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Il Panorama musicale italiano negli anni Sessanta e Settanta

Una nota terminologica

Per parlare del fenomeno musicale oggetto di questo elaborato, si utilizzerà l’espressione inglese Popular music, poiché la sua traduzione letterale in lingua italiana - ‘musica popolare’ - come scrivono Franco Fabbri e Goffredo Plastino «had been widely used in the nineteenth and twentieth centuries to refer to folk music (orally transmitted, traditional music), and as such it had been appropriated by folklorist and ethnomusicologists»172. L’espressione Popular Music si riferisce invece a tutt’altra produzione musicale, nell’ambito del concetto più ampio di Popular culture (in italiano cultura di massa): con essa si intende «un sistema di produzione e circolazione di informazioni e narrazioni trasmesse attraverso una serie di media (giornali, libri, immagini, film, musiche, canzoni), pensati come strumenti d’informazione e di intrattenimento per persone mediamente colte e con disponibilità di reddito relativamente contenute»173. In sostanza, un sistema in cui un ruolo fondamentale viene svolto da quelli che verranno definiti come mass media, che assurgono alla funzione di tramite attraverso cui queste produzioni mainstream attuano quello che è il loro obiettivo principale, cioè il profitto. I produttori di cultura di massa non nascondono che il loro intento principale sia quello di ricavare un consistente profitto monetario, tanto che questo sistema produttivo è stato definito come un’“industria culturale”174; senza che questo escluda, ovviamente, che le sue produzioni

culturali possano raggiungere anche un elevato valore culturale e artistico175.

172 F. Fabbri, G. Plastino, An Egg of Columbus: How Can Italian Popular Music Studies Stand on Their

Own? Ibidem, in Made in Italy. Studies in popular music, Routledge, New York, 2014, p.1.

173 A.M. Banti, Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, Laterza, Bari, 2017, pp.6-7.

174 Ivi.

175 All’interno della definizione di Popular music vanno incorporate, oltre alle musiche pop più propriamente legate al mondo dell’industria culturale mainstream, anche quelle produzioni musicali che in seguito si caratterizzeranno per il loro valore controculturale e underground, come il Rock n’Roll, il

Il boom

Nell’Italia del Secondo Dopoguerra la produzione musicale era totalmente assoggettata alle leggi del mercato: in quegli anni con il grande boom economico che investì la Penisola e insieme al quale giunsero anche nuovi e più moderni sistemi di produzione arrivò da oltreoceano anche quella che è stata definita come la Società dei consumi. È solo all’interno di una società di questo tipo infatti che nel 1962 sarà possibile leggere, in un libro dedicato al mondo della musica e scritto da due giovani Mogol e Daniele Ionio, un passo di questo tenore: «sussistendo un rapporto di domanda e offerta, il paroliere, il musicista, il cantante, l’arrangiatore debbono essere “commerciali”, debbono produrre, cioè, un lavoro che si possa vendere facilmente […]. Il valore espressivo della canzone, in termini industriali, è un’astrazione: ciò che conta, ciò che è da discutere è la sua capacità di essere venduta […]. Come un dentifricio o un’automobile, si richiede che il prodotto, cioè la canzone, risponda a determinati requisiti di base, indispensabili, a un dosaggio di elementi ben precisati»176.

A partire dagli anni Cinquanta ci fu così in Italia un proliferare di numerose case discografiche. Nacque nel 1949 la sede italiana dell’americana Rca, che aprì la prima fabbrica sul suolo italiano nel 1951 a Roma, e sempre nello stesso anno fondò la prima società per azioni posseduta al 90% dalla multinazionale statunitense e al 10% dallo IOR. La forte influenza della Chiesa cattolica è riscontrabile anche nella nomina del primo presidente dell’azienda, Enrico Pietro Galeazzi, dipendente vaticano e uomo di fiducia del papa. La forte influenza del Vaticano all’interno della Rca non deve essere sottovalutata, vista la politica di censura su alcune tematiche che questa etichetta adotterà negli anni a seguire. Va sottolineato come fu proprio la Rca a importare all’interno di questo mondo «un’agguerrita filosofia manageriale tipicamente americana»177

e «l’uso di tecniche di marketing ancora sconosciute in Italia»178. Sempre negli

anni Cinquanta, nel 1958, nasce un’altra casa discografica che segnerà la storia

176 Il brano è riportato anche in Marco Santoro, Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore, il Mulino, Bologna, 2010, pp. 37- 38.

