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E il re si ritrovò nudo: concerti e movimenti giovanili nell'Italia degli anni Settanta.

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea in Storia e Civiltà

Tesi di laurea magistrale

E IL RE SI RITROVÒ NUDO.

CONCERTI E MOVIMENTI GIOVANILI NELL’ITALIA

DEGLI ANNI SETTANTA

RELATORI: CANDIDATO:

Prof. Alberto Mario Banti Marco Liberatori

Prof. Fabio Dei

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Indice

CAPITOLO I 4

DIONISO E IL ROCK: PER UNA STORIA CRITICA DEL LIMINALE 4

SACRO E PROFANO 18

DESTRUTTURAZIONE DEI CONCERTI NELLE LORO PARTI E LORO AFFINITÀ CON I

FENOMENI RELIGIOSI RITUALI 20

LA NASCITA DI UN MOVIMENTO: I CREDO 20

I RITUALI 38

L’OFFICIANTE 44

II CAPITOLO 52

IL CONTESTO POLITICO E SOCIALE DELL’ITALIA DAL SECONDO

DOPOGUERRA AGLI ANNI SETTANTA 52

L’ITALIA DEL “MIRACOLO ECONOMICO” 52

I MOVIMENTI DI PROTESTA IN ITALIA 65

STUDENTI E GIOVANI OPERAI 79

III CAPITOLO 89

IL PANORAMA MUSICALE ITALIANO NEGLI ANNI SESSANTA E

SETTANTA 89

UNA NOTA TERMINOLOGICA 89

IL BOOM 90

I CANTAUTORI 97

IL CANTO SOCIALE DI PROTESTA 102

IL ROCK IN ITALIA E LA SUPREMAZIA DEL PROG 106

IV CAPITOLO 123

CONCERTI E MOVIMENTI 123

«IL RE NUDO!» 123

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IL FESTIVAL POP DI VILLA PAMPHILI 136

IL FESTIVAL DELLA MUSICA DI AVANGUARDIA E DELLE NUOVE TENDENZE DI

VIAREGGIO 143

IFESTIVAL DI «RE NUDO» 148

«RE NUDO» POP FESTIVAL DI BALLABIO 1971 149

ZERBO 1972 154

FESTIVAL DELL’ALPE DEL VICERÉ 159

IL TRITTICO DI PARCO LAMBRO 164

IL PRIMO FESTIVAL DEL PROLETARIATO GIOVANILE DI «RE NUDO» 164

LA SECONDA EDIZIONE DEL FESTIVAL DEL PROLETARIATO GIOVANILE:PARCO

LAMBRO 1975 172

L’ULTIMO FESTIVAL DI PARCO LAMBRO: GIUGNO 1976 177

BIBLIOGRAFIA 188

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Capitolo I

Dioniso e il rock: per una storia critica del liminale

La musica e la danza sono da sempre strumenti usati per ‘curare’ i blocchi dell’inconscio che possono insorgere dai conflitti, spesso esistenziali, che gli individui sviluppano all’interno del proprio gruppo sociale. Ancora oggi la musica rappresenta un modo per cercare di trovare sbocchi al proprio malessere interiore, dovuto anche alla necessità di differenziarsi e di autodeterminarsi rispetto alla propria società di appartenenza: questo processo si è verificato in modo forse ancor più significativo negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando masse di adolescenti e di giovani sentirono con particolare forza l’esigenza di una differenziazione rispetto al contesto sociale di origine. Questo fenomeno storico-sociale sarà il principale oggetto di indagine del lavoro che segue.

Tra i luoghi - fisici, mentali, simbolici - in cui masse di giovani potevano liberare la loro vera essenza vi furono i grandi concerti rock, che si svilupparono a partire proprio dagli anni Sessanta: prima di analizzare nello specifico questo fenomeno, è necessario indagare i presupposti antropologici e culturali che hanno portato, e portano tuttora, centinaia di migliaia di persone a radunarsi in uno stesso luogo per ascoltare collettivamente gruppi musicali rock.

Un ragionamento articolato deve forse partire addirittura dal significato che la tragedia greca aveva per gli antichi, in particolare nella lettura fatta da Nietzsche nella sua prima opera, La nascita della tragedia1. In questo lavoro, che fece un grande scalpore nel mondo accademico della filologia e scatenò aspre diatribe tra i suoi estimatori e i suoi detrattori preannunciando così la forza di rottura della filosofia del pensatore tedesco, Nietzsche individua come all’interno della tragedia greca attica fossero presenti due impulsi vitali opposti ma allo stesso tempo complementari, l’apollineo e il dionisiaco: il primo rappresenta il sogno e domina sull’armonia delle forme dell’arte plastica; il dionisiaco, invece

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incarna la musica, l’ebbrezza e la frenesia orgiastica tipica delle feste dionisiache, nelle quali «l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé»2.

Nietzsche, con questa teorizzazione, dà corpo e definizione alle due forze che sono a fondamento della vita e quindi dell’arte (per i greci il mondo non era diviso in compartimenti come lo è per noi, quindi arte e vita facevano parte di un’unica unità): la tragedia greca è per il filosofo tedesco l’espressione più alta della vita stessa. È grazie all’illusione creata dall’apollineo che i greci riuscivano a gettare lo sguardo nell’abisso e quindi a sopportare la cruda realtà della vita (cioè la sua totale mancanza di senso e di scopo) rivelata dall’impulso dionisiaco, e a dire sì a essa; così facendo Nietzsche ribalta il concetto di virtù proprio della sua epoca, dandogli una connotazione “amoralistica” e riconoscendo come virtù ogni passione che afferma pienamente la vita stessa: «la fierezza, la gioia, la salute, l’amore sessuale, […] la riconoscenza verso la terra e verso la vita»3.

Nietzsche postula quindi che la religione greca fosse una ‘religione artistica’, nel senso che arte e religione rispondevano alla medesima necessità esistenziale: attraverso questa religione, l’uomo greco riusciva a sublimare e a superare le difficoltà e i blocchi esistenziali che la vita gli poneva di fronte, anche grazie all’accettazione di tutte le pulsioni vitali che la sfera del dionisiaco richiedeva.

Come hanno notato molti studiosi che si sono interessati all’approfondimento del fenomeno dei drammi esistenziali nelle società pre-industriali e pre-industriali, questi si verificano sempre in situazioni e contesti particolari, che potremo definire ‘critici’. Si tratta dei momenti più delicati dell’anno o del ciclo vitale di una persona, quelli in cui l’esistenza stessa della società è messa a rischio: per le società che basano la propria sussistenza sui prodotti agricoli possono essere i momenti della semina e del raccolto oppure la fine e l’inizio di un nuovo anno (fenomeno ancora presente all’interno della nostra società, anche se fortemente mitigato dalla concezione teleologica della religione cristiana rispetto alle società più antiche - come quelle della

2 Ibidem, p. 25. 3

N. Abbagnano, Storia della filosofia. III, La filosofia del Romanticismo. La filosofia tra il secolo XIX e

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Mesopotamia o dell’America latina - dove la concezione del tempo era circolare e quindi al termine di ogni anno dovevano essere celebrati dei riti per garantire la continuazione e la ripresa di questa circolarità4); oppure durante quei momenti, fondamentali per la vita di un individuo all’interno del proprio gruppo sociale, in cui un soggetto passa da uno stato socio-culturale a un altro, definiti ‘riti di passaggio’.

