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Il contesto politico e sociale dell’Italia dal Secondo dopoguerra agli anni Settanta

L’Italia del “miracolo economico”

Dalla Seconda guerra mondiale l’Italia era uscita in ginocchio: costretta a firmare un armistizio che le imponeva una resa incondizionata, dopo la conclusione del conflitto fu completamente nelle mani degli Stati Uniti e dell’ONU: distrutta dai bombardamenti tedeschi e alleati, che avevano contribuito a massificare l’endemico problema della mancanza di abitazioni, l’Italia versava in uno stato igienico sanitario molto più che allarmante. Spaccata in due realtà geografiche - un Sud povero e prevalentemente agricolo, dove neanche la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, sabotata del resto da corruzione e clientelismo, riuscì a trascinare il Meridione ai livelli del Centro- Nord, e un Nord più ricco e industrializzato - ma divisa anche nella sua stessa anima, lacerata da conflitti socio-culturali che erano stati covati per più di vent’anni e che la mancata epurazione dei funzionari di magistratura, esercito, polizia, enti locali, enti autonomi e della burocrazia ministeriale non era riuscita a sanare: una situazione in cui la sete di giustizia sociale non poteva essere soddisfatta, innestando da subito tra i cittadini quel senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni che ancora oggi risulta essere così forte tra la popolazione italiana.

Il mancato ricambio all’interno della magistratura avrà effetti molto importanti, come vedremo, soprattutto in quello scorcio di tempo che va dal 1968 al 1977, quando i giudici, formatisi sotto la dittatura fascista, applicarono nelle loro sentenze leggi approvate durante il Ventennio (d’altronde lo stesso Codice penale italiano, il cosiddetto Codice Rocco, era stato scritto in piena dittatura), ma applicarono soprattutto una forma mentis che era figlia dell’epoca mussoliniana, quindi fortemente conservatrice e per niente incline alle nuove necessità di progresso che i giovani di quegli anni esprimevano.

La mancata epurazione del personale di formazione fascista si fece sentire, sempre negli stessi anni in cui la magistratura emetteva sentenze in odore di Ventennio, anche tra gli organi militari e nei servizi segreti, anche civili, all’interno dei quali si svilupparono eventi allarmanti, come i diversi tentativi di colpi di stato, dal Piano Solo al Golpe Borghese. Non ci devono meravigliare questi avvenimenti e modi di agire, in un paese in cui, a poco più di un anno dalla fine della guerra, venne permessa la costituzione di un partito apertamente neofascista come il Movimento Sociale Italiano, che avrà una larga parte nelle manovre che apparati parastatali misero in atto durante tutto il periodo della cosiddetta “strategia della tensione”.

Con le elezioni del 1948 la DC diede inizio alla sua egemonia politica all’interno delle istituzioni, un dirigismo che le fece attribuire il soprannome di “balena bianca” e che sarebbe durato per quasi un quarantennio. Durante l’egemonia democristiana, il PCI in più occasioni sembrò poter scalzare il dominio degli scudocrociati ma, sia per i condizionamenti internazionali, imposti dalla Guerra Fredda, sia per una rigidità nei confronti dell’ortodossia marxista che non mise in grado il partito di comprendere le richieste della massa di giovani, non riuscì mai a prendere il potere. Anche la DC del resto non era libera da diverse problematiche, soprattutto di natura interna: infatti essa era divisa in diverse correnti che si rifacevano alle figure più di spicco del partito e che si combattevano a colpi di clientelismo promettendo, in cambio di voti, posti nei vari enti pubblici.

Un’altra problematica che la DC avrebbe dovuto affrontare, soprattutto nei primi anni della Repubblica, era il suo rapporto con il Vaticano. Sebbene sia De Gasperi che Fanfani avessero voluto creare una maggiore indipendenza del partito nei confronti del Vaticano, la Chiesa era, in realtà, molto utile alla DC, in quanto grazie al suo profondo radicamento nella società italiana era capace di influenzare quest’ultima anche a livello elettorale; e in fin dei conti la Chiesa appoggiava sempre la Democrazia Cristiana. Accanto alla conferma dei Patti Lateranensi all’interno della neonata Costituzione, grazie ai quali l’educazione religiosa era obbligatoria nel circuito scolastico, vi erano altri mezzi tramite cui il