177

Ibidem, p. 91. 178 Ivi.

della musica italiana: la Dischi Ricordi S.p.A. Questa venne fondata da Nanni Ricordi, la cui famiglia tramite le edizioni musicali Radio Record Ricordi, aveva pubblicato numerosi editoriali di musica classica. La Ricordi, almeno al momento della sua nascita, si era sviluppata con presupposti diversi da quelli prettamente commerciali propri della Rca; infatti, come ha scritto Nanni Ricordi in alcuni suoi appunti, «provammo a partire veramente da zero. A partire rovesciando il solito ragionamento e la solita impostazione: e se cercassimo di considerare la canzone, la musica leggera, non soltanto e soprattutto come fabbrica di cliché, se provassimo a vedere se, anche in questo campo, come negli altri settori della cultura […], si poteva partire guardando il mondo intorno a noi, guardando se […] c’era qualcuno che aveva qualcosa da dire, usando la canzone?»179. La combinazione dell’approccio imprenditoriale con una vocazione più artistica e culturale sarà un tratto distintivo delle pubblicazioni della Ricordi.

Questo sviluppo imprenditoriale avvenne proprio nel momento della grande espansione del mercato discografico italiano, che nel giro di poco più di dieci anni passò dai 3 miliardi di lire del 1954 ai 32 miliardi del 1967. È stato stimato che al termine degli anni Sessanta tra le circa sessanta case discografiche attive, le ottocento case editrici specializzate, tra cantanti, strumentisti, autori, operai, negozianti e impiegati di vario genere lavorassero per il mondo discografico o in settori ad esso annessi circa 70.000 persone. Questa macchina da soldi, che si nutriva tramite la continua produzione di nuovi divi, era aiutata nella sua continua espansione dal potenziamento dei mass media e in particolare dalla neonata televisione italiana, la quale dal 1955 cominciò a trasmettere quello che sarebbe diventato il simbolo della musica leggera nella penisola, il Festival di Sanremo. Fu proprio a Sanremo che le caratteristiche proprie della musica leggera italiana, e in parte della stessa popolazione, vennero esaltate fino ad arrivare all’esasperazione. Per comprendere appieno la natura della produzione musicale del nostro Secondo Dopoguerra bisogna sottolineare come il mondo della musica italiana fu uno di quei campi, e purtroppo furono molti, in cui il

passaggio dalla dittatura fascista allo stato democratico non comportò un vero e proprio cambiamento. All’interno di questo microcosmo il passaggio alla democrazia avvenne all’insegna di una strisciante continuità nelle cariche ricoperte ai massimi livelli, e di un evidente immobilismo culturale. Dal punto di vista istituzionale basta ricordare che il direttore artistico delle prime edizioni del Festival di Sanremo fu una figura come Giulio Razzi, che durante il Ventennio aveva ricoperto il ruolo di direttore della programmazione della EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche); com’è anche significativo il fatto che la maggior parte degli autori che presentarono le loro canzoni a Sanremo, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, avessero iniziato la loro carriera durante la dittatura. Tra questi troviamo anche Mario Ruccione, vincitore per ben due volte del Festival come autore, a cui si deve la musica di Faccetta nera.

Questa continuità a livello istituzionale comportò anche, e soprattutto, delle pesanti ripercussioni a livello culturale e artistico: come sottolinea Roberto Agostini180, «Razzi continued to follow EIAR’s polices regarding music entertainment: he chose the music publishing industry as RAI’s main interlocutor, not only for economic reasons, but also to satisfy the didactic intent that had characterized EIAR’s publishing policy»181

. Ciò comportò quindi che le scelte delle musiche da passare in radio e da ammettere al Festival furono effettuate mediante una forma mentis sviluppatasi sotto il regime, la quale «based on the idea of a kind of light music that was easily accessible, moralizing and decent, and that sought a balance between the national-popular tradition and the modern pro-American trend»182.