Lo studioso che per primo ha organizzato concettualmente e classificato questi riti, presenti sia nelle società di interesse etnologico sia in quelle europee e occidentali, è stato l’etnologo francese Arnold Van Gennep nel suo saggio del 1909 intitolato I riti di passaggio5. In questo testo, che verrà riscoperto solo negli anni Sessanta perché fortemente criticato da Durkheim e dai sui allievi, Van Gennep definisce la società umana come «uno spazio delimitato all’esterno da linee di confine e organizzato all’interno da un certo numero di comparti secondo precise linee di divisione»6 dove, per poter passare da un compartimento a un altro e quindi da una condizione sociale a un’altra, era necessario, e lo è ancora oggi (basta ricordare alcune cerimonie ancora presenti nella società cristiano occidentale come il battesimo, la cresima, il fidanzamento ufficiale, ecc.), la celebrazione di quelli che, appunto, lui ha definito come ‘riti di passaggio’. Questi riti permettevano un’entrata graduale nel nuovo status, arginando così la possibilità che i soggetti interessati potessero andare incontro a traumi che li avrebbero segnati per il resto della loro esistenza; allo stesso tempo questi riti facevano sì che non si creassero situazioni tali da mettere a rischio la coesione e la continuità sociale. Van Gennep inoltre credeva, come molti altri studiosi, che nelle società che al tempo venivano classificate come pre-scientifiche il mondo fosse diviso nettamente nelle sfere del sacro e del profano, che si opponevano a vicenda con una prevalenza della sfera del sacro, e che tale prevalenza facesse sì che fossero moltissime le situazioni in cui erano richiesti dei riti di passaggio a sancire il mutamento dello stato dell’individuo.

4 Su questo tema si veda, tra tanti, Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Edizioni dell’ateneo, Roma, 1966.

5

A. Van Gennep, I riti di passaggio (1909), Torino, Bollati Boringhieri, 2012 6 Ibidem, p. XIV

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Van Gennep individua anche una struttura tripartita interna ai riti di passaggio, che si possono suddividere in riti di separazione o preliminari, riti di margine o liminari (fondamentali per il processo rituale e anche per lo sviluppo di questa tesi, vista la rielaborazione che ne farà Victor Turner7), riti di aggregazione o post-liminari.

Lo studioso francese conferisce grande importanza alla fase centrale, cioè alla nozione di margine: è il margine che mitiga o elimina quella fase di indeterminatezza che provocherebbe traumi sia nel soggetto su cui avviene il passaggio sia sulla società all’interno della quale avviene il mutamento; è sempre il margine che attenua il carattere traumatico dal distacco iniziale da una determinata condizione alla fase terminale dell’incorporazione all’interno di un nuovo status. Oltre a essere la fase più importante, quella marginale risulta essere anche la più pericolosa poiché la sua intrinseca indefinitezza, che poneva l’individuo in uno stato di sospensione, era letta all’interno della comunità come portatrice di forze pericolose per la stessa comunità: infatti in questa fase gli individui si trovano spesso separati e distanti dal resto della società.

In definitiva la funzione dei riti di passaggio è quella di spiegare - o forse di imbrigliare - culturalmente i cambiamenti o più in generale gli accadimenti significativi che avvengono nel corso dell’esistenza, di fronte ai quali la comprensione umana era, ed è, limitata e la cui non decifrazione culturalmente connotata avrebbe rischiato di creare una crisi esistenziale negli individui che li vivono e in quelli che gli stanno vicino.

Significativo anche ai fini di questa ricerca poiché riferito ad un rito di tipo coreutico-musicale è il lavoro portato avanti da Ernesto De Martino in Puglia, dove lo studioso ha indagato il fenomeno della Taranta, con risultati confluiti nel saggio La terra del rimorso8.

7 Victor Turner, Il processo rituale. Struttura e antistruttura, Morcelliana, Brescia, 1972. 8

Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano, 2008: De Martino vi analizza i risultati della spedizione etnologica nel Salento avvenuta nel 1959 per studiare il fenomeno del tarantismo, radicato in questa terra. Tra i molti studiosi che collaborarono con De Martino in questa ricerca vi fu tra l’altro anche un etnomusicologo, Diego Carpitella, che contribuì al volume con un interessante studio sulle musiche usate durante il rito della Taranta, riportato in appendice (D. Carpitella, L’esorcismo

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Nel primo capitolo - intitolato Tarantismo e malattia - l’autore dimostra come il tarantismo non sia da ricondurre a un fenomeno di vero latrodectismo, bensì sia diventato «l’occasione per far defluire e per risolvere altre forme di “avvelenamento simbolico”, e cioè i traumi, le frustrazioni, i conflitti irrisolti nelle singole biografie individuali, e tutta la varia potenza del negativo che, rivissuta nei momenti critici dell’esistenza, si traduceva in altrettanti perils of the soul […] oppure, a un livello più alto di autonomia simbolica, in occasione del raccolto, la crisi della pubertà, la morte di qualche persona cara, un amore infelice o un matrimonio sfortunato, la condizione di dipendenza della donna, i vari conflitti familiari, la miseria, la fame, le più svariate malattie organiche»9.

Sempre nella visione di De Martino il tarantismo «non si manifesta come disordine psichico, ma come ordine simbolico culturalmente condizionato (l’esorcismo la musica, della danza e dei colori), nel quale trova soluzione una crisi nevrotica culturalmente modellata»10. Per De Martino insomma il tarantismo - come indica anche il simbolo mitico della taranta stessa - non è un disturbo psichico ma la risposta a un conflitto, o a più conflitti interiori che il “tarantato” ha sviluppato nel corso della sua esistenza; il tema del morso che torna in successive stagioni serve per «disciplinare un “ritorno” che altrimenti potrebbe esplodere in qualsiasi momento del tempo, assumendo tutti i caratteri antisociali della crisi individuale senza orizzonte»11. In questa definizione è evidente l’influenza degli studi di Van Gennep sui riti di passaggio, ove si legge che «ogni mutamento di situazione dell’individuo viene a comportare dunque delle azioni e delle reazioni tra il profano e il sacro; queste azioni e reazioni devono essere appunto regolamentate e controllate, affinché la società generale non subisca né disagi, né danni»12; e ancora: «tali mutamenti di stato non si realizzano senza un qualche turbamento della vita sociale e individuale, ed è proprio ad attenuare gli effetti fastidiosi che è destinato un certo numero di riti di passaggio»13.

9 Ibidem, p.74.

10 Ibidem, pp. 77-78. 11 Ibidem, p. 84. 12

A. Van Gennep, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino, 2012, p. 5. 13 Ibidem, p. 13.

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Il tarantismo si presenta quindi prima di tutto come un rito di passaggio che serve per disciplinare una crisi interiore di un individuo appartenente a una determinata società contadina: coloro che appartengono a tale società hanno sviluppato nel corso dei secoli questo rito per disciplinare culturalmente dei comportamenti che altrimenti avrebbero messo a serio rischio l’appartenenza dell’individuo sofferente alla comunità stessa. Si è trattato insomma, per De Martino, di «dare orizzonte alle oscure pulsioni dell’inconscio, all’aggressione del passato cifrato che torna nell’estraneità del sintomo nevrotico, al morso interno a cercare ciò che morde, al sogno di rinnovamento totale, di erotismo e di fecondità»14. La taranta, quindi, «deve evocare e configurare, far rivivere e far defluire le oscure sollecitazioni dell’inconscio che rischiano di sommergere la coscienza con la loro cifrata indomabilità»15.

Un altro aspetto molto interessante del tarantismo, è che le danze, che i tarantati effettuavano spasmodicamente durante l’esorcismo musicale, ricordano i movimenti e i comportamenti, fortemente stereotipatati, che vengono praticati durante un rapporto sessuale. Oltre a essere molto interessante il rimando alla sfera dionisiaca che, come abbiamo visto in precedenza, poneva al centro l’accettazione e lo sfogo delle pulsioni vitali, la mimesi sessuale nella danza avveniva soprattutto perché le donne del sud d’Italia del tempo, ma in alcune zone ancora oggi, vivevano in una condizione di subalternità rispetto agli uomini sia livello sociale che sessuale: attraverso la taranta esse così sfogavano ad un tempo le loro pulsioni sessuali represse, poiché non era socialmente accettato che una donna potesse avere una vita sessuale libera, e il loro desiderio di emancipazione sociale, in un contesto patriarcale e con forti connotazioni maschiliste. Il tarantismo era un modo per combattere le imposizioni culturali che la società in cui vivevano gli imponeva.