Vaticano poteva influenzare la società civile italiana. Al di là delle parrocchie, che dagli «anni Cinquanta erano […] sovreccitate dall’attivismo»127, erano centrali le organizzazioni dell’Azione Cattolica. Questa toccò il suo apice d’iscritti nel 1954, quando giunse a oltre due milioni e seicentomila iscritti, con una consistente presenza di giovani donne (un milione e duecentomila). L’associazione programmava diverse attività a sfondo sociale e religioso, nelle quali gli scopi principali erano fondamentalmente due: uno era quello di dare ai giovani una “sana” educazione religiosa, intellettuale e fisica senza tralasciare di istruirli anche sulla maniera migliore di passare il loro tempo libero (la riformulazione del concetto di tempo libero sarà una delle tematiche predominanti all’interno del movimento giovanile); il secondo era incentrato più specificamente sul proselitismo e sulla difesa dei valori cristiani come la famiglia, la moralità ecc., a cui i suoi membri dovevano essere indirizzati.

Un aspetto su cui tutte le correnti della DC andavano d’accordo riguardava la politica estera. Tutti i leader del partito erano decisi nel voler rafforzare lo stretto rapporto che l’Italia aveva tessuto con gli Stati Uniti dal momento dell’armistizio. Un’alleanza che fece sì che l’Italia entrasse, nel marzo del 1949, nella Nato. L’adesione al Patto Atlantico venne accolta nonostante l’anima pacifista che alimentava la DC, e il mondo cristiano più in generale, poiché venne vista come una sorta di scudo irrinunciabile nei confronti di un male estremamente peggiore: il comunismo, e il suo massimo esponente nel mondo, l’Unione Sovietica. Il legame tra Usa e Italia non si celebrò soltanto a livello militare, ma venne sancito da qualcosa di molto più vincolante: gli aiuti economici statunitensi. Questi, che contribuirono a mantenere l’Italia nella sfera d’influenza degli Stati Uniti, giunsero copiosi a cominciare dall’European recovery program, più noto con il nome di Piano Marshall, dal nome del Segretario di Stato americano che lo annunciò il 5 giugno 1947. Gli aiuti americani servirono all’Italia non solo a uscire dalla fase drammatica in cui si trovava immediatamente nei primi anni dopo la fine del conflitto armato; ma servirono anche come un vero e proprio rilancio dell’economia italiana, che mise

in questi anni le basi per il futuro grande boom economico che lanciò la penisola tra i primi mercati del mondo: «Tra il 1948 e il 1952 giunsero in Italia beni per oltre 1,4 miliardi di dollari, circa l’11 per cento del totale degli aiuti mandati in Europa. È stato calcolato che gli aiuti Marshall rappresentarono circa il 2 per cento del prodotto interno lordo, per un periodo di quattro anni»128.

Gli anni Cinquanta non furono un periodo semplice per il PCI e per il movimento operaio italiano. Visto lo stretto rapporto che i governi democristiani avevano instaurato con gli Stati Uniti - un legame che come abbiamo visto era ancorato, oltre che all’ideologia, all’enorme portata degli investimenti americani - l’ideologia comunista era fortemente osteggiata anche a livello governativo, mediante strategie che andavano a minare la maggiore fonte di consenso del PCI, la classe operaia. In questi anni, che sono gli anni che vedevano la Nato impegnata in una guerra contro la Nord Corea comunista, gli imprenditori mossero un duro attacco al potere sindacale che aveva le sue radici nel movimento resistenziale. Negli anni che vanno dal 1946 al 1952, ricordati poi come gli “anni duri” del movimento operaio, furono avviate campagne di licenziamenti di massa; durante questo periodo, nel tentativo di chiudere i conti con la Resistenza, ad essere licenziati o emarginati furono «gli attivisti più conosciuti, e quando il miglioramento economico creò una nuova richiesta di forza-lavoro, vennero assunti operai giovani, spesso provenienti dalla campagna, che non aveva partecipato alle lotte del 1943-47 e che erano disposti ad accettare un aumento dei ritmi e una nuova organizzazione del lavoro»129. Gli operai, sostenuti dalla CGIL, risposero a questa strategia imprenditoriale con l’occupazione delle fabbriche, che però, nonostante la loro lunga estensione temporale, si risolsero tutte con una sostanziale sconfitta. Erano gli anni dei padroni e dell’influenza americana nelle questioni di fabbrica, che non poteva accettare nessun compromesso con la classe rappresentate il Partito Comunista. Negli stessi anni si registrarono dei veri e propri tentativi da parte del governo di limitare legalmente le libertà di movimento dei partiti di sinistra, mediante la

