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«Il Re Nudo!»

Il nome della rivista underground, che dal 1971 organizzerà annualmente una serie di raduni che sono entrati di forza nella storia dei movimenti e della musica italiana, venne ripreso dal suo fondatore da una famosa fiaba di Hans Christian Andersen intitolata I vestiti nuovi dell’Imperatore (1837). La fiaba racconta la storia di un imperatore molto vanitoso, con una particolare ossessione per il suo abbigliamento. Un giorno giunsero in città due imbroglioni che, venuti a conoscenza della fissazione dell’imperatore per il vestiario, decisero di spargere la voce di essere in grado di cucire un vestito molto particolare e unico, che oltre a essere bellissimo e leggerissimo sarebbe stato invisibile agli occhi degli indegni. Quando questa notizia giunse al re, questi li fece chiamare a corte per farsi cucire l’abito. I due finsero di fabbricare il vestito lasciando in realtà il re completamente nudo; a questo punto l’imperatore, per la sua superbia, pur non vedendo l’abito, finse di vederlo e decise di sfilare per le vie della città per mostrare al popolo la bellezza del nuovo vestito: i cittadini continuarono nella finzione per la paura di essere considerati indegni e lo applaudirono con entusiasmo. A quel punto un bambino, rappresentante della purezza e dell’innocenza per antonomasia, indicando il re esclamò: “Il re è nudo!”, rompendo così l’incantesimo.

La stessa esclamazione che il bambino stupefatto pronuncia davanti all’imperatore ignudo, è diventata un’espressione che viene usata per denunciare una situazione in cui la società, o una comunità, decide di non vedere un fatto, un problema, evidente a tutti. E questo è quello che vuole fare Valcarenghi con la sua rivista: denunciare, o quanto meno parlare e far parlare, di situazioni o tematiche che ormai erano diventate parte della realtà di tutti i giorni, ma che una larga fetta della società italiana fingeva di non vedere, come ad esempio la

radicale rivoluzione socio-culturale che stava attraversando il Paese in quegli anni.

La rivista nasce a Milano nel 1970 da un’idea dello stesso Valcarenghi, già leader del gruppo Provos Onda Verde e tra i primi obiettori di coscienza italiano (primato per il quale, oltre ad assurgere agli onori della cronaca, sconterà nel 1967 un periodo detentivo nel carcere di Gaeta). La scelta di Valcarenghi di non voler prestare servizio militare per ragioni etiche venne anche riportata dai giornali, che descrissero in maniera poco lusinghiera la decisione del giovane: è il caso de «Il Corriere della Sera», che gli dedica un trafiletto intitolato Il

“capellone” obiettore in caserma a Cosenza232

, oppure del «Corriere d’Informazione» (una costola del «Corriere della Sera»), dove di nuovo troviamo un articolo che già dal titolo ci fa capire che aria si respirasse intorno a scelte di questo tipo: Il “capellone” milanese in cella di punizione a Cosenza. Andrea Valcarenghi non sfoggia più la folta chioma233. In esso l’articolista si compiaceva del fatto che a Valcarenghi, che si era presentato alla conferenza stampa nella sede del partito Radicale a Roma con i capelli lunghi in pieno stile beat, in cella di punizione avessero fatto tagliare i capelli.

«Re Nudo» si poneva inizialmente in continuità con i ciclostilati che giravano negli anni Sessanta nell’ambiente beat milanese, il più importante dei quali era «Mondo Beat», che giunse a stampare oltre quattromila copie in sole cinque uscite. Inizialmente «Re nudo» si rivolse prevalentemente verso quella larga fetta del movimento che, in seguito alla spaccatura avvenuta al suo interno dopo i fatti di Piazza Fontana, si orientava più verso una posizione apolitica, spontanea e non militante. Essi vengono definiti da Valcarenghi come «gli insoddisfatti di sotto»234 per distinguerli da quelli politicizzati di destra o di sinistra. Il nome infatti che questo movimento, che voleva «liberare il nostro tempo libero»235, si attribuì fu quello di Underground. I ragazzi che componevano questa anima del movimento «poterono recuperare il meglio di

232 Il “capellone” obiettore in caserma a Cosenza, «Il Corriere della Sera», 22 giugno 1967, p. 9.

233 Il “capellone” milanese in cella di punizione a Cosenza. Andrea Valcarenghi non sfoggia più la folta

chioma, «Il Corriere d’Informazione», 23-24 giugno 1967, p. 10.

