Il pubblico ministero come “misura di allarme”. La legittimazione alla presentazione dell’istanza di fallimento
Sommario: 1. L’abolizione della dichiarazione di fallimento d’ufficio; 2. L’iniziativa del pubblico ministero ex art. 7 della legge fallimentare dopo la riforma del 2006 quale unica misura di allarme nel sistema attualmente vigente; 3. Il pubblico ministero come “clausola di salvaguardia” nel processo di privatizzazione della crisi. 4. Le prospettive di riforma. L’art. 42 del “Codice della crisi e dell’insolvenza”.
1. L’abolizione della dichiarazione di fallimento d’ufficio
L’art. 6 l. fall., rubricato “Iniziativa per la dichiarazione di fallimento”, originariamente prevedeva che il fallimento potesse essere dichiarato su ricorso del debitore, su ricorso di uno o più creditori, su richiesta del pubblico ministero oppure d'ufficio.
Il fatto che si potesse addivenire ad una declaratoria di fallimento ex officio ingenerava parecchi contrasti in dottrina, ma soprattutto implicava, quale corollario, oltre ad un evidente e naturale contrasto con la volontà dell'imprenditore (rectius: debitore) coinvolto, un'antinomia di interessi rispetto ai creditori, i quali, invero, in alcune circostanze, a seguito della dichiarazione di fallimento, avrebbero potuto subire un ulteriore pregiudizio patrimoniale, ovvero l’impossibilità per la curatela, a seguito dell'apertura della procedura concorsuale, di agire in revocatoria nei confronti di quelli tra loro che avevano avuto la sorte di
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ricevere pagamenti nel periodo immediatamente antecedente la dichiarazione di fallimento242.
La ratio di tal previsione risiedeva nell’interesse pubblicistico fondante la struttura del procedimento che conduceva alla declaratoria di fallimento: una procedura a carattere inquisitorio e sommario nella quale il potere del Tribunale di emettere ex officio la pronuncia dichiarativa di fallimento si poneva in un ideale continuum con il disposto dell'art. 2907 c.c.243, il quale prevede che “Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d'ufficio”. Tale interesse pubblico ruotava intorno alla centralità del turbamento dell’ordine economico causato dal dissesto dell’impresa commerciale. L’iniziativa d'ufficio rappresentava così l’espressione massima di tutela degli interessi collettivi coinvolti nel dissesto dell'impresa244. Peraltro tali finalità pubblicistiche caratterizzanti la procedura fallimentare venivano costantemente confermate dalle decisioni della Consulta, più volte chiamata a pronunciarsi in merito ad alcune incompatibilità circa il carattere sommario del processo con gli articoli 24 e 111 Cost.245.
Con la sentenza n. 9704 resa il 25 settembre del 1990, la Cassazione giunse perfino ad affermare che il Tribunale poteva dichiarare ex officio il fallimento dell’imprenditore ogniqualvolta fosse venuto a conoscenza dello stato di decozione dello stesso,senza che in alcun modo rilevasse la modalità concreta attraverso la quale si era verificata tale cognizione246. In altre parole, la cognizione poteva giungere indifferentemente da notizie di stampa, da ricorsi di soggetti privi di legittimazione, ovvero da
242 F. C
ANAZZA, Esclusione della possibilità di dichiarare d’ufficio il fallimento e
principio del ne procedat iudex ex officio, in Fall., 2014, 1, p. 27 ss. 243
F. CANAZZA, Esclusione della possibilità di dichiarare d’ufficio il fallimento, op.
cit., p. 27 ss. 244 Cfr. A.P
ATTI, L'istanza di fallimento nella prospettiva di recupero del credito, in
Fall., 1998, p. 1111 ss. 245
Cfr. sentenze Corte Cost. 16 luglio 1970, n. 141, 16 luglio 1970, n. 142, 27 giugno 1972, n. 110 e 8 maggio 1996, n. 148.
246 F. C
ANAZZA, Esclusione della possibilità di dichiarare d’ufficio il fallimento, op.
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fonti ufficiali di informazione247. In sostanza, lo stato di decozione dell’imprenditore sarebbe potuto giungere anche indipendentemente dall’iniziativa di parte.
In un simile contesto, peraltro, molte tesi assai accreditate sostenevano l’iniziativa ex officio, riducendone sì l'ambito di applicazione, ma salvandone la legittimità in termini processuali.
Secondo Francesco Ferrara, ad esempio, la dichiarazione d'ufficio era consentita solo in ipotesi determinate, e, precisamente, nei casi indicati dall'art. 8 l.fall. (che verrà poi abrogato dalla riforma del 2006). La norma prevedeva che, se nel corso di un giudizio civile risultasse l'insolvenza di un imprenditore parte di quel giudizio, il giudice di quel processo, se incompetente, avrebbe dovuto riferirne al tribunale competente per la dichiarazione di fallimento. Precisava Ferrara che “occorre che il giudizio si svolga nei confronti di un imprenditore, il quale quindi sia parte di esso, ed occorre che nel corso del giudizio, quindi in contraddittorio, risulti la sua insolvenza (è chiaro che non basta l'affermazione dell'altra parte)”248.