128

Ibidem, p. 212. 129 Ibidem, p. 250.

repressione poliziesca e tramite procedimenti giudiziari, quindi mediante due corpi, forze dell’ordine e magistratura, che non avevano subito nessun tipo di epurazione dopo la caduta del Regime fascista. Infatti non fu un periodo semplice per l’altro grande polo della politica italiana, il Partito Comunista Italiano. La pressione sul PCI cominciò ad affievolirsi solo dopo le elezioni del 1953, quando il premio di maggioranza previsto da quella che subito venne definita come “legge truffa”, che avrebbe dovuto dare al partito o alla coalizione che avesse superato il 50% dei consensi il 65% dei seggi, sfumò per alcune migliaia di voti, fatto che per la DC, promulgatrice della legge, ebbe valore di una sconfitta. Nonostante il fatto che il 1954 avesse fatto registrare il picco storico nel numero degli iscritti (oltre due milioni), i comunisti vivevano come degli emarginati all’interno del tessuto sociale, grazie alla propaganda della Guerra Fredda che li dipingeva come dei paria e dei corpi estranei che remavano contro gli interessi nazionali. Per fare fronte a questo isolamento il PCI sviluppò sul territorio una ricca rete di organizzazioni e di attività; queste crearono una vera e propria subcultura interna al panorama italiano, e un forte senso di coesione tra gli iscritti. Le più importanti erano le Case del Popolo, dove venivano organizzate attività che abbracciavano diversi aspetti della vita quotidiana: la politica, lo sport, la cultura, finanche l’organizzazione di giochi per i bambini. Un altro centro di coesione del mondo comunista erano le famose Feste dell’Unità, che servivano anche per finanziare il partito stesso. Come la DC anche il PCI possedeva delle organizzazioni collaterali, dove potevano iscriversi anche i socialisti. Le due più importanti erano l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani) e l’UDI (Unione Donne Italiane).

La lotta ideologica tra DC e PCI si estendeva oltre la stampa tradizionale quotidiana (entrambi i partiti possedevano dei giornali che li rappresentavano direttamente), giungendo persino alle riviste per ragazzi: da una parte c’era Il Vittorioso, un settimanale a fumetti pubblicato dalla casa editrice cattolica AVE (Anonima Veritas Editrice), nata nel 1935 da Gioventù Cattolica, nel quale erano riprese le tematiche della cristianità sotto l’aspetto accattivante del fumetto; dall’altra invece avevamo Il Pioniere, fondato e diretto, fino alla sua conclusione

nel 1962, da Gianni Rodari e da Dina Rinaldi. Inizialmente edito dall’Associazione dei Pionieri Italiani, in seguito alle difficoltà finanziarie divenne un inserto dell’Unità.

Dalla seconda metà degli anni Cinquanta fino quasi alla conclusione degli anni Sessanta si registrò in Italia un’enorme crescita sia dal punto di vista economico che industriale, una crescita che è stata comunemente definita come il “miracolo economico italiano”.

Il rapido sviluppo economico del nostro paese fu veramente qualcosa di miracoloso, visti i presupposti da cui esso era partito. L’Italia del secondo dopoguerra era un paese che presentava molte delle caratteristiche proprie di una nazione sottosviluppata: l’industria, sebbene potesse vantare un certo grado di sviluppo nel settore automobilistico, in quello dell’acciaio e nella produzione di energia elettrica, era concentrata in una sola parte della penisola italiana, cioè nel Nord e più precisamente nel suo Triangolo economico, composto da Torino, Milano e Genova. Per il resto l’Italia era ancora un paese a sostentamento agricolo. Cosa portò questo piccolo paese agricolo a divenire una delle nazioni più industrializzate del pianeta nel giro di così pochi anni? Le motivazioni sono molteplici, primo fra tutti vi è l’alto livello di integrazione economica che i paesi più industrializzati raggiunsero tra il 1950 e il 1970. In questo contesto l’Italia decise di aprirsi ai nuovi mercati internazionali, abbandonando la sua tradizionale strategia protezionista e diventando anche uno dei motori propulsori di un mercato comune europeo.