Il collegamento con il sentimento dionisiaco è postulato dallo stesso De Martino che ipotizza una probabile origine antica per l’aspetto coreutico-musicale del rito della taranta, collocabile al tempo della Magna Grecia e

14

E. De Martino, La terra del rimorso, p. 80. 15 Ibidem, p.82.

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nell’ambito del culto dello stesso Dioniso: ritroviamo il dio greco Dioniso legato a riti in cui i partecipanti, sempre tramite la musica e la danza, cercano di superare dei conflitti esistenziali che li attanagliano.

Sulla componente rituale dionisiaca presente in fenomeni di riscatto e di catarsi simili a quella della taranta studiata da De Martino ha scritto, in un periodo quasi contemporaneo, anche il filologo inglese Eric Dodds, nella sua opera più nota, I greci e l’irrazionale16. In essa Dodds scrive che «il senso del più antico rituale dionisiaco, la sua funzione sociale era essenzialmente catartica in senso psicologico: purgava l’individuo da quegli impulsi irrazionali contagiosi che, contenuti e repressi, avrebbero provocato eccessi di danzimania e analoghe manifestazioni di isterismo collettivo; esso risolveva tali impulsi offrendo loro uno sfogo rituale»17. E Dioniso era, secondo gli studi di Dodds, «essenzialmente un dio della gioia»18 e «le sue gioie erano accessibili a tutti, perfino agli schiavi, e a quegli uomini liberi a cui erano preclusi gli antichi culti gentilizi»19. Dioniso infatti non è un dio che fa distinzioni sociali o di censo ma è accessibile a tutti, anche agli ultimi: per questo è chiamato «in ogni età, 𝛿𝜂𝜇𝜊𝜏𝜄𝜒ό𝜍, un dio del popolo»20.

Quali sono le caratteristiche fondamentali che si nascondono dietro la maschera di questo dio misterioso? La definizione più soddisfacente di cosa sia lo spirito dionisiaco l’ha forse espressa Giorgio Colli nel primo volume de La sapienza greca21, quando scrive: «Se infatti l’orgiasmo si esaurisse nello scatenamento animale degli istinti, nulla parrebbe più lontano dalla conoscenza. Ma l’orgiasmo è anche danza, musica, giuoco, allucinazione, stato contemplativo, trasfigurazione artistica, controllo di una grande emozione. Questo aspetto dell’orgiasmo già Nietzsche l’aveva colto, sia pure unilateralmente, e proprio nella prima fase della sua speculazione su Dioniso, quando diceva che il dionisiaco è un istinto estetico. Se cerchiamo però un

16

E. Dodds, I greci e l’irrazionale, BUR, Milano, 2013. 17 Ibidem, p.120.

18 Ibidem, p.121. 19 Ivi.

20 Ivi.

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carattere generale che accomuni tutti gli aspetti, nell’orgiasmo stesso, di opposizione al trascinamento incontrollato dell’impulso vitale, troviamo il subentrare – al culmine dell’eccitazione, anzi come risultato ultimo, trasfigurato, del suo più intenso scatenarsi – di una rottura contemplativa, artistica, visionaria, di un distacco conoscitivo. L’‘uscire fuori di sé’, ossia l’‘estasi’ nel significato letterale della parola, libera un sovrappiù di conoscenza. In altre parole, l’estasi non è il fine dell’orgiasmo dionisiaco, ma soltanto lo strumento di una liberazione conoscitiva: rotta la sua individualità, il posseduto da Dioniso ‘vede’ quello che i non iniziati non vedono»22.

Colli continua la sua descrizione dello stato dionisiaco individuandone un altro aspetto fondamentale, cioè quella «rottura estatica dell’individuazione»23 che nelle parole del filosofo italiano ricorda molto un aspetto molto importante di quel fenomeno, interno ai riti di passaggio, che Victor Turner ha definito come communitas. Infatti, Colli scrive che «l’orgiasmo porta a una liberazione dai vincoli dell’individuo empirico, dalle condizioni della sua esistenza quotidiana, e questo nuovo stato viene definito mania, follia. Quindi lo stato del posseduto da Dioniso, ossia l’immagine del dio stesso nell’uomo, non è quello di un’estenuazione soporosa, di una perdita totale della coscienza, e neppure di una gesticolazione animalesca, bensì quello della follia, cioè uno stato della coscienza che si contrappone a quello “normale”, quotidiano. Talora la visione di questa mania è una visione […] e in generale, caratteristico dell’orgiasmo dionisiaco è il subentrare di uno stato allucinatorio»24. Anche Dodds, quando si accinge a descrivere il sentimento dionisiaco, esprime una posizione affine all’idea appena riportata di Colli, e quindi anche al concetto di communitas di Turner; egli infatti scrive che: il rito Dionisaco e la follia ad esso collegata si affermarono tra i greci «non soltanto perché allora la vita era tale che spesso si doveva desiderare l’evasione, ma più specificatamente perché l’individuo, così come lo intendiamo noi oggi giorno, incominciò per la prima volta in quella età a svincolarsi dei legami dell’antica solidarietà familiare, e si sentì oppresso

22 Ibidem, pp. 18-19. 23

Ibidem, p. 19. 24 Ivi.

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dall’inconsueto fardello della responsabilità personale: Dioniso era capace di sollevarlo da quel peso, perché Dioniso era Signore delle illusioni»25; e ancora: «Essa [l’estasi dionisiaca] assolveva alla funzione psicologica di soddisfare e svincolare l’aspirazione a respingere ogni responsabilità; aspirazione che è presente in ciascuno di noi e può farsi desiderio irresistibile in determinate situazioni sociali»26.

Cosa intende l’antropologo inglese con il concetto di communitas e in che modo il sentimento dionisiaco, i riti di passaggio e la communitas stessa sono tutti elementi significativi e caratterizzanti del grande movimento - che per molti aspetti ricorda una religione, nel senso più largo del termine - che ha dato vita al fenomeno dei grandi raduni rock?

Turner conia questo paradigma ne Il Processo rituale. Struttura e antistruttura27, pubblicato nel 1969. Qui Turner riporta, nella prima parte del libro, la sua esperienza diretta sul campo presso gli Ndembu, una popolazione bantu dello Zambia tra i quali ha soggiornato nella prima parte degli anni Cinquanta. Egli concentra la sua ricerca sui riti di passaggio, soprattutto femminili, di questa popolazione, essendo convinto che nello studio dei rituali risieda la chiave per comprendere la struttura essenziale delle società umane.

Nella sua ricerca Turner riconosce la divisione tripartitica dei riti di passaggio individuata da Van Gennep, ma focalizza la sua attenzione, dandogli così maggior risalto e importanza rispetto alle altre due fasi, alla fase cosiddetta liminale. Gli individui che si trovano all’interno della fase liminale hanno delle caratteristiche del tutto ambigue, in quanto queste persone «sfuggono o scivolano tra le maglie della rete classificatoria che normalmente colloca stati e posizioni nello spazio culturale. Gli esseri liminari non sono né da una parte né dall’altra; stanno in uno spazio intermedio (betwixt and between)»28. Questi individui, secondo Turner, hanno molto spesso un comportamento passivo o umile, e obbediscono ai loro maestri senza porre obiezioni. In questa fase le differenze di