Il potere politico all’interno della competizione non venne mai meno, e più o meno apertamente viene esercitato ancora oggi. Inizialmente questo controllo avveniva direttamente tramite la gestione della Rai la quale però, in seguito alle accuse di una gestione poco trasparente dell’evento, nel 1957 smise di organizzare ufficialmente il Festival; ma l’influenza politica - o sarebbe

180 R. Agostini, Effects. The Festival and the Italian Canzone (1950s-1960s) in Made in Italy. Studies in

Popular Music, a cura di F. Fabbri e G. Plastino, Routledge, New York, 2014.

181

Ibidem, p. 29. 182 Ivi.

meglio dire quella della Democrazia Cristiana, che risulterà essere il partito egemone per l’intero periodo che va dall’immediato dopoguerra fino alla metà degli anni Ottanta - verrà esercitata comunque mediante l’influenza che i partiti avevano sulle nomine interne alla Rai, che se non organizzava più direttamente il Festival rimaneva comunque l’ente che lo trasmetteva in diretta: prima in radiovisione (dal 1951) e in seguito, a partire dal 1955, in televisione. Il Festival di Sanremo era considerato come il tempio del “bel canto” all’italiana. Ma cosa s’intendeva, e in parte s’intende ancora oggi, con questo concetto? Da cosa si evince la sua italianità? Su questo punto è interessante la ricostruzione che fa Valerio Mattioli183, che descrive la musica che ogni anno viene prodotta per questo evento - fino ad alcuni anni fa ancora capace di catalizzare l’attenzione del Paese intero - come «una celebrazione addirittura meticolosa di tutti gli ingredienti che trasformano quella che altrove chiamerebbero pop song in una vera, autentica, genuina canzonetta, e sono ingredienti che più che a rispondere a qualche regola non scritta, sembrano rispondere a un misterioso dato di fatto addirittura genetico»184. Già in questo passaggio possiamo trovare un termine che viene comunemente associato alla canzone italiana, cioè quello di “canzonetta”, che sta a indicare, allo stesso tempo in modo sia dispregiativo che vezzeggiativo, la sua semplicità e leggerezza. Mattioli continua nella sua descrizione del fenomeno sanremese prendendo in prestito da Dumas una frase del Conte di Montecristo, nel quale lo scrittore francese dà adito a uno dei cliché che storicamente accompagna la nostra identità nazionale, cioè che «tutti gli italiani conoscono la musica»; ma non una musica qualunque, ma una musica straziante e incontenibile. Da questa affermazione Mattioli deriva che «di questo stereotipo la canzonetta sanremese incarna gli aspetti più vistosi, che sommariamente sarebbero: un melodismo esasperato di chiara ascendenza melodrammatica; un’atmosfera a cavallo tra nostalgia, sentimento e sprazzi di incontenibile solarità; un certo esotismo che, specie alle orecchie degli stranieri, dona alla musica quella caratteristica aria “mediterranea”; e un impatto lirico-testuale i cui

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V. Mattioli, Superonda. Storia segreta della musica italiana, Baldini & Castoldi, Milano, 2016. 184 Ibidem, p. 33.

protagonisti si chiamano buoni sentimenti, amori esplosivi, ma anche tragici addii e drammatici rimpianti»185.

Le origini di questo modo di sentire e produrre musica devono essere ricercate nelle sue profonde radici mediterranee che ancora oggi influenzano il pop nostrano, e più precisamente nella musica napoletana. Fu proprio a Napoli, città ricca di tradizione musicale, che dal 1830 si tenne un vero e proprio festival di musica e canzoni popolari. Una delle canzoni emerse dalla manifestazione del 1839 divenne addirittura un fenomeno di massa: si tratta di Te voglio bene assaje, il cui spartito venne venduto in 180.000 copie, un numero esorbitante per l’epoca, in una nazione ancora divisa. Dal successo di questa canzone nacque un repertorio di brani che nel 1898 portò alla composizione napoletana più famosa del mondo, ‘O Sole Mio. In seguito la canzonetta partenopea ebbe una nuova, e definitiva, maturazione intorno agli anni Trenta del Novecento, con autori del calibro di Cesare Andrea Bixio; questi, grazie «a una vena melodica che sapeva oscillare dalle litanie più melense agli allegri ritmi sincopati, dalla fine degli anni Venti in poi […] sfornò una serie di successi alcuni dei quali restano tra i più riconoscibili standard del canzoniere pop italiano»186. Bixio e i suoi colleghi dell’epoca, nonostante avessero raggiunto l’apice della loro carriera sotto il regime fascista e quindi in un clima profondamente nazionalista, riuscirono comunque a inserire nelle loro composizioni influenze provenienti dalla Chanson francese e dallo swing americano.