234

J. N. Martin, M. Neri, S. Neri, Il libro del Prog italiano, p. 27. 235 Ivi.

tutta la cultura beat, freak e psichedelica che era stata bandita a livello politico e adattarla alle nuove situazioni»236.

Fu proprio grazie a riviste come «Re nudo» che migliaia di giovani poterono confrontarsi, scoprendo che le problematiche che tanto li affliggevano erano condivise dai loro coetanei e sentendosi così meno soli. Anche dal punto di vista musicale, oltre che sociale, questa rivista ebbe una grande importanza diffondendo, tramite rubriche tematiche, le avanguardie italiane e straniere.

«Re Nudo» diede vita al più importante festival musicale della storia italiana: il «Re Nudo» Pop Festival: con il riavvicinamento delle varie anime del movimento nel 1971, e con la vera e propria ricongiunzione del 1972, il «Re Nudo», che tramite un articolo dello stesso Valcarenghi nel quale dichiarava che il tempo della nonviolenza era finito, divenne la voce di tutto il movimento riunito, dall’ala più impegnata a quella più vicina all’ideologia freak; questa ricongiunzione ebbe effetti importanti sia sull’organizzazione del Festival pop che sul suo svolgimento.

In Italia i concerti assunsero una valenza particolare: accanto alle diverse analogie con i riti di passaggio che si trovano nella maggior parte delle civiltà, a partire dalle meno “sviluppate” fino ad arrivare a quelle che hanno raggiunto un alto livello di sviluppo industriale e tecnologico, le grandi manifestazioni che si tennero in Italia nel periodo da noi studiato, cioè dalla fine degli anni Sessanta al 1977, furono connotati anche da una profonda politicizzazione. I concerti più importanti di questo decennio saranno infatti organizzati soprattutto da organizzazioni strettamente legate al movimento studentesco-operaio e ai gruppi extra-parlamentari: come si arrivò a questo tipo di assetto?

L'Italia nel corso degli anni Sessanta e fino ai primi Settanta, ospitò numerosi concerti di artisti e band straniere: suonarono in giro per la penisola tantissimi gruppi e solisti tra i più grandi del panorama musicale internazionale. I Beatles fecero il loro primo concerto in Italia nel 1965 al velodromo Vigorelli di Milano, mentre i Rolling Stones suonano per la prima volta nel nostro paese il 5

aprile del 1967 a Bologna, e l’elenco potrebbe continuare a lungo: l’Italia era una meta quasi obbligata per chi, europeo o meno, avesse deciso di intraprendere un tour in Europa. Eppure, ad un certo punto il meccanismo si inceppa, e le grandi star smettono di organizzare concerti nel nostro paese: perché? Paradossalmente, fu proprio per colpa di un concerto che gli stranieri cominciarono a girare a largo dall’Italia.

Nella tradizione beat e hippie i concerti erano dei momenti di aggregazione «che rompevano con le regole del consumo culturale di stampo capitalista»237: per i più intransigenti protagonisti del movimento underground, in particolare per quelli vicino alla casa editrice «Stampa Alternativa», questo si traduceva nel motto “musica gratis!”. Questo slogan non impiegò molto tempo a diffondersi anche tra i meno estremisti, che cominciarono a presentarsi sistematicamente ai concerti senza biglietto e con la ferma volontà di entrarvi senza pagare, profondamente convinti che la musica fosse un bene comune: gli autoriduttori - così si facevano chiamare chi condivideva questa ideologia - iniziarono dai primi anni Settanta a scatenare aspre battaglie con le forze dell’ordine fuori dai palazzetti di tutt’Italia per poter partecipare ai concerti senza tirare fuori una lira. Nell’ottobre del 1970 «Lotta Continua» riporta un articolo in cui sono spiegate le motivazioni che stanno dietro ai comportamenti degli autoriduttori. L’articolo, pubblicato sul numero 18 del giornale, si intitola La musica si paga, i lacrimogeni sono gratis238. L’articolo racconta degli scontri che si erano verificati tra la polizia e gli autoriduttori al concerto dei Rolling Stones al velodromo di Milano il primo ottobre del 1970. Dopo una breve introduzione dell’articolista (nella quale egli afferma che «non si è trattato dell’ultimo passatempo inventato da quattro hippie in cerca di emozioni, ma di qualcosa di più serio che ha avuto per protagonisti migliaia di giovani, in gran parte operai, studenti, garzoni, fattorini, proletari insomma, quelli che i padroni hanno costretto ad abitare in quartieri schifosi alla periferia di Milano») viene riportata una “lettera di un giovane proletario”: in essa lo scrivente denuncia il fatto che la