25 E. Dodds, I greci e l’irrazionale, p. 121. 26 Ibidem, p.122.

27

V. Turner, Il processo rituale. Struttura e antistruttura, Morcelliana, Brescia, 1972. 28 Ibidem, p. 112.

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status sociale vengono abolite, i neofiti sono tutti uguali e la loro identità viene livellata. Per questo motivo tra i soggetti del rito viene a crearsi un’intensa solidarietà di gruppo basata sull’egualitarismo. In questi riti «ci appare un momento dentro il tempo e al di fuori del tempo, dentro e fuori la struttura sociale secolare, che rivela, anche se in modo fugace, il riconoscimento di un legame generalizzato che ha smesso di essere e contemporaneamente tuttavia deve essere suddiviso in una molteplicità di legami strutturali»29. È a questo punto che Turner spiega la sua concezione di una divisione tra struttura e antistruttura, esistente non solo nelle società considerate preindustriali o tribali, ma anche nella società occidentale. Con il termine struttura Turner intende una «società come sistema strutturato, differenziato e spesso gerarchico di posizioni politico-giuridico-economiche. Con molti tipi di valutazioni, che separano gli uomini in termini di “più” o di “meno”»30. Il secondo modello che si affianca, e che non si sostituisce o sovrappone, al primo ed emerge nella fase liminale è la communitas: questa è la società come «comitatus, comunità o comunione non strutturata o rudimentalmente strutturata e relativamente indifferenziata di individui uguali che si sottomettono insieme all’autorità generale dei majores rituali»31. La liminalità non è l’unica manifestazione culturale della communitas: in molte società esistono altri settori in cui la communitas può manifestarsi come «gli attributi permanentemente o temporaneamente sacri di uno status o di una posizione bassi»32. La letteratura e la tradizione popolare sono piene di figure che da una posizione inferiore riducono personaggi appartenenti alle classi più elevate, o aventi particolari capacità, al livello della popolazione comune. La cosa fondamentale è che tutti questi personaggi sono figure marginali, inferiori, outsider, contro i quali le società chiuse e strutturate, controllate da un gruppo dominante, si difendono strenuamente per conservare la propria identità e il proprio status sociale. Tra queste figure marginali, costrette a fare gruppo in

29 Ibidem, p. 113. 30 Ivi. 31 Ivi. 32 Ibidem, p. 125.

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contrapposizione alla parte dominante, si sviluppa quel sentimento che è proprio della communitas, cioè quello che Hume ha definito “sentimento di umanità”33.

È Turner stesso a precisare meglio cosa sia effettivamente questa antistruttura: «Per me la communitas emerge là dove non è la struttura sociale. Forse il modo più adeguato per esprimere con parole questo difficile concetto è quello di Martin Buber», il quale «usa il termine comunità per significare communitas: “Comunità è il non essere più fianco a fianco (e, si potrebbe aggiungere, sopra o sotto) di una moltitudine di persone, ma l’essere l’uno con l’altro. E questa moltitudine, pur muovendosi verso un obiettivo, tuttavia sperimenta dappertutto un volgersi a, un dinamico star di fronte a gli altri, un fluire dell’Io al Tu. La comunità è la dove si fa evento la comunità”»34.

La communitas peraltro diventa evidente e accessibile solo se viene contrapposta alla struttura sociale o ibridata con essa: struttura e antistruttura sono reciprocamente necessarie per la loro esistenza. Per questo la communitas presenta al suo interno dei valori ben definiti che la contrappongono alla struttura e che, come vedremo, sono propri dei movimenti che si svilupperanno a partire dagli anni Cinquanta negli Stati Uniti d’America, a partire dalla Beat Generation. Turner identifica - riferendosi ai movimenti religiosi millenaristici - come proprietà dell’antistruttura «omogeneità, uguaglianza, anonimia, assenza di proprietà (molti movimenti in effetti impongono ai loro membri la distruzione della proprietà per approssimare l’avvento dello stato perfetto di concordia e di comunione da essi desiderato, poiché i diritti di proprietà sono legati a distinzioni strutturali sia verticali che orizzontali), riduzione di tutti allo stesso livello di status, abbigliamento uniforme, continenza sessuale (oppure la sua antitesi, la comunità sessuale; la continenza e la comunità sessuale distruggono entrambe il matrimonio e la famiglia, che legittimano uno status strutturale), minimizzazione delle distinzioni di sesso, abolizione del rango, umiltà, noncuranza in relazione all’aspetto personale, assenza di egoismo, obbedienza alle parole del profeta o al

33 David Hume (Edimburgo, 7 maggio 1711 – Edimburgo, 25 agosto 1776) è stato un filosofo scozzese, appartenete alla corrente filosofica degli empiristi britannici. Hume credeva che gli uomini fossero naturalmente capaci di sviluppare sentimenti di umanità e giustizia nei confronti dei loro simili, senza il bisogno di nessuna struttura sovrastante.

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capo, istruzione sacra, massima valorizzazione di atteggiamenti e comportamenti religiosi rispetto a quelli secolari, sospensione dei diritti e doveri di parentela (tutti sono fratelli o compagni indipendentemente dai precedenti legami secolari), semplicità di modi e di parola, follia sacra, accettazione del dolore e delle sofferenze e così via»35. Facendo riferimento al movimento Hippie, sviluppatosi negli anni Sessanta contemporaneamente alla stesura del libro, Turner vi identifica un esempio di come i valori della communitas si siano espressi nella società contemporanea, poiché, oltre a ritrovarvi tutti gli elementi elencati sopra (a partire dalla comunità sessuale fino alla valorizzazione degli atteggiamenti e dei comportamenti sacri), identifica in questo movimento un altro valore proprio della communitas, cioè la sua spontaneità e immediatezza: la communitas per sua definizione è nel presente, è qui e ora, a differenza della struttura che si radica nel passato e si proietta nel futuro.

Quest’ultimo aspetto, fondamentale per la definizione di communitas, aiuta Turner anche a differenziarla in tre tipologie: spontanea, ideologica e normativa. Mentre le communitas normative e ideologiche rientrano nel campo della struttura (e Turner è convinto che anche tutte le communitas spontanee prima o poi sperimenteranno «il “declino o la caduta” nella struttura e nella legge»36), quella spontanea, almeno inizialmente, è appunto immediata e cioè legata al momento. Gli Hippies avrebbero incarnato la communitas spontanea in quel fenomeno che prende il nome di Happening: un qualcosa che sorge sempre nella reciprocità immediata, cioè, tornando a Buber, «una modalità di rapporto tra persone nella loro integrità e concretezza, tra “Io” e “Tu”»37. Secondo Buber poi questo rapporto non si applica solo ai rapporti diadici, perché può esistere anche un ‘Noi essenziale’ che comporta «una comunità di più persone indipendenti, che hanno un sé e un’autoresponsabilità… il Noi include il Tu»38

. Per Turner questo ‘Noi essenziale’ ha i caratteri della liminalità e quindi della transitorietà e può crearsi in qualsiasi momento «tra esseri umani

35 Ibidem, p. 128. 36 Ibidem, p. 148. 37 Ibidem, p. 152. 38 Ivi.

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istituzionalmente considerati o definiti come membri di uno dei qualsiasi o di tutti i tipi di raggruppamento sociale, o di nessuno»39.

La concezione di Happening è molto importante per Turner nello sviluppo della sua teoria sulla communitas e il suo rapporto con il mondo dell’arte e dello spettacolo, da lui approfondito in Dal rito al teatro40. Già ne Il processo rituale. Struttura e antistruttura41, Turner avanzava un collegamento tra la realtà della communitas e le sfere dell’arte e della religione: avendo infatti la communitas un carattere essenzialmente esistenziale, essa «implica l’uomo tutto intero, nel suo rapporto con altri uomini, integralmente considerati» e «i rapporti tra essi totali generano simboli, metafore e confronti; l’arte e la religione, più che le strutture legali e politiche, ne sono il prodotto. Bergson vedeva nelle parole e negli scritti dei profeti e dei grandi artisti la creazione di una “morale aperta”, che era anche essa un’espressione di quello che egli chiamava l’elan vital, o “forza vitale” evolutiva. Profeti ed artisti tendono ad essere persone liminali e marginali, “uomini di punta”, che si sforzano con sincerità appassionata di liberarsi dei clichés legati al possesso di status e all’esercizio dei ruoli per entrare in rapporto vitale con altri uomini, nella realtà e nell’immaginazione»42. Ed essa «quasi

dappertutto la si considera “sacra”, probabilmente perché viola o annulla le norme che governano rapporti strutturali e istituzionali, ed è accompagnata da esperienze di una potenza senza precedenti»43. È all’interno di condizioni quali liminalità, marginalità e inferiorità strutturale che vengono prodotti «miti, simboli, rituali, sistemi filosofici e opere d’arte»44. Queste creazioni forniscono

agli individui un insieme di schemi e modelli che rendono possibile la riclassificazione periodica della realtà e del rapporto che l’uomo instaura con la cultura, la natura e la società in cui vive; ma oltre che alla riflessione, queste formule culturali spingono l’uomo all’azione. Lo stesso Turner, in Dal rito al

teatro45, approfondirà questo aspetto mostrando come nelle società

39 Ibidem, pp. 152-153.

40

V. Turner, Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna, 2017.

41 V. Turner, Il processo rituale. Struttura e antistruttura, Marcelliana, Brescia, 1972. 42 Ibidem, pp. 143-144.

43 Ivi. 44

Ivi.