Interessante per il tema della continuità a livello istituzionale e culturale tra il regime fascista e lo stato democratico è l’analisi di Mattioli sulla prima edizione del Festival di Sanremo (1951) e sull’affermarsi al suo interno della canzonetta. Mattioli vi vede la necessità di continuità da parte di una popolazione che, prostrata dalla guerra, cercava un simbolo a cui ancorarsi per poter ripartire, trovandolo proprio nella canzonetta. Questo ritorno al passato fu talmente forte che le influenze dello swing - entrate in Italia, come abbiamo visto nel caso di Bixio, durante il fascismo - non trovarono più spazio, paradossalmente,

185

Ivi.

nell’Italia libera e democratica, tanto che cantanti che si erano formati sotto questo genere musicale dovettero virare verso generi che fossero più affini ai gusti degli italiani “moderni”.

Un primo cambiamento per la musica italiana verrà registrato nel 1958. Quell’anno, in concomitanza con il presentarsi dei primi sentori di quello che verrà chiamato “il miracolo economico italiano”, a vincere il Festival di Sanremo fu un giovane cantante pugliese alla sua prima partecipazione alla competizione canora, Domenico Modugno. Questi, che tra l’altro era inviso a parte dell’establishment della Rai, e quindi di Sanremo, per alcune sue posizioni personali, per il tempo anticonformiste, vinse con una canzone intitolata Nel blu dipinto di blu, che sarebbe diventa, insieme a ‘O Sole Mio, la canzone italiana più famosa di sempre. Leggendo la stampa dell’epoca il giudizio su questo brano sembra essere unanime: era considerata, per il panorama italiano, una canzone diversa, innovativa, originale. In realtà nella vittoria di Nel blu dipinto di blu possiamo osservare due caratteristiche che ci danno non solo un quadro della situazione della musica italiana di quegli anni, ma anche della mentalità del pubblico che portò il brano alla vittoria, e che sono solo in parte innovative. Dal punto di vista stilistico la canzone, secondo Mattioli, «restituisce lo stereotipo della melodia all’italiana» ed è «a tutti gli effetti un sano esempio di melodismo belcantista che si adegua in maniera disinibita, ma non brusca, ad atmosfere concitate solo lontanamente “americane”: il profilo melodico del brano è nel più tipico solco della tradizione mediterranea, e la performance vocale di Modugno non rinuncia a nessuna delle caratteristiche tipiche della canzonetta tradizionale quali volume, estensione, ed espressività del timbro»187: il brano di Modugno era insomma tutto tranne che rivoluzionario, e ciò dimostrava che nel panorama italiano per essere indicati come innovatori bastava veramente poco e che, come abbiamo già visto, il mondo della canzonetta non era un territorio in cui le rotture radicali venissero molto apprezzate, preferendovi il conforto della continuità.

È del resto doveroso segnalare, in parziale disaccordo con Mattioli, come questo brano abbia significato, almeno per una parte dei futuri compositori, un