La fine del protezionismo, insieme all’enorme introito di capitali del Piano Marshall, «rivitalizzò il sistema produttivo italiano, lo costrinse a rimodernarsi»130. Inoltre la grande espansione dell’Eni, sotto la presidenza di Mattei, durante la quale vennero trovati dei giacimenti di metano e di idrocarburi in Val Padana, diede delle alternative energetiche a basso prezzo agli industriali italiani. A tutto ciò deve essere sommato il basso costo della manodopera in Italia: con la distruzione del potere sindacale e con una domanda che superava

l’offerta gli imprenditori poterono puntare ad un aumento della produttività senza dover fornire anche un adeguato aumento salariale; in poche parole più lavoro, e con ritmi massacranti, a un costo uguale se non minore.

L’anno che decretò una svolta decisiva nella crescita italiana fu il 1958, che non a caso fu l’anno in cui entrò in vigore il Trattato di Roma, siglato nel 1957, che istitutiva la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURATOM). L’effetto del Mercato Comune, al tempo composto da Italia, Germania, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, fu decisivo nello sviluppo dell’economia italiana, in quanto le merci italiane destinate al Mercato Comune crebbero «dal 23 per cento del 1953 al 29,8 per cento del 1960, ad oltre il 40,2 per cento del 1965»131. Oltre ad aumentare l’esportazione, cambiò anche il tipo di merci esportate: dai prodotti tessili e alimentari si passò ai beni di consumo, soprattutto elettrodomestici, a cui l’industria italiana convertì rapidamente le sue produzioni. Oltre all’industria elettrodomestica, l’altro grande settore propulsivo dell’economia italiana, forse quello più forte, fu quello automobilistico, monopolizzato dalla famiglia Agnelli e dalla loro Fiat. Il Boom economico ebbe come conseguenza anche l’allargamento del triangolo industriale, dilatandolo a tutto il Nord, con propaggini che arrivarono fino alla parte settentrionale del Centro.

Il “miracolo economico” non portò con sé soltanto conseguenze positive: esso aprì la porta al consumismo e, sotto l’influenza americana, nonostante il tentativo di Vanoni di programmare un piano di sviluppo, il miracolo seguì dinamiche proprie, spontanee, dando mano libera al mercato secondo la dottrina liberista, che comportò lo svilupparsi di diversi squilibri strutturali.

Quella che forse fu la conseguenza più evidente, e forse anche la più drammatica per il peso che ebbe sulla vita di milioni di persone, fu l’accrescimento del divario tra il Nord industriale e il Sud contadino. Nel Meridione la possibilità di trovare lavoro al di fuori dell’ambiente agricolo era molto scarsa, e quelli che vivevano della rendita dei loro campi non ci guadagnavano niente al di là di un misero sostentamento. Questa triste

prospettiva di vita spinse migliaia di giovani a migrare nel Nord del paese per cercare lavoro in fabbrica. Pur restando nella medesima nazione e non migrando all’estero, come era successo ai migranti di fine Ottocento e dei primi del Novecento che in cerca di fortuna partirono, soprattutto dal Sud d’Italia, alla volta del Nuovo Mondo o del nord d’Europa, da questi ragazzi il trasferimento venne percepito come un vero e proprio sradicamento. La realtà in cui si trovarono catapultati era totalmente diversa da quella da cui provenivano, per loro essere in Italia o all’estero non faceva nessuna differenza. Emarginati e disprezzati dagli abitanti del posto, non era difficile trovare cartelli con scritto: «qui non si affitta ai meridionali», spesso erano costretti a vivere lontano dalle città, nelle periferie, in baracche prive dei servizi igienici, che il più delle volte condividevano tra di loro.