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postindustriali, caratterizzate da una marcata divisione tra la sfera del gioco e quella del lavoro che invece non si presenta nelle società “tribali” o agricole, viene messo in scena mediante forme d’arte (in cui il teatro ricopre il gradino più alto d’espressione) quello che lui ha definito “dramma sociale” , cioè i contrasti che si verificano all’interno di una società in fase di trasformazione e che avvengono sempre in una fase liminale, in cui gli individui creano dei “metacommenti sociali”46

sulla propria società. All’interno di questo ragionamento, Turner effettua un’altra precisazione distinguendo il liminale dal liminoide: il liminale è proprio delle società tribali ed è caratterizzato dal dovere, in quanto certi riti devono necessariamente essere effettuati perché la società lo richiede; il liminoide invece si identifica con il verbo volere, e cioè con la volontà di eseguire tali riti. Scrive Turner: «Esattamente quello che fanno i membri di una tribù quando fabbricano maschere, si travestono da mostri, ammucchiano simboli rituali disparati, invertono o fanno la parodia della realtà profana nei miti e nelle leggende popolari, è ripetuto dai generi di svago delle società industriali quali il teatro, la poesia, il romanzo, il balletto, il cinema, lo sport, la musica classica e rock, le arti figurative, la pop art, ecc.: essi giocano con i fattori della cultura, raccogliendoli in combinazioni solitamente di carattere sperimentale, talvolta casuali, grotteschi, improbabili, sorprendenti, sconvolgenti. Solo che essi fanno questo in un modo molto più complicato di quanto avvenga nella fase liminale dei riti tribali di iniziazione, poiché i generi specializzati di intrattenimento artistico e popolare (cultura di massa, cultura pop, cultura folk, alta cultura, cultura alternativa, cultura di avanguardia, ecc.) si moltiplicano, in contrasto con il numero relativamente limitato dei generi simbolici in una società ‘tribale’, e ciascuno di essi al suo interno lascia ampio spazio a scrittori, poeti, drammaturghi, pittori, scultori, compositori, musicisti, attori, comici, cantanti folk, musicisti rock, e in generale ai ‘produttori’ di cultura, per creare non soltanto forme strane, ma anche, e abbastanza di frequente, modelli, diretti o in forma di parabola o di favola

46

Termine coniato dall’antropologo americano Clifford Geertz in Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna, 1988.

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esopica, che contengono una severa critica dello status quo, in tutto o in parte»47. Nel liminoide, quindi, è fondamentale la critica verso la struttura e le sue istituzioni e, a differenza dell’esperienza del liminale delle società tribali - dove la rottura temporanea delle norme sociali, e quindi del cosmos, doveva mostrare ai soggetti dei riti di passaggio e alla società nella sua interezza come queste regole fossero giuste e preferibili al caos - nella fase liminoide, che può essere un concerto, un’opera teatrale o altre manifestazioni artistiche, vi è la volontà di portare una critica alla propria società per poterla modificare definitivamente.

Sacro e profano

È quindi grazie al concetto di communitas coniato da Turner che possiamo inserire il fenomeno dei grandi raduni rock degli anni Sessanta e Settanta nella sfera dei riti passaggio, e più precisamente nella fase che Van Gennep ha definito come liminale. Se però, come si è visto, questo ambito possiede una valenza se non pienamente religiosa quantomeno mistica, è necessario analizzare se, e in che modo, il concetto di religione possa adattarsi a questi fenomeni.

Angelo Brelich, in Introduzione alla storia delle religioni48, afferma che non è possibile dare una definizione a priori di religione perché i concetti che si formano nella storia «si formano in base ai fatti osservati»49 e quindi solo a posteriori. Il nostro concetto di religione è esso stesso un prodotto della storia, per cui, secondo Brelich, «sarebbe inutile cercare una definizione valida ‘in sé’ della religione»50. Qual è allora il concetto di religione che si è sviluppato all’interno della nostra società? Secondo Brelich, «la religione dell’occidentale moderno, a un’osservazione superficiale sembra composta da diversi elementi piuttosto disparati»51: il primo punto è il credere, ad esempio nell’esistenza di Dio, nell’anima ecc.; poi bisogna praticare, e quindi prendere parte, come

47 Ibidem, pp. 79-80.

48 A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1966.

Angelo Brelich (Budapest, 20 giugno 1913 – Roma 1° ottobre 1977), antropologo ungherese naturalizzato italiano, è stato un importante storico delle religioni. Allievo e successore di Raffaele Pettazzoni, è uno degli esponenti più importanti di un approccio laico e storico allo studio delle culture religiose.

49 Ibidem, p. 4. 50

Ivi.

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soggetti attivi o passivi, a determinati riti; ancora bisogna mantenere un comportamento religioso anche al di fuori della pratica rituale; infine la religione prevede che i riti vengano eseguiti da personale qualificato, cioè i sacerdoti. Sulla base di questa breve descrizione non è semplice tracciare una linea di demarcazione netta tra ciò che è prettamente religioso e cosa non lo è, tra ciò che è sacro e ciò che è profano. Marcello Massenzio nel Manuale di storia delle religioni52, al capitolo XXII intitolato Storia delle religioni e antropologia, descrive il sacro e il profano come due categorie che «si oppongono l’una all’altra e, in pari tempo, si presuppongono a vicenda»53

: il sacro è per Massenzio «tutto ciò che oltrepassa il livello quotidiano dell’esistenza umana: […] gli esseri sovrumani, la dimensione del mito, la prassi rituale, le norme e i divieti la cui origine non è considerata umana»54. Il sacro si collocherebbe insomma nella sfera dell’alterità rispetto all’ordinamento ‘normale’ del mondo che rientra nella sfera del profano. Interessante ai fini di questa ricerca è la descrizione che Massenzio fa dell’istituto della festa, che «presuppone l’interruzione dell’ordine profano come condizione necessaria per accedere all’ordine festivo, che è di carattere sacro»55: definizione che come vedremo sarà utile per analizzare, insieme al concetto di communitas di Victor Turner, i grandi raduni che a partire dagli anni Sessanta attraversarono tutto il mondo occidentale.

Una delle opere più importanti sulla natura di queste due sfere all’interno della cultura occidentale contemporanea è Il Sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale56 di Rudolf Otto. Per Otto il sacro è una categoria a priori ma che può comunque interferire sulla sfera del profano, se non fosse che la conoscenza umana non è adeguata alla comprensione delle manifestazioni del ‘totalmente altro’, del numinoso: l’unico modo per arrivare ad

52

M. Massenzio, M. Raveri, P. Scarpi, G. Filoramo, Manuale di Storia delle religioni, Laterza, Bari, 1998.

53 Ibidem, p. 492. 54 Ivi.

55 Ivi.

56 R. Otto, Il Sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, Zanichelli, Bologna 1926.

Rudolf Otto (Peine, 25 settembre 1869 – Marburg, 6 marzo 1937) è stato uno storico delle religioni e teologo tedesco, il cui pensiero si colloca all’interno della “Scuola fenomenologica”, all’interno della quale ha comunque mostrato un’ampia autonomia di pensiero.

