Pertanto, scrive Leed, il viaggio diviene un «veicolo» che induce alla «trasformazione» non solo individuale, ma anche collettiva. Per quanto riguarda il mutamento dell’individuo, spiega che questo avviene perché la persona alla fine del percorso «può essere diversa da quella che era» nel luogo d’origine prima di intraprendere il viaggio.

Da alcuni romanzi presi in esame si evince, però, quanto sia importante, nel caso dei migranti, ritrovare degli elementi affini alla cultura del paese d’origine (cibi, spezie, profumi e usanze), per potersi riconoscere, per poter ritrovare e radicare quella parte di identità originaria, “abitarla” e «abitare» il nuovo spazio. In un secondo tempo l’identità viene arricchita con nuovi 11 Ivi, p. 64. 12 Ivi, p. 139. 13 Ibidem. 14 Ivi, p. 252.

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elementi acquisiti nel paese ospitante, che permettono allo straniero di non sentirsi troppo escluso e diverso dal nuovo contesto di norme e tradizioni in cui si trova a vivere. Pertanto il migrante non cerca le distinzioni per poterle superare, ma le affinità o le somiglianze in cui potersi riconoscere.

Eric Leed conclude il suo testo ribadendo il concetto che il «viaggio è un’esperienza di perdita continua», anche quando si verifichi il radicamento nella nuova terra, e che il «mondo creato dal viaggio è segnato tanto da ciò che manca, quanto da ciò che è presente».15