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Frammenti di Somalia a Roma

I luoghi dell’abitare

5.3 Frammenti di Somalia a Roma

Adua, la protagonista dell’omonimo romanzo, racconta che in Piazza dei Cinquecento, più che in tutta Roma ha identificato un luogo che potesse riconoscere come suo, dove ritrovare il sorriso della sua gente e il suo paese, in una zona dietro la ferrovia era cresciuta quella «strana Somalia». Lì si è persa e ritrovata e grazie ad una cara amica ha conosciuto la possibilità di una nuova vita.

Piazza dei Cinquecento è legata alla mia storia come nessuna. Piazza dei migranti, dei primi arrivi, di tutte le partenze, dei miei tanti rimpianti. In quella piazza così sconnessa da sé, io mi sono ritrovata a pensare mille volte. […] Lì ho conosciuto l’infamia. Ma è lì che grazie alla mia amica Lul, anni dopo, mi sono rifatta un’altra vita. […] Lì, in anni troppo bui, ho ritrovato il sorriso della mia gente. Dietro la stazione si vendeva l’halua dolce per cui andavo matta. Devo attraversare piazza dei Cinquecento per raggiungere quella strana Somalia che era cresciuta nelle retrovie di quel quartiere ferroviario. Anche il mio Titanic l’ho incontrato a piazza dei Cinquecento. […] È lì, in quella piazza che l’Italia aveva dedicato a quei soldati morti in Africa orientale, che io mi sono formata un amore di cartapesta.28

Un altro frammento di Somalia che Adua trova a Roma è il monumento situato alla base del «piccolo obelisco» in Piazza Santa Maria sopra Minerva. Si tratta dell’elefantini scolpito da Bernini, quello che i romani chiamano affettuosamente «il pulcin della Minerva».29

In questo elefante Scego identifica un elemento che riunisce i suoi due paesi: l’Italia e la Somalia, come racconta nelle pagine di La mia casa è dove sono. Alla scultura vengono attribuiti caratteri umani, infatti nel suo sguardo si riconosce quello dell’esule, come quello della madre di Scego e di Adua: rassegnato per l’esilio e «irriverente».30 Nei romanzi La mia casa è dove sono e Adua, le protagoniste (per il primo testo coincide con l’autrice e narratrice) rispecchiano nella scultura dell’animale la loro condizione di solitudine e per questo instaurano un rapporto di amicizia, tanto da attribuirgli il ruolo di fedele confidente a cui raccontare la loro vita, per Adua diviene una presenza con la quale sentirsi protetta, al sicuro e ascoltata, cosa che invece non accadeva a Magalo con i suoi familiari. Infatti la donna, rivolgendosi all’elefantino, fa conoscere al lettore le

28 I. SCEGO, Adua, cit., p. 169.

29 EAD, La mia casa è dove sono, cit., p. 55. 30

Ibidem. L’autrice racconta un aneddoto relativo alla costruzione dell’opera: «Bernini, infuriato perché gli avevano sabotato il progetto originale, disegnò l’elefante in modo che puntasse le terga verso il vicino convento. La coda poi, quella malandrina, è leggermente spostata, come a salutare i domenicani (i frati commissionari) in maniera piuttosto scurrile!».

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peggiori vicissitudini che ha dovuto vivere, i suoi pensieri più intimi e dolorosi. Ne è un esempio il racconto del crudele episodio di quando «l’uomo con cui era cresciuta» e che credeva suo padre, l’ha rinnegata per affidarla «all’uomo che le ha permesso di venire al mondo», il padre biologico. Nell’animale ritratto nella scultura la protagonista riconosce un frammento della sua terra, della sua famiglia, in lui si riconosce perché rivede il medesimo destino di esule che non saprà se e quando avrà la possibilità di rivedere il suo paese.