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una se pur minima percezione del sacro è attraverso il sentimento, poiché il sacro riesce a influenzare le più profonde reazioni psichiche ed è quindi fortemente connesso alla sfera dell’irrazionale. L’esperienza del sacro, come scrive Massenzio, per Otto «reca con sé i segni del paradosso, poiché paradossale è la realtà stessa del numinoso, in cui si realizza la coincidentia oppositorum; il sacro, infatti, è simultaneamente tremendum et fascinans»57. Ciò significa che quando un individuo viene a confrontarsi con il numinoso ne rimane terrorizzato e si sente smarrito con il rischio di un annullamento dell’io davanti al trascendente; ma allo stesso tempo «di fianco all’elemento che confonde, sorge quello che ammalia, rapisce e, stranamente, spesso crescendo in intensità fino all’ebbrezza e allo smarrimento: è l’elemento dionisiaco nell’efficacia del numen, vogliamo chiamare questo momento “il momento fascinans” del nume»58

. Anche in questo caso torna il in causa il sentimento dionisiaco in quanto pulsione vitalistica e di dissoluzione dell’individualità dell’Io in un Noi universale.

All’interno del fenomeno religioso sono presenti dunque una serie di caratteristiche come il credere in qualcosa, la celebrazione di riti, il mantenimento di un comportamento religioso anche al di fuori dello spazio rituale e la celebrazione dei riti da parte di alcuni individui specializzati: tutti aspetti, o quasi, che sono riscontrabili nelle grandi manifestazioni giovanili che si svolsero a partire dagli anni Sessanta.

Destrutturazione dei concerti nelle loro parti e loro affinità con i fenomeni religiosi rituali

La nascita di un movimento: i credo

Il presupposto fondamentale per la nascita di un culto è che un gruppo di individui condivida un certo numero di credenze. Queste non devono essere necessariamente rivolte verso un essere superiore, come ad esempio un dio, ma

57 M. Massenzio, Manuale di Storia delle religioni cit., p.475. 58

R. Otto, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Zanichelli, Bologna, 1926, p. 43.

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possono essere indirizzate verso moltissimi aspetti dell’esistenza umana, a seconda dello sviluppo storico che il concetto di sacro ha avuto all’interno di una determinata società.

Se andiamo ad analizzare le motivazioni che spingevano centinaia di migliaia di giovani a viaggiare per svariati chilometri, in modi non sempre comodi e sicuri (diffusissima era per esempio la pratica dell’autostop), possiamo vedere come dietro a questa necessità di riunirsi vi fossero degli ideali che esulavano il semplice ascolto della musica o lo “sballarsi”, ma che risiedevano più nelle profondità degli individui; a questi eventi i partecipanti sperimentavano delle esperienze che andavano dalla più superficiale sfera sociale fino a esperire momenti e sensazioni che possiamo definire come propriamente mistico-religiosi. Molti di questi credo e ideali ebbero origine all’interno di quel movimento culturale che è stato definito Beat generation.

Per descrivere la genesi di questa nuova «costellazione intellettuale»59 si deve partire da uno dei suoi fondatori, Allen Ginsberg60. Questi «fa parte […] di una comunità di outsiders che vive prevalentemente nell’Upper West Side e Greenwich Village (New York), tra North Beach (San Francisco) e Venice Beach (Los Angeles), o che attraversa il continente in lungo e in largo, da New York a Denver, da San Francisco a New Orleans, dal New Jersey alla California del sud e oltre, fino a Città del Messico e all’America del Sud, in una disperata ricerca di un’identità che consenta di sfuggire alla cappa normalizzante imposta dalla cultura e dall’etica mainstream»61. Già in questo ritratto di Ginsberg possiamo

individuare aspetti che risultano essere indispensabili per la nascita di una communitas: questi soggetti si sentono degli outsiders rispetto alla propria comunità d’appartenenza, e non si riconoscono nel senso morale che domina la civiltà in cui sono inseriti; ciò li porta ad isolarsi dal resto della società, e a creare una cerchia, inizialmente ristretta, di individui che condividono uno spirito affine

59 A. M. Banti, Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, Laterza, Bari, 2017, p.268.

60 Allen Ginsberg (Newark, 3 giugno 1926 - New York, 5 aprile 1997) è stato un poeta statunitense. Viene comunemente riconosciuto come uno dei fondatori del movimento Beat.

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e che, nel caso specifico, portò alla nascita di una sorta di gruppo artistico; le persone che entrano a farne parte hanno in comune, loro malgrado, esperienze di vita fortemente disfunzionali (poiché sono molto giovani, relative soprattutto alle fasi infantili e adolescenziali). In definitiva questi giovani, ancora prima di cominciare a produrre, danno vita ad uno specifico credo identitario e artistico, al quale saranno fedeli sia nella produzione letteraria che nello stile di vita. Essi «elaborano un’ambiziosa new vision della letteratura che vorrebbero produrre, guidata dall’idea secondo la quale una autoespressione priva di censure dovrebbe essere il nucleo fondante dell’attività creativa, alimentata da un sistematico ampliamento della sensibilità, attraverso l’uso di droghe, l’impiego di visioni derivanti dagli stati allucinatori indotti dalle sostanze, la rielaborazione dei sogni – qualunque cosa consenta di liberarsi dall’oppressione di quella che loro giudicano l’ottusa moralità convenzionale dominante»62.

Questi ‘iniziati’, che con il passare del tempo cominciano a crescere di numero, si attribuiscono, già a partire dagli anni Quaranta un nome, una denominazione, aspetto fondamentale per potersi distinguere in maniera più netta dal resto della società: il termine che essi scelgono è quello di beat. Esso possiede «due accezioni: quella originaria di “battuto”, “prostrato”, “distrutto”; e quella meno ovvia, lanciata da Kerouac qualche tempo dopo, che trasforma questo stato di prostrazione in una condizione di grazia, o meglio di beatitudine (“beat” = “beatitude”), la beatitudine del perdente»63.

Questi giovani si sentono estranei all’ambiente e alla morale predominante, e cercano di combatterla mediante la creazione di una propria ideologia nella quale, come vedremo sarà centrale il consumo di sostanze stupefacenti, assunte per ampliare e alterare la propria percezione della realtà e dell’esistenza. La percezione di marginalità, dovuta dal loro essere, agli occhi della società mainstream, dei ‘perdenti’, dei looser, deve essere letta non in chiave negativa bensì come uno stato di grazia nel quale, anche mediate il consumo di droghe, è possibile fare esperienza del Diverso, dell’Altro.

62

Ibidem, p. 273. 63 Ibidem, p. 275.

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Per avere una più chiara idea di quali fossero i loro principi bisognerà aspettare le loro prime produzioni scritte. Sono due i testi che vengono generalmente considerati come i manifesti del movimento Beat: Howl di Allen Ginsberg, dal quale non è possibile scindere la performance legata alla sua prima lettura pubblica, e On the road di Jack Kerouac. Per la prima lettura pubblica di Howl bisogna tornare alla San Francisco del 1955, dove Ginsberg conosce il proprietario della casa editrice d’avanguardia City Lights, Lawrence Ferlinghetti, e il poeta locale Wally Hedrick, che gli propongono di organizzare una serata nella quale si sarebbero potuti esibire lui e altri i poeti di questa nuova corrente artistica. Dopo un’iniziale titubanza Ginsberg accetta: così la sera del 7 ottobre del 1955 alla Six Gallery di San Francisco prende vita la magia. Una descrizione di quello che accadde quella notte è riportata anche da Banti, il quale scrive: «le testimonianze disponibili […] insistono tutte su un aspetto particolare, ovvero la intensa fisicità della lettura, che in questa occasione è scandita dagli interventi di Kerouac, mezzo ubriaco, che a ogni pausa incoraggia Ginsberg ad andare avanti, gridando «Go! Go! Go!». Come scrive lo stesso Kerouac, la ritmicità complessiva assume quasi la prosodia di un’improvvisazione jazz»64. Alcuni

aspetti fondamentali di questa poetica innovativa, sono «la fisicità, la corporeità, l’oralità, la apparente immediatezza delle associazioni»65 i quali entravano in

contrasto con la concezione classica della poetica, fatta di ricerca e ponderazione. Ma questa creazione va anche oltre: essa crea un ulteriore scandalo intorno a sé in quanto supera la marcatissima linea del colore, considerata invalicabile nell’America degli anni Cinquanta, rielaborando le principali caratteristiche delle manifestazioni artistiche e musicali della cultura afroamericana. Già in questa prima analisi sono evidenti alcuni degli aspetti che faranno pienamente parte dell’ideologia Beat: l’immediatezza, e quindi la spontaneità sia in poesia che nella vita, e la riscoperta di una corporeità che la società americana a forti tinte puritane aveva fortemente condannato; aspetto quest’ultimo che si ricollega anche all’esaltazione della cultura afroamericana. A quest’ultima, oltre alla

64

Ibidem, p. 277. 65 Ivi.