237

V. Mattioli, Superonda, pp. 257-258.

società consumistica avesse tolto ai giovani proletari la spensieratezza e i sogni della gioventù, sbattendoli in fabbrica a lavorare o nelle scuole dove la maggior parte di loro avrebbe conosciuto il sapore dell’umiliazione; a costoro sarebbe stato precluso anche il divertimento, poiché i costi di diverse manifestazioni risultavano proibitivi per lo stipendio di un operaio. Ed è a questo punto che il giovane proclama il dovere di “prendersi la musica”: «La musica solo pochi hanno il tempo di impararla, di suonarla, di cantarla. Noi possiamo solo sentirla, e a pagamento. Sbagliano quelli che accettano questo tranello dei padroni, la mercificazione, l’industrializzazione di tutto, dell’arte, dello svago, dei modi di esprimersi. Hanno fatto male l’altra sera quelli che hanno fatto dei sacrifici per comprare il biglietto; noi non siamo disposti a pagare più nulla. Noi la musica ce la prendiamo perché la vogliamo, sempre, dappertutto, perché ci piace un sacco. Ci piace perché è bella, cattiva, rabbiosa, selvaggia. Anche noi siamo selvaggi. Selvaggi ed estremisti. Se i padroni chiamano civiltà quella che fa morire tre quarti del mondo di fame, che distrugge la natura, che annienta gli uomini, la loro personalità e dignità, che costruisce il benessere e il lusso di pochi sfruttatori assassini sulla fatica di milioni di proletari, noi siamo selvaggi. Questo vuol dire che incominciamo a prenderci tutto, anche la musica»239. Questi erano i presupposti su cui si basavano le richieste degli autoriduttori, che imperversarono per tutti gli anni Settanta.

L’evento che segnò però il punto di non ritorno nella fuga dei cantanti stranieri dalla penisola italiana fu il concerto dei Led Zeppelin al Velodromo Vigorelli di Milano il 5 luglio 1971. Il gruppo inglese, che era alla sua prima apparizione italiana, atterrò a Linate il giorno prima del concerto e il 5 luglio «Il Corriere della Sera», nel presentare lo spettacolo degli Zeppelin, consapevole dei diversi scontri che si erano registrati in tutt’Italia a causa degli autoriduttori, scrisse: «Ieri sera sono arrivati a Linate due “Zeppelin”. Robert Plant, voce del complesso e il batterista John Bonham: nella tarda mattinata gli altri due componenti del complesso: Jimmy Page (chitarra solista del gruppo ed ex- componente del complesso “Yards Birds” e John Paul Jones. Così se tutto va

bene, stasera al Vigorelli…»240. Il giornalista mette insomma subito le mani avanti, prendendo in considerazione la possibilità che qualcosa nello svolgimento del concerto sarebbe potuto andare storto: erano in molti ad aspettarsi una situazione difficile da gestire durante il concerto.

Il gruppo inglese avrebbe dovuto esibirsi all’interno della gara canora itinerante chiamata Cantagiro, una sorta di Giro d’Italia canoro. La decisione di far suonare gli Zeppelin all’interno di questo format era stata presa dall’impresario e organizzatore del concerto, David Zard, per poter ammortizzare i costi dell’ingaggio del gruppo e dell’affitto del Velodromo, ma si trattava di una scelta pericolosa poiché gli spettatori che affollavano le piazze per seguire il Cantagiro poco avevano a che spartire con dei giovani appassionati di musica rock. Gli Zeppelin avrebbero dovuto suonare intorno alla mezzanotte ma, mentre Morandi stava cantando Al bar si muore contornato dai fischi del pubblico che era al Vigorelli per ascoltare gli inglesi, il loro manager, Peter Grant, e il loro tour manager, il poco raccomandabile Richard Cole, decisero che i loro assistiti avrebbero suonato immediatamente e Zard non riuscì a impedirglielo. Cosi il concerto cominciò alle 22:40 invece che a mezzanotte sulle note di Black Dog.

