di Bernardino Luiselli
pestem fugo, festa decoro” (Lodo il Dio vero, chiamo il popolo a raccolta, riunisco il clero, piango i defunti, metto in fuga la peste, rallegro i dì di festa).
“Vox mea, vox vitae - Voco vos, ad sacra venite” (occorre tradurre?).
Campane e campanili non potevano non ispirare musicisti e poeti, parti-colarmente quelli dell’epoca romantica coincidente in Italia con il Risorgi-mento. Spigoliamo fra quest’ultimi, cominciando dall’Inno nazionale:
“Il suon d’ogni squilla i Vespri suonò” (per chi se ne fosse dimenticato:
i Vespri citati da Goffredo Mameli sono quelli che, nel 1282, segnarono a Palermo la rivolta dei Siciliani contro gli occupanti francesi).
“Su, Lombardi! ogni vostro comune! ha una torre ogni torre una squil-la: / suoni a stormo...” ruggisce Giovanni Berchet, incitando i propri com-patrioti alla lotta per l’indipendenza.
Scevro, invece, da ogni risonanza epica si diffonde il suono delle cam-pane leopardiane: “Questo giorno ch’omai cede alla sera, / festeggiar si costuma al nostro borgo. / Odi per lo sereno un suon di squilla ...”; “Or la squilla dà segno / della festa che viene; / ed a quel suon diresti / che il cor si riconforta ...”.
“Viene il vento recando il suon dell’ora/ dalla torre del borgo. Era conforto / questo suon, mi rimembra, alle mie notti ...”.
Ai bronzi di Recanati idealmente fanno eco quelli del borgo maremma-no del Carducci, “Però che le campane suonavamaremma-no su da ‘l castello / an-nunziando Cristo tornante dimani a’ suoi cieli ...”; “... la campana squilli / ammonitrice: il campanil risorto canti di clivo in clivo alla campagna / Ave Maria ...”.
“Il suon dell’ore vien col vento / dal non veduto borgo montano ...” so-spira Giovanni Pascoli, quasi citando il conte Giacomo.
Nel minuscolo mazzo di versi forse non sfigura qualche rigo in prosa, specie se questa è di Alessandro Manzoni: “... si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno” (nel villaggio di Renzo e Lucia). Elegiaco: “Ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fienile, tendon l’orecchio, si rizzano. Co-s’è? CoCo-s’è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi?”.
Splendido attacco di un indimenticabile pezzo di cronaca nera: “... ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio, come un’on-da di suono non bene espresso, ma che, pure aveva un non so che di allegro.
Stette attento, e riconobbe uno scampanane a festa lontano; e dopo qual-che momento, sentì anqual-che l’eco del monte ... Di lì a poco, sente un altro scampanio ...”.
È il preludio, la colonna sonora, alla conversione dell’innominato. Però, che ...campanaro quel don Lisander.
Queste cinque nella vecchia foto - correva quando essa fu scattata nel cortile della fonderia Bianchi di Varese, l’anno 1913 - sono le campane de-stinate a potenziare il concerto, in origine di soli tre strumenti, della chiesa di Sant’Antonio abate in Vedeseta, il cui campanile è stato appena ultimato, in sostituzione di quello antico e fatiscente. A prelevarle, dalle rive dell’En-na sono giunti a quelle dell’Olodell’En-na, con i signori padrini e le signore madri-ne, prevosto (don Artusi) e sindaco (Vitari). Tutti in ghingheri, le dame con borsetta e ombrellino (pardon, parasole) e i cavalieri in cappello e catena in vista sul gilè, Santa Romana Chiesa paternamente protettiva (mano sulla spalla) nei riguardi della più alta carica civile della comunità.
La festosa accoglienza riservata ai sacri bronzi rappresenta una pagina memoranda e vivace negli annales valligiani. Dal “Chronicon” apprendia-mo che le otto campane assolsero decorosamente per un trentennio il loro compito.
Anno 1913: arrivo delle campane a Vedeseta. Tra i presenti, il parroco don Artusi, il sindaco Vitari, i padrini e le madrine
Allietarono festività, sposalizi, battesimi e cresime (queste, soprattutto, visto che ad amministrarle saliva fin quassù, valicando a dorso di mulo co-me San Carlo Borroco-meo il passo della Culmine di San Pietro, l’arcivescovo di Milano, alla cui giurisdizione apparteneva Vedeseta fin dai tempi di Car-lo Magno). Piansero e commemorarono defunti, fra questi i dieci soldati ca-duti nella Grande guerra e gli altrettanti vedesetesi portati via, subito dopo, dalla “spagnola”.