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riscoperta della fisicità, si deve anche lo stile ritmato, usato da Ginsberg nella sua poesia, il quale rimanda alle composizioni jazz.

In Howl Ginsberg scrive: «Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia, hipsters testadangelo bramare l’antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte […]»66. Qui Ginsberg celebra la sua generazione e i suoi stili di vita

che, mediante l’uso sfrenato di droga e alcol, ha raggiunto uno status psichico che egli identifica con il termine «pazzia». Questo termine non deve essere letto in maniera negativa o patologica, bensì in chiave positivo-creativa: la pazzia di Ginsberg è una follia creatrice, che eleva i beats a un livello di sensibilità più profondo, che permette loro di penetrare gli orizzonti limitati della cultura mainstream, offrendo così le facoltà per poter creare una nuova ed originale ideologia.

La concezione di una follia non vista come malattia ma come forza creatrice ricorda, molto da vicino, quello che gli antichi greci identificavano con la mania dionisiaca. Come ha scritto Platone nel Fedro67, Dioniso «induce gli uomini alla follia»68 e allo stesso tempo è egli stesso «folle»69; ma la mania Dionisiaca se da una parte risulta essere distruttiva, in quanto frantuma l’ordine sociale nel quale vive il credente, dall’altra parte porta dentro di sé una grande potenza generatrice. Questa idea che lo stato alterato dell’io, in determinate situazioni, non fosse solo una condizione negativa, ma che anzi potesse essere un momento di ispirazione e di creatività - se non di contatto diretto con gli dei nel caso della divinazione - era tipico della cultura greca, e si ritrova anche in numerose altre civiltà, con strascichi che giungono fino alla società contemporanea (ad esempio, come visto in precedenza, con il tarantismo in Puglia). L’esaltazione dell’ebbrezza dionisiaca venne ripresa anche da Friedrich

66 A. Ginsberg, Urlo & Kaddish, il Saggiatore, Milano, 2010, p. 23. 67 Platone, Fedro, Feltrinelli, Torino, 2013.

68

G. Colli, La sapienza Greca, volume I, Adelphi, Milano, p. 25. 69 Ivi.

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Nietzsche nella sua opera intitolata La nascita della tragedia70, dove il filosofo tedesco si occupa dell’importanza dell’armonia tra Apollineo e Dionisiaco per lo sviluppo della tragedia greca. Per Nietzsche il Dionisiaco è quell’ebbrezza che si scatena quando si concepisce e si crea: è la vita stessa alla sua massima potenza che trabocca e diventa follia. La celebrazione della pazzia in quanto potenza creatrice ha quindi radici antiche, e quella effettuata dai beat più che una scoperta è una ri-scoperta. Nel credo della Beat generation, - quindi di un fenomeno che possiamo considerare pressoché contemporaneo, oltre che pienamente inserito all’interno del contesto occidentale - questa «celebrazione della pazzia, di una sessualità priva di limiti, etero- od omosessuale che sia, della bellezza e della creatività delle divisioni derivanti dall’uso della droga»71 viene descritta «con la

sfrontata provocatorietà di chi sa benissimo (e lo sa perché l’ha sperimentato sulla propria pelle) quanto queste idee e queste pratiche siano osteggiate, marginalizzate e represse nella società americana di metà anni cinquanta»72. In riferimento a questo aspetto è interessante l’analisi che Turner fa a proposito del Romanticismo, ma che noi non avremmo difficoltà ad estendere a quei movimenti, e in primis alla Beat generation, che a partire dagli anni Cinquanta hanno in qualche modo sfidato l’ordine precostituito; a tale riguardo Turner scrive: «Secondo me processi sociali relativamente tardi, storicamente parlando, quali la “rivoluzione”, l’“insurrezione”, e perfino il “romanticismo”, in campo artistico, caratterizzato dalla libertà formale e spirituale, dall’importanza attribuita al sentimento e all’originalità, costituiscono, un’inversione del rapporto fra il normativo e il liminale che sussiste nelle società “tribali” e in altre società essenzialmente conservatrici. Infatti in questi processi e movimenti moderni, che sono i nuclei generatori della trasformazione culturale, lo scontento per la situazione culturale preesistente e la critica sociale, che nel liminale preindustriale sono sempre impliciti, hanno conquistato una posizione centrale:

70 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 2017. 71

A. M. Banti, Wonderland cit., pp. 278-279. 72 Ibidem.

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essi sono un’interface fra “strutture fisse”, ma investono l’evoluzione complessiva della totalità»73.

Nella poesia Howl di Gisnberg sono riscontrabili tutte quelle caratteristiche che Turner ha attribuito allo status di marginalità e che si coagulano nell’antistruttura della communitas. Per l'appunto Banti ha riconosciuto come in questo componimento «la litania cerimoniale di Ginsberg ha un incombente tono tragico, che deriva dalla perfetta consapevolezza dello stato di marginalità in cui si trova chi voglia sfidare l’orizzonte etico dominante. […] Ginsberg spiega la ragione profonda della ribellione bohémien, descrivendo la società americana come Moloch, una divinità patriarcale che sacrifica i propri figli in nome dell’ossessione per la ricchezza, talmente pervasiva da rendere tutti completamente insensibili alla bellezza e all’intelligenza critica. La terza e la quarta parte concludono l’opera con un dolente inno all’amicizia tra intellettuali alternativi […] e, infine, con una celebrazione della “santità” controculturale dei “battuti” – i beat»74. In questa descrizione sono evidenti sia il sentimento di

liminalità che pervade l’animo dello scrittore, e che egli riconosce essere connaturato a tutto il movimento beat, e la volontà, la necessità, di lottare contro la “struttura” sentita come conservatrice e opprimente.

La storia della pubblicazione della raccolta di poesie di Ginsberg che contiene anche Howl rientra pienamente nelle dinamiche che si instaurano nello scontro tra struttura e antistruttura postulate da Turner, poiché la diffusione di questo testo venne fortemente osteggiato dall’ordine costituito: il 25 marzo del 1957 Chester MacPhee, in qualità di funzionario delle dogane dello stato della California, ordinò il sequestro di 520 copie dell’opera di Ginsberg per proteggere i bambini dal contenuto, considerato osceno, delle poesie in essa presenti. Dopo una battaglia legale durata diversi mesi, il 3 ottobre 1957 il giudice Clayton Horn assolse gli imputati, tra cui Ferlinghetti, mentre Ginsberg non venne coinvolto solo perché in quel periodo si trovava in Marocco, dall’accusa di oscenità grazie a una sentenza della Corte Suprema sulla libertà di espressione. Se leggiamo cosa

73

Ibidem, p. 88.

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ha scritto l’antropologo inglese riguardo alla conflittualità tra struttura e antistruttura ci rendiamo conto di come questo caso rientri a pieno titolo in queste dinamiche: i «tentativi di conversione attuati dagli individui della communitas possono essere intesi non solo dalle élites al potere della struttura sociale, ma anche dalla massa di coloro che appagano nell’obbedienza alla norma il loro bisogno di sicurezza, come una minaccia diretta alla loro personale autorità o sicurezza e forse soprattutto alla loro identità sociale fondata sulle istituzioni. Così le tendenze espansive della communitas possono scatenare una campagna repressiva da parte di quei membri della società che si trincerano dietro la struttura, il che a sua volta conduce ad una opposizione più attiva, addirittura militante, degli uomini della communitas»75.