Tra spettatori e persone accalcate fuori dai cancelli si contavano circa quindicimila persone, tenute d’occhio da un enorme schieramento di forze dell’ordine in tuta antisommossa. Poco dopo l’inizio dello spettacolo, le persone fuori dai cancelli cominciarono a spingere per entrare, quando un gruppo di autoriduttori riuscì a sfondare un cancello e a entrare: fu l’inizio degli scontri con la polizia. All’interno del velodromo il lancio dei lacrimogeni costrinse gli Zeppelin a interrompere il concerto, mentre fuori si registrarono scene di vera e propria guerriglia urbana. Il bilancio del concerto fu di diverse decine di feriti, sia tra le forze dell’ordine che tra i dimostranti, e numerosi arresti.

Il giorno dopo i giornali descrissero quanto accaduto al Vigorelli, riportando i dati della battaglia e tentando un’analisi dei fatti. È il caso della «Stampa», il cui articolista però non sembra aver compreso pienamente chi

240

Il Complesso inglese stasera alla tappa milanese del Cantagiro. Gli “Zeppelin” al Vigorelli, «Il Corriere della Sera», 5 luglio 1971.

fossero i veri responsabili dello scoppio della violenza: attribuisce le responsabilità infatti a un generico «pubblico del Cantagiro» che avrebbe «dimostrato di non saper compiere una scelta musicale (…) pronto ad applaudire il cantante o il complesso alla moda» e a inveire «contro tutti gli altri»241. Non si comprende che dietro alla rivolta del Vigorelli, non c’è un semplice pubblico che non apprezza i cantanti nostrani preferendo i cantanti internazionali per una questione di moda ma, piuttosto, che il putiferio era scoppiato proprio perché al pubblico tradizionale del Cantagiro, a cui piacevano le canzonette, era stato mescolato un pubblico diverso, in parte anche arrabbiato, quello del rock, composto da quei giovani di cui una grande parte d’Italia aveva paura.

Da questo punto di vista è interessante riportare anche il contributo di «Lotta Continua», settimanale dell’omonimo gruppo extra-parlamentare che ai giovani, e in particolari ai giovani impegnati, si rifaceva. Sul numero dell’8 luglio 1971, tre giorni dopo il concerto, è presente un articolo che parla di quanto accaduto a Milano ma a differenza della lettura data da giornali conservatori come «Il Corriere della Sera», in cui gli articolisti biasimano l’accaduto e il comportamento dei giovani per osannare, invece, il coraggio e il senso del dovere delle forze dell’ordine, qui l’accaduto è visto sotto la prospettiva del movimento di protesta; a comportarsi in maniera scorretta non sono i giovani ma i poliziotti, descritti come drogati di violenza che provano piacere nel massacrare i manifestanti: «[I Celerini] vanno alle manifestazioni con il sorriso dei drogati sulla bocca. E così anche la sera del 5 luglio per il concerto dei Led Zeppelin si sono scatenati. Hanno prima caricato i giovani proletari all’esterno con i lacrimogeni (il Giorno dell’“antifascista” Bocca ed il Corriere del “fascista” Crespi d’accordo nell’attribuirci la responsabilità degli scontri), poi hanno fatto i caroselli con i gipponi, hanno distrutto tutto, ed infine con la bava alla bocca si sono scatenati dentro il velodromo Vigorelli contro chi assisteva allo spettacolo. I giornali hanno parlato di “nuclei di guerriglia già organizzati”. Bugiardi. È un po' di volte che la polizia fa casino ai concerti, e un buon numero di giovani, che ci

tiene alla pelle, dopo le prime batoste, arriva preparato»242. L’articolo continua giustificando gli autoriduttori che avevano cercato di entrare senza pagare, visto che il costo del biglietto era proibitivo per dei “giovani proletari”. Tutto ciò avviene, secondo il giornalista, per un fine ben preciso, che sarebbe quello di annientare i tanto temuti giovani tramite lo strumento della polizia, la quale «persegue i suoi scopi tutti politici di terrorizzare e massacrare quei giovani proletari che tutti i borghesi odiano perché sono già oggi e possono essere sempre di più protagonisti della lotta di classe nelle fabbriche, nei quartieri e nell’esercito»243

.