Il dramma che l’emigrazione significò per centinaia di migliaia di meridionali venne prima descritto nel famoso film di Luchino Visconti intitolato Rocco e i suoi fratelli (1960), e poi cantato da Tenco a Sanremo nel 1967, con la canzone Ciao amore ciao. Al Festival di Sanremo, nell’edizione durante la quale si suiciderà, il cantautore piemontese si presentò con una canzone il cui testo parla, appunto, della disperazione di un contadino che di fronte alla pochezza che la vita gli offriva nel Sud decide di partire per il Nord, ma una volta arrivato a destinazione si sente alienato, spaventato e inutile di fronte alla diversità e alla complessità del mondo che gli si prospetta davanti. Vi è un passaggio del brano che fa capire benissimo l’angoscia che questi poveri giovani dovevano provare nella lontananza da casa: “andarsene sognando / E poi mille strade grigie come il fumo / In un mondo di luci sentirsi nessuno / Saltare cent’anni in un giorno solo / Dai carri nei campi / Agli aerei nel cielo / E non capirci niente e aver voglia di tornare da te».

Questi ragazzi provenienti dal profondo Sud contribuirono enormemente alla realizzazione del boom economico, con il loro lavoro in fabbrica, quasi sempre mal retribuito. Oltre ad aiutare a dipingere questo drammatico quadro, il “miracolo italiano”, portò con sé la cosiddetta “distorsione dei consumi”, per la quale si investì prevalentemente nello sviluppo e nella produzione di beni di

consumo privati, specialmente di lusso, lasciando così indietro tutti i beni di prima necessità. Come scrive Ginsborg: «il modello di sviluppo sottinteso dal “boom” […] implicò una corsa al benessere tutta incentrata su scelte strategiche individuali e familiari, ignorando invece le necessarie risposte pubbliche ai bisogni collettivi quotidiani»132. Questa osservazione dello storico inglese si ricollega ad un problema che risulta essere endemico della civiltà italiana, cioè il familismo: la “distorsione dei consumi”, andando ad accentuare la propulsione verso una ricerca di benessere individuale o al massimo familiare, è andata a rafforzare quella propensione, tutta italiana, a preoccuparsi solo della sfera privata, demandando ad altri, ma il più delle volte disinteressandone, la presa in carico dei problemi che riguardano il bene pubblico e la comunità.

Il miracolo economico cambiò la società italiana sotto molti aspetti: nei consumi e nel modo di passare il tempo libero, nell’assetto familiare, nelle abitudini sessuali, ma anche sotto l’aspetto culturale. Il modello capital- consumistico portò in Italia la televisione e, tramite essa, si insinuarono nelle case delle famiglie italiane le prime pubblicità, che esortavano gli ingenui telespettatori italiani a comprare ogni genere di bene di consumo. E gli italiani, grazie al cospicuo aumento del reddito pro capite secondo solo a quello tedesco, poterono effettivamente comprare beni che spesso provenivano da oltre oceano portarono con sé nuove mode che andavano dal vestiario ai prodotti alimentari. È in questo periodo che nasce il concetto di americanizzazione dei costumi, uno spauracchio per le classi più conservatrici italiane, anche se neppure i comunisti vedevano di buon occhio le nuove mode provenienti dal massimo esponente del capitalismo nel mondo.

Per quanto riguarda lo sfondamento della cultura yé-yé - così veniva chiamata sui giornali qualsiasi cosa fosse di origine USA - tra i giovani della penisola, è rappresentativo il film del 1954 Un americano a Roma, con Alberto Sordi. Qui l’attore romano prende in giro le usanze che i teenagers peninsulari stavano adottando dai loro coetanei d’oltreoceano. È vero che il boom economico

con le sue influenze provenienti dagli States riuscì a cambiare e modificare in parte i passatempi dei giovani con le novità portate nei diversi campi della vita di tutti i giorni, ma questo riuscì solo in parte a scalfire il forte conservatorismo di una larga fetta della popolazione italiana: molti aspetti - come ad esempio il ruolo della donna, i tabù sessuali che attraversavano l’intero paese e altre forme del costume italiano, la maggior parte delle quali rientravano nella sfera del privato - furono dure a morie. D’altronde queste tematiche furono le stesse che i

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