La seconda opera che fa da manifesto al movimento Beat è On the road di Jack Kerouac, pubblicata il 5 settembre 1957. Sorta di manifesto in forma di romanzo, vi si narra dell’amicizia di Kerouac, Ginsberg e Neal Cassady e dei viaggi che quest’ultimo e l’autore hanno intrapreso in lungo e in largo per il territorio americano, durante i quali i due hanno sviluppato rapporti, anche sentimentali e amorosi, con persone dei più svariati generi. Ma il tema principale del libro è «il viaggio senza meta, giocato in disperata contrapposizione all’idea di entrare definitivamente nella rat race, nell’ingranaggio distruttivo della società americana postbellica»76. Questo testo, come tutti i testi sacri che si rispettino, presenta anche un suo mito di fondazione: in esso si racconta che Kerouac, colto da un ingovernabile raptus creativo dovuto anche alle forti dosi di benzedrina che aveva assunto, lo abbia scritto su un rotolo da telescrivente lungo 36 metri senza ma interrompersi per ben tre settimane.

In On the road il distacco che l’autore e gli appartenenti alla sua generazione, provano nei confronti della struttura dominante, e il loro desiderio di dare forma a una nuova antistruttura, è rafforzato anche dalla passione e dall’esaltazione delle culture altre, soprattutto se a loro volta sono anch’esse emarginate dal resto della società americana: tra esse, in primis l’autore apprezza

75

Victor Turner, Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 98-99. 76 A. M. Banti, Wonderland cit., p. 284.

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quella afroamericana, dalla quale riprende, nella sua scrittura, anche il ritmo sincopato del jazz. Tutte le culture che egli esalta vengono «contrapposte al rapace disastro emotivo prodotto dalla cultura bianca»77.

Vi è una frase nel libro di Kerouac, forse una tra le più belle e suggestive della letteratura del XX secolo, che dimostra la sua propensione per il mondo marginale e per i suoi cittadini: « A quel tempo [Dean e Carlo] danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessavano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbagliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra e tutti fanno “Oooooh!”»78.

Come era successo per Howl di Ginsberg anche On the road di Kerouac viene accolto da aspre critiche da parte dei critici appartenenti alla cultura mainstream americana. Come abbiamo visto, secondo Turner questo tipo di critiche nei confronti di un’antistruttura nascente provengono da individui appartenenti alla struttura dominante, intimoriti sia dalle novità apportate dall’antistruttura che si distaccano dalla conduzione di un tipo di vita considerato canonico, sia dalla possibilità che questi cambiamenti possano prendere piede e ‘contagiare’ altre unità della maggioranza. Un esempio in cui tutti i timori e i pregiudizi verso la letteratura Beat vengono pienamente esplicati è dato da un articolo pubblicato nel 1958 sulla rivista “Partisan Review”, intitolato The Know-Nothing Bohemians firmato dal giornalista americano, appartenente oggi alla corrente neocon, Norman Podhoretz. In questo articolo Podhoretz scrive: «The Bohemianism of the 1950 is another kettle of fish altogether. It is hostile to civilization; it worships primitivism, instinct, energy, "blood." To the extent that it has intellectual interests at all, they run to mystical doctrines, irrationalist philosophies, and left-wing reichianism. The only art the new Bohemians have

77 Ivi.

78 J. Kerouac, On the road, Viking press, New York, 1957 (Prima edizione italiana Sulla strada, traduzione di Magda de Cristofaro, Mondadori, Milano, 1959. Qui Sulla strada, traduzione di traduzione di Marisa Caramella, Mondadori, Milano, 2006, p. 11).

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any use for is jazz, mainly of the cool variety. Their predilection for bop language is the way of demonstrating solidarity with the primitive vitality [ and spontaneity they find in jazz and of expressing contempt for coherent, rational discourse which being a product of the mind, is in their view a form of death. To be articulate is to admit that you have no feelings (for how can real feelings be expressed in syntactical language?), that you can't respond to anything (Kerouac responds to everything by saying Wow!) and that you are probably impotent.»79; nella conclusione del suo articolo Podhoretz attacca la Beat generation là dove più ci interessa, cioè nel suo significato sociale complessivo; in esso egli riconduce il primitivismo, la celebrazione della criminalità e l’esaltazione dell’istintività, a una possibile deriva nella criminalità giovanile. Ancora un altro giornalista di nome Paul O’Neil scrive su “Life” un articolo in cui i Beat vengono accusati di essere: «contro tutto ciò che di buono si può trovare nella società americana»80, per poi cominciare un lungo elenco degli aspetti che egli considera come positivi, in cui mostra di possedere una mentalità fortemente conservatrice; infatti in esso riporta elementi come il matrimonio, la famiglia, la religione organizzata, ecc. Questi due articoli rappresentano alla perfezione una specie di anti-manifesto del movimento Beat; in quanto: nell’elencare le motivazioni della loro condanna a questo credo, ne tratteggiano le caratteristiche principali, individuando il nucleo centrale di un movimento così magmatico.

Parte della genesi del credo dei movimenti che daranno vita, negli anni Sessanta e Settanta, ai grandi raduni rock quindi è da ritrovarsi nella Beat generation, la quale ha portato fino in fondo la sua natura di communitas poiché al gruppo predominante non è riuscito il «tentativo di “criminalizzare” o “di normalizzare” l’immagine della Beat generation […]. Soprattutto non riesce l’operazione che invece dà così buoni frutti nel caso dei rocker o dei surfer, di “integrare” i beat dentro l’orizzonte della cultura mainstream»81.Questo avvenne

79 Norman Podhoretz, The Know-Nothing Bohemians, Partisan Review, Spring, 1958 (qui http://sitesarchive.unc.edu/tech/webdesignws/basic/graphics/Readings/knownothing.pdf

80 Paul O’Neil, The Only Rebellion Around, Life, 30 novembre 1959 (Riportato da A. M. Banti,

Wonderland, cit., p. 294).

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perché «i materiali concettuali di cui in definitiva è fatta la proposta beat risultano decisamente troppo controtendenza. L’esaltazione di una libera sessualità, dell’abbandono di sé nell’alcol o nella droga, del buddismo zen come via per l’illuminazione, o degli antieroi underground, sono tutti temi che non trovano nessuna possibilità di integrazione dentro il quadro narrativo ed etico della cultura di massa mainstream»82. E anche grazie alla funzione aggregante propria della communitas, che a differenza della struttura non è escludente bensì cerca di portare più individui possibile al suo interno, che un movimento come quello beat ha avuto un grande effetto sulla massa dei giovani statunitensi. Sia ragazzi che ragazze sono stati attratti dal modello beat, nel quale vedevano la possibilità di rompere con l’idea di un’esistenza vissuta come i loro genitori, e dalle generazioni recedenti, che ai loro occhi risultava essere piatta e opprimente. Molti ragazzi entrarono a far parte delle comunità beat che stavano nascendo soprattutto in tre aree degli Stati Uniti: North Beach (San Francisco); Venice Beach (Los Angeles); Greenwich Village (New York). Come riportato nell’articolo di Ned Polsky pubblicato sul “Dissent” nel 1961 e scritto in seguito ad una ricerca condotta tra il 1957 e il 1960 a Greenwich, i ragazzi che frequentano queste comunità sono eterogenei sia dal punto di vista etnico che sociale; in più, a differenza di quanto scritto dalla stampa legata alla cultura mainstream, gli appartenenti alle comunità beat non sono dei degenerati senza nessun senso critico e in cerca dello sballo facile, bensì «diversamente dalla maggior parte dei loro pari-età, beat sono dei critici acuti della società nella quale sono cresciuti. La loro ideologia antilavoro non è tanto un segno di incapacità ad accettare il principio di realtà, quanto un segno di disaffiliazione da realtà specifiche e mutevoli. Sensibili all’ineguale distribuzione dei redditi nella società americana e alla crescente spersonalizzazione del lavoro e del divertimento e delle sue ingiustizie razziali e alla sua Permanente Economia di Guerra, i beat hanno risposto con uno Sciopero Permanente. Si tratta di una risposta tragicamente sbagliata, autodistruttiva e incapace di promuovere qualunque cambiamento sociale: ma è un errore virtuoso, che deriva dallo sgomento per la

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