Lo stesso 8 luglio esce sul «Corriere di Milano», inserto del «Corriere della Sera», un articolo intitolato La Guerriglia “pop” del Vigorelli, a firma di Enzo Passanisi, che mostra l’altra faccia della medaglia, quella filogovernativa e conservatrice. Passanisi sottolinea come tra gli scontri della sera del 5 luglio e il movimento di protesta giovanile ci fossero dei legami diretti, in quanto tra i sedici arrestati ci sarebbero «due fra i più conosciuti agitatori di “Lotta continua”: Mario Alberti e Marco Noé»; e tra i trentadue denunciati a piede libero si trovano «parecchi con precedenti specifici di violenza o di resistenza». Per il giornalista ci si trovava quindi di fronte un’«esplosione di violenza, dunque, ma violenza controllata e soprattutto preordinata» da « mestatori e agitatori di professione, specialisti, ormai, nello sfruttamento e nella strumentalizzazione di ogni occasione propizia», che avrebbero poi «attaccato senza alcuna provocazione le forze dell’ordine»; inoltre questa folla «presentava una manovra amorfa, di ragazzi senza alcuna colorazione specifica, ma pronti comunque a cogliere il momento propizio per sfogare i loro istinti di protesta e di ribellione; e un’esigua minoranza di ultras, che, con preciso intendimento, sono riusciti di nuovo, come spesso succede, a farsi seguire dalla maggioranza». L’articolo continua ricordando come nella stessa Milano nel giro di pochi mesi altri spettacoli musicali erano stati interrotti da scontri violenti; ma questa volta c’era qualcosa di diverso, cioè la premeditazione di una parte degli astanti.

242

Led Zeppelin 4 ore di battaglia, «Lotta Continua», 8 luglio 1971. 243 Ivi.

Inoltre, continua Passanisi «c’era la musica “pop” che eccita le fantasie» dei ragazzi. Se poi alla musica “pop” ci si somma la capacità degli “agitatori” di plagiare i loro coetanei fino «all’eversione», la sommossa è fatta. In conclusione il giornalista porta al massimo della generalizzazione le motivazioni delle proteste giovanili, cercando così di svalorizzarle, e rimandando a un bravo psicologo o sociologo il compito di capire il perché dell’insoddisfazione giovanile244.

Dal confronto tra questi due articoli possiamo capire come tra il movimento, che possiamo far cadere sotto la categoria di antistruttura, e quella branca dell’informazione più conservatrice e vicina al governo a cui possiamo attribuire il ruolo di struttura, ci fosse uno scontro aperto non solo concettuale e ideale, ma anche nella rappresentazione di fatti reali.

Dopo gli eventi del 5 luglio le star internazionali cominciarono a girare a largo dall’Italia; questo diede la possibilità a numerosi gruppi e artisti italiani di cavalcare la ribalta, e di affermarsi a livello nazionale. Nel vuoto lasciato dai concerti dei musicisti stranieri cominciarono infatti ad essere organizzati, sull’onda di Woodstock e Wight, dei festival musicali dove vari cantanti venivano invitati a esibirsi. Come ricorda Mattioli, «i festival non erano solo una parata di gruppi rock dai lunghi capelli e i costumi sgargianti; erano innanzitutto momenti di aggregazione» infatti «il motivo per cui tanti giovani affollavano i megaraduni di “Re Nudo” e compagni, solo in parte era la musica. Semmai il motto condiviso era il semplice “stare insieme”, il piacere di ritagliarsi un’oasi separata sia dai ritmi della società consumistica, sia dal piombo e i lacrimogeni delle piazze. Nei festival, ricorda ancora Claudio Rocchi, “il sogno era implementarsi a vicenda, rilanciare alle ottave superiori l’individuo”. Più che un fine la musica era un mezzo, così come un mezzo erano le droghe e l’esplorazione di modelli comportamentali in aperto contrasto con i valori dominanti»245.

Fu proprio sull’onda di eventi leggendari come Woodstock che anche in

244

E. Passanisi, La “guerriglia del Vigorelli, «Il corriere Milanese», 8 luglio 1971. 245 V. Mattioli, Superonda, pp. 258-260.

Italia si consolidarono le ideologie proprie del movimento beat e hippie, che vedevano nei concerti momenti di condivisione spirituale e di libertà sia fisica che mentale, dove l’individuo poteva sperimentare esperienze capaci di condurlo, anche mediante l’uso di sostanze stupefacenti, al di là di se stesso. A questo proposito, proprio come avvenne in America, anche nella nostra penisola si affermò la netta divisone tra le droghe buone e quelle cattive: alle prime

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