vero e proprio solco nella storia della musica italiana. Infatti con la performance di Modugno del 1958 nasce nel vocabolario musicale italiano il termine “urlatore” per indicare un cantante che utilizza la voce in maniera diversa, proprio come fece Modugno in quel Festival, sfruttando al massimo la propria estensione vocale. Per questo suo modo interpretare le canzoni Modugno viene considerato dalla critica come il capostipite di quel genere di musica, tutto italiano, che va sotto il nome di cantautorato. Esistono diverse testimonianze di come la novità portata dal cantante pugliese venne, infatti, percepita da quei giovani che negli anni seguenti sarebbero andati a formare questa nuova corrente musicale. Una di queste è quella di Fabrizio De André, il quale ricorda come l’uscita di Nel blu dipinto di blu avesse segnato i cantanti della sua generazione; in un’intervista egli raccontò: «avevo diciotto anni, era il ’58, l’anno in cui Modugno era esploso a Sanremo con Volare, rivoluzionando tutti i nostri schemi e mandando in pezzi le nostre idee sulla canzone, anche le più progredite»188. Possiamo dire che Modugno anticipò i cantautori, almeno nella sua carriera precedente alla vittoria di Sanremo, anche per lo scontro che ebbe con l’establishment politico-sociale, aspetto che sarà ricorrente nelle carriere di molti cantautori, per i temi trattati in alcune sue canzoni. Nel 1957 la canzone Resta cu’mme venne criticata dalla Rai, perché in un passaggio del testo diceva: «nun me ‘mporta d’o passato/nun me ‘mporta e chi t’ha avuto»; dal quale si poteva desumere che l’interlocutrice del cantante avesse avuto altri uomini prima di lui; questa era una posizione inaccettabile per l’Italia del tempo saldamente in pugno alla DC, quindi la macchina della censura costrinse Modugno a cambiare il testo con una versione edulcorata, nella quale l’allusione ad altri amori precedenti scomparve: «Nu’ me ‘mporta si ‘o passato, sulo lagreme m’ha dato». Sempre nello stesso anno al Festival di Napoli un’altra sua canzone intitolata Lazzarella suscitò scandalo perché faceva riferimento a una ragazza rimasta incinta fuori dal matrimonio189.

188 M. Santoro, Effetti Tenco, p. 41.

189 Il fatto che la ragazza sia incinta è sottolineato, nel testo della canzone, dal particolare della camicia che, con il passare del tempo, gli sta sempre più stretta sul ventre: «te va sempe 'cchiu stretta a camicetta a ffiore blu te piglie quattro schiaffetutte'volte ca papa' te trova nu biglietto ca te scrive chillo lla' lazzare'».

È a partire da questo momento che all’interno della musica italiana si creano, al di là della sopravvivenza della canzonetta, tre correnti con sviluppi in parte differenti e in parte affini che ebbero tutte una grande influenza sul movimento di protesta giovanile italiano nel suo quasi decennale periodo di sviluppo, coprendo un periodo che va dal 1968 al 1977: il cantautorato; la musica popolare di protesta; l’arrivo, anche in Italia, della musica Rock, la quale ebbe in particolare un grandissimo successo nel panorama peninsulare sotto forma di Progressive Rock (anche detto prog).

I cantautori

La fondazione di questo genere viene quindi generalmente attribuita a Modugno, e più precisamente alla sua performance al Festival di Sanremo del 1958, che terminò con il trionfo di Nel blu dipinto di blu. L’origine del neologismo “cantautore”, che implica che chi canta una canzone ne sia anche l’autore, viene fatta risalire da Marco Santoro al direttore della Rca, Ennio Melis, e a Vincenzo Monti, un altro funzionario della major americana. Pare che questi due personaggi lo coniarono per cercare di etichettare commercialmente, potendo così opporgli un’alternativa, giovani cantanti - tra cui Giorgio Gaber e Gino Paoli - con cui la Ricordi stava avendo un grande successo.

La dimostrazione di come, ormai, anche in Italia si fosse alla presenza di una società industrializzata e consumistica risulta evidente dal fenomeno di intermedialità, tipico della cultura di massa, all’interno della quale venne a trovarsi anche il cantautorato. Nel 1961, visto il successo che i cantautori stavano riscontrando, la Rai mandò in onda, in prima serata, un programma intitolato Il Cantautore, nel quale i nuovi artisti venivano presentati al grande pubblico. Allo stesso tempo dietro al fenomeno commerciale del cantautorato venne a crearsi, tra il 1959 e il 1961 (indicati non a caso come gli anni d’oro dei cantautori), una fenomenologia legata principalmente alla dimensione culturale e artistica: come scrive Santoro, «nell’uso del termine “cantautore” comincia ad acquistare invece un significato più circoscritto e forte, tendente a identificare non genericamente chi canta le proprie canzoni, ma il cantante e autore di certe canzoni,

caratterizzate da un testo e spesso una musica, o un arrangiamento, diversi da quelli delle canzoni “di consumo”, della musica leggera»190.

Inizia quindi a tracciarsi una divisione di tipo valoriale, in cui la linea di demarcazione separa le canzoni che possiedono un certo valore artistico e

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