Ma il 31 marzo del ‘43 - da tre anni l’Italia era entrata nel secondo con-flitto mondiale - don Carlo Pensa, il parroco succeduto nel ‘22 a don Carlo Artusi, nel menzionato diario parrocchiale annotava: “Con grande dolore le due maggiori campane del nostro concerto ...furono calate dal campani-le dalla Ditta Angelo Ottolina e due da quello della Lavina (frazione di Ve-deseta in cui sorge l’oratorio di San Vincenzo) per il peso così distinto:
- kg 2386, diametro m 1,610 - kg 1683 diametro m 1,420 - kg 283 diametro m 0,800 - kg 194 diametro m 0,700 Totale kg 4.546”.
Don Pensa morì nel 1946, prematuramente stroncato - così si narra - dal-lo stress subito durante il periodo della dal-lotta partigiana, crudamente carat-terizzato in Valtaleggio da vicende diverse.
“Fin dal primo giorno del suo insediamento - registrava il quaranta-duenne don Giacomo Morandi, subentrato 1’8 luglio 1947 al povero don Pensa - il parroco ha intrapreso pratiche e viaggi per ottenere la restituzio-ne delle due camparestituzio-ne maggiori e di quelle della Lavina. Aiutano restituzio-nelle pra-tiche 1’ill.mo mons. Maini, le RR. Suore Marcelline (l’ordine possiede a Vedeseta una casa per vacanze) e mons. Vicario Generale Domenico Ber-nareggi (fratello dell’allora Vescovo di Bergamo, mons. Adriano Bernareg-gi)”.
Si sperava che gli squilli del concerto al gran completo avessero ad al-lietare la notte del terzo Natale di pace. Invece soltanto 1’11 aprile dell’an-no successivo (1948) i nuovi bronzi presero il posto di quelli trasformati nel
‘43 in obici e granate. Si ripeterono, va da sé, le scene di tripudio di trenta-cinque anni prima. A consegnare solennemente le campane alla parrocchia e a benedirle intervenne lo stesso Vescovo ausiliare Bernareggi.
Ma diamo di nuovo la parola a don Moranti: “Grande festa con musica a San Giovanni (Bianco, dove una delegazione era scesa, banda in testa, a incontrare l’alto prelato e a ricevere le campane), fuochi (artificiali e falò)
eccetera ...fede bergamasca (!?). Spese circa lire 200.000 (una bella cifra, in illo tempore) ...omissis ... L’incanto delle campane frutta circa 300.000 lire per merito di Padrini veramente generosi”.
Scritto di pugno del parroco medesimo, sempre nel “Chronicon” (o
“Cronicus”), troviamo che il rinnovato concerto ottenne, un paio di mesi più tardi, una consacrazione supplementare, ancora più insigne: quella del cardinale Ildefonso Schuster, spintosi fin lassù per le cresime.
Ma questa è un’altra storia che un giorno, a Dio piacendo, racconteremo.
Nel frattempo perché non auspicare che pure le squille di Vedeseta trovino il loro poeta.
Di quelli giusti, s’intende.
I guelfi e i ghibellini in val Brembilla
Le vicende che riguardano il castello di Cornalba, dalla costruzione fino al-le molte distruzioni, si collocano nel contesto delal-le lotte tra guelfi e ghibel-lini, che si scontrarono aspramente in Val Brembana e in tutta la provincia in particolare nella seconda metà del Trecento.
La divisione tra guelfi e ghibellini aveva avuto origine in Germania già nel 1140, durante la guerra che vide opposti il duca di Svevia e quello di Sassonia. Questa differenziazione si espanse anche in Italia e durò fino a tutto il Quattrocento. Essere ghibellini significava parteggiare per l’impe-ratore di Germania, che oltre a detenere il potere temporale, voleva anche la guida spirituale delle comunità a lui sottoposte; essere guelfi invece vo-leva dire essere dalla parte del Papa e sostenerne così sia il dominio spiri-tuale, sia le mire di potere terreno, molto forti all’epoca anche da parte del clero. Questa divisione ideologica si ripercuoteva in quasi tutta Europa e si affiancava alle lotte già in corso tra i vari stati. In Italia la presenza del Papa rendeva ancor più accentuate queste contese; qui i vari stati e le famiglie più importanti si dividevano alleandosi col Papa o con l’Imperatore a se-conda delle convenienze.
Nella realtà della nostra provincia, durante la seconda metà del Trecen-to, la separazione tra guelfi e ghibellini non era così netta; più che di una scelta ideologica verso il Papa o l’Imperatore, si trattava di faide familiari o alleanze trasversali che erano utilizzate per contendersi il potere e i favori dei Visconti milanesi, padroni della bergamasca.
In Val Brembana centro di simpatie spiccatamente guelfe erano San