Dove ci sei tu elefantino, mi sento protetta vicino a te. Qui [a Roma], sono a Magalo, a casa. […] Tu riesci ad ascoltarmi. Anche mio padre aveva le orecchie grandi ma non mi ha mai saputo ascoltare. […] Con te è diverso. Per questo ringrazio il Bernini di averti creato. Un piccolo elefante di marmo che sostiene l’obelisco più piccolo del mondo. […] Non offenderti se ti dico questo. Lo sai, io ho bisogno di te. Lul è partita e non so ancora se la rivedrò. Ma tu me la ricordi. Sai ascoltare. Ho bisogno di essere ascoltata, altrimenti le parole si sciolgono e si perdono. Ci intendiamo a meraviglia io e te, dopotutto veniamo dall’Oceano Indiano. Il nostro oceano di magia e profumi. Oceano di separazioni e ricongiungimenti. Sei un errabondo come me.31

Per tutto il romanzo la protagonista si rivolge spesso all’elefantino in un monologo che fa trasparire i suoi pensieri interiori, i suoi ricordi, anche i più dolorosi e tristi, forse in un tentativo catartico di esternazione condivisa del dolore che si porta dentro.

Per fortuna con te elefantino mi posso sfogare. All’inizio tutti questi ricordi mi hanno fatto paura. Temevo che le tue gradi orecchie mi strappassero l’anima dal petto. Adesso mi sono tranquillizzata. Sento che andremo fino in fondo io e te. Tu e le tue orecchie siete rimasti gli unici ad ascoltare la mia voce. Il mondo mi ha dimenticata. Sei solo tu, elefantino, a ricordarti di me, di Adua.32

La vita di Adua è costellata di ferite che emergono dal racconto. Attraverso un iniziale flash-back Igiaba Scego narra della relazione coniugale tra Adua ed il marito che sembra finalizzata maggiormente ad un reciproco aiuta piuttosto che sancire un matrimonio d’amore. Una situazione simile poi si trova a conclusione del romanzo, quasi a voler tracciare la circonferenza di un cerchio destinato a contenere la storia passata della vita di Adua, di suo padre Zoppe e della Somalia.

Così come l’elefantino assolve simbolicamente il ruolo di confidente, anche gli altri oggetti e le molteplici situazioni assumono significati simbolici, almeno così come vengono narrati dalla

31 I. SCEGO, Adua,cit., p. 11. 32

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protagonista. Infatti Adua ipotizza che il turbante che indossa, e che era appartenuto al padre, rappresenti il «giogo» della sua «redenzione», ma anche il ricordo della sua «schiavitù».

Di [mio padre] mi era rimasto solo quella stoffa blu, quello strano turbante che fino a poche ore fa non mi sarei levata dalla testa per niente al mondo. E poi quel gabbiano con un gesto, in mezzo a Piazza dei Cinquecento, me lo ha strappato via. Ti rendi conto, elefantino mio, di quel che ha fatto? Era il segno della mia schiavitù, delle mie antiche vergogne. […] Era il giogo che avevo scelto per redimermi. Come fare senza la mia schiavitù in testa? Come fare a espiare ora tutte le mie colpe? […] Elefantino, ahi quanti errori faccio. Mi mancano mio padre e mio marito.33

L’autrice costruisce questa scena del racconto in modo da poter indurre il lettore ad una lettura simbolica dell’accaduto: in Piazza dei Cinquecento, mentre Adua saluta il marito (effettivamente separandosi da lui) prima che lui prenda il treno per recarsi in Germania, un gabbiano le vola incontro e le strappa dal capo il turbante che indossava, e che non riesce più a recuperare. Forse Scego vuol simbolicamente sottintendere che è ormai tempo per Adua di lasciar andare il suo passato, i vecchi ricordi, i sensi di colpa verso se stessa e verso la famiglia per il dolore provocato e la delusione che ha dato loro? Se così fosse, non si può, invece, pensare di estendere la medesima situazione per quanto riguarda la storia della Somalia e dell’Italia. Infatti in tutti i suoi racconti è presente nello sfondo la ricostruzione storica del passato, che, come dichiarato dall’autrice stessa34, non ha lo scopo di riaprire antiche ferite e far riemergere dolorosi ricordi, ma piuttosto ha l’intenzione di far conoscere la storia che per un periodo ha fatto incontrare e scontrare due popoli, affinché situazioni simili non si ricommettano in futuro.

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Ivi, pp. 172-173.

34 Quando i carnefici siamo noi, 12° incontro Premio Terzani, Udine 5-8maggio 2016, iniziativa di Vicino/lontano:

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