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L’identità linguistica

Paolo Proietti spiega come il «moto di erranza» presente nella coscienza dei migranti, si traduca in un processo di costruzione e ricostruzione dell’identità che implica il confronto costante con la realtà “altra” del paese d’arrivo. Pertanto, l’esperienza che vive il migrante è fatta di «compromessi» dato che è «straniero nel paese in cui si trova», è lontano dalla «patria che sopravvive nella sua memoria», però è anche straniero per quest’ultima. Si trova «schiacciato» fra due realtà e in queste circostanze il concetto di appartenenza si indebolisce e si «sdoppia», inizialmente tra «Qua e l’Altrove, fra il Sé e l’Altro», per poi assumere contorni sfumati collocandosi in una «posizione fluttuante “fra” i concetti di identità e alterità».1 Per alcuni autori si può ipotizzare che la condizione di «dualità» in cui vivono loro stessi o i loro personaggi, si possa riscontrare anche nell’aspetto linguistico. Infatti spesso i testi contengono alcune parole, o brevi frasi, nella lingua del paese di provenienza, probabilmente per cercare di mantenere un elemento che li identifichi con quella terra, che in qualche modo permetta loro di sentirne ancora un senso di appartenenza.

Daniele Comberiati, riferendosi principalmente agli autori della prima generazione della letteratura della migrazione, sostiene che i loro testi si caratterizzino per una «dualità» che non riguarda solo il «doppio autore», ma anche la «tematica linguistica».2 Secondo lo studioso, infatti, questi scrittori portano con sé una «tensione linguistica che rappresenta il passaggio dalla lingua del paese di provenienza e quella del paese d’arrivo». La provenienza dei primi autori è molto varia: Pap Khouma e Said Moussaba provengono dal Senegal; Mohammed Bouchane e Salah Methnani sono originari del Marocco; Bozidar Stanisic è bosniaco; e Fernanda Farias de Albuquerque era brasiliana. Ciascuno di loro integra la lingua italiana con «parole, espressioni e costruzioni tipiche della lingua madre». Questa pratica però è riscontrabile anche negli scrittori della seconda generazione che riportano nei testi la loro “seconda lingua madre”, la lingua parlata

1

PAOLO PROIETTI, Lontano dalla lingua madre:in viaggio con la narrativa del Secondo Novecento, Roma, Armando, 2000, p. 110.

2 DANIELE COMERIATI, Scrivere nella lingua dell’altro: la letteratura degli immigrati in Italia (1989-2007), Bruxelles,

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dalla maggior parte della loro famiglia d’origine.

Per gli scrittori migranti di seconda generazione, emerge una differenza rispetto ai loro predecessori: per scrivere non si «appoggiano ad una lingua-tramite» per poi giungere all’italiano, ma scrivono direttamente nella lingua del paese che ha dato loro i natali (o nel quale si sono trasferiti in giovane età), e integrano questo l’italiano con espressioni arabe, somale, in lingua tigrina e in amarico, come avviene, ad esempio, per Igiaba Scego e Gabriella Ghermandi. Infatti Comberiati sostiene che il «tratto fondamentale» della letteratura della migrazione sia «l’uso della lingua specifica», la lingua madre per l’appunto, perché acquisisce valore e forza attraverso l’incontro con «altre persone di matrice linguistica differente».

Secondo quanto scrive Sonia Pozzi,3 l’aspetto linguistico nei migranti è di notevole importanza per mantenere «l’identità etnico-culturale». Questa ipotesi si può estendere a tutte le persone migranti, e nel caso degli scrittori, si può considerare vera sia per quelli della prima generazione, che per quelli della seconda. Per questi ultimi, probabilmente non si tratta di mantenere un’identità, quanto piuttosto di affermarla e sentirsi parte di una comunità che non si identifichi solamente con la popolazione del paese in cui sono nati, ma si estenda anche a quella originaria dei genitori. Pozzi sostiene che «l’identità etnica», così come quella linguistica, siano due delle molteplici componenti dell’identità della persona, che «coesistono tra loro in costante mutamento e che il soggetto possiede ed esperisce situazionalmente nella quotidianità».4 In particolare sono gli aspetti identitari che si trovano in stretta relazione con le «origini ed il sentimento di appartenenza [ad un] gruppo etnico». La lingua delle origini «è il “codice” della continuità oggettiva e identitaria dell’appartenenza, delle radici e della memoria familiare».5 Quindi la lingua diviene il «mezzo» che consente di identificarsi con un «gruppo etnico di origine», permette di creare coesione al suo interno, anche qualora le persone si trovino in una terra straniera.

Pozzi spiega poi che «la lingua comune, il logos,» è uno degli aspetti che definiscono un’etnia, perché fa parte del «complesso simbolico vissuto dai popoli come costitutivo della loro identità e come principio di aggregazione sociale».6 Insieme a «ethos, le norme condivise»; a «genos, la discendenza comune»; a «epos, il mito dell’origine comune»; ed infine a «topos, la madre patria», la lingua diviene quindi un veicolo attraverso cui tramandare (spesso da una generazione all’altra)

3 SONIA POZZI, Trasmissione della lingua, integrazione e identità nelle famiglie immigrate, in

http://www.ledonline.it/LCM/allegati/700-0-Lingue-Migranti_Pozzi.pdf, 2014, consultato maggio 2017

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Ivi, p. 3.

5 Ivi, p. 4. 6

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norme, regole, valori e tradizioni, nelle quali potersi riconoscere e sentirsi “appartenere”, anche e soprattutto per una persona che ha più di una “lingua madre”, più di una patria e più tradizioni. Ingy Mubiyai e Igiaba Scego nell’introduzione all’antologia di racconti Quando nasci è una roulette, scrivono che per le persone con le «identità plurime», che ne racchiudono in sé «una due o anche tre», non è facile riconoscersi in una comunità: «sono italiani e non lo sono, sono equilibristi dell’essere». «Il loro Sé non è incasellabile o catalogabile. […] In loro si trova una gran voglia di essere parte di qualcosa, [… nonostante non si] sentano né carne né pesce, ma uovo…». [Vorrebbero potersi] sentire se stessi sempre e ovunque,7 senza diventare parte di “un niente” [a volte creato dall’omologazione dell’“integrazione”], […] ma avere un contesto determinato» da poter abitare e in cui esprimersi per ciò che sono.8