Ad ogni modo, nel 2003, con la Sentenza n. 240249, la Consulta dichiarò infondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6 l.fall., entrambe sollevate in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost., rientrando nella discrezionalità del legislatore riconoscere al giudice il potere officioso ovvero disporre che il giudice riferisca in ogni caso dell'insolvenza, affinché si attivi, al pubblico ministero. La Corte mosse dalla seguente considerazione: posto che la fusione, in un unico soggetto, delle funzioni del domandare e del giudicare sulla domanda è certamente contraria al principio di imparzialità-terzietà del giudice, ciò non implica che il principio processual-civilistico della domanda sia un principio costituzionale così come non implica il bando di qualsiasi iniziativa
247 Come, ad esempio, la trasmissione del bollettino dei protesti cambiari prevista
dall'abrogato art. 13 l.fall. A tal proposito, v. G. BONGIORNO, La riforma del
procedimento dichiarativo di fallimento, in AA.VV., Le riforme della legge fallimentare, I, a cura di A. Didone, Torino, 2009, p. 321, il quale parla, parificandole,
di fonti di informazione c.d. generiche e fonti di informazione c.d. specifiche.
248 F.F
ERRARA, A.BORGIOLI, Il fallimento, V ed., Milano, 1995, p. 241.
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officiosa. Per la Corte il principio della domanda, dunque, si identifica con un qualsiasi atto di impulso, proveniente da soggetto diverso dal giudice, che sottoponga al di lui giudizio una situazione fattuale potenzialmente riconducibile (anche se dall’istante non ricondotta) ai presupposti del fallimento. Di conseguenza, l'iniziativa officiosa “non lede il fondamentale principio di imparzialità-terzietà del giudice, quando il procedimento è strutturato in modo che, ad onta dell'officiosità dell'iniziativa, il giudice conservi il fondamentale requisito di soggetto super partes ed equidistante rispetto agli interessi coinvolti”. Certo per la Consulta il paradigma normativo dell'iniziativa officiosa avrebbe dovuto strutturarsi secondo limiti ben circoscritti, tali da non ledere i principi di terzietà ed imparzialità. Quest’ultimi sarebbero stati infatti compromessi se al tribunale fallimentare fosse stato consentito “di promuovere il procedimento prefallimentare sulla base di una notitia decoctionis comunque acquisita, ma non può dirsi compromesso ove la conoscenza di una situazione di fatto in ipotesi riconducibile allo stato di insolvenza derivi (non già da quella che, attesa l'informalità della fonte, ben può definirsi scienza privata del giudice, bensì) da una fonte qualificata, perché formalmente acquisita nel corso di un procedimento, del quale il giudice sia, come tale, investito”. A maggior ragione doveva sottrarsi alla censura d’incostituzionalità l’ipotesi in cui un giudice civile, diverso dal tribunale competente per la dichiarazione di fallimento, riferisse a quest’ultimo dell’insolvenza emersa nel corso di un giudizio civile davanti a lui pendente e del quale fosse parte l’imprenditore insolvente. In questa ipotesi, infatti, secondo la Corte, “si è in presenza di una notitia decoctionis non soltanto “formalizzata”, ma acquisita ab externo, sicché è escluso in radice che il tribunale, essendo chiamato ad accertare con pienezza di poteri l’esistenza dei presupposti (soggettivo e oggettivo) che altro giudice, investito come tale di un procedimento giurisdizionale, si è limitato a sommariamente delibare, possa assumere, anche solo apparentemente, la veste di attore”.
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Tuttavia, la lettura della norma che offrì la Consulta fu “un nobile, dotto ed autorevole, ma pur sempre estremo, tentativo di salvare l'impulso officioso, conciliandolo con l'inconciliabile, e cioè col principio di disponibilità della tutela giurisdizionale”250. Per di più non vi era in gioco soltanto il principio di terzietà ed imparzialità del tribunale (che sarebbe salvo anche mutando opportunamente la composizione del collegio giudicante), ma anche e soprattutto il principio secondo il quale al giudice non è consentito andare ultra petita e dichiarare un fallimento che nessuna parte (pubblica o privata) gli avesse chiesto.
L’iniziativa officiosa non poteva dunque sopravvivere ancora a lungo, ed infatti venne abrogata dalle riforme del 2006-2007.
2. L’iniziativa del pubblico ministero ex art. 7 della legge fallimentare dopo la riforma del 2006 quale unica “misura di allarme” nel sistema attualmente vigente
La soppressione dell’iniziativa officiosa ad opera della riforma attuata dal d. lgs. 5/2006 (a cui seguì il d. lgs. 169/2007, definito “correttivo”) ha enfatizzato il ruolo propulsivo del pubblico ministero.
L’art. 6 l. fall. oggi prevede che “Il fallimento è dichiarato su ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero”. Dunque si dispone che per il pubblico ministero, a differenza che per il debitore e i creditori, la domanda di fallimento assuma la forma della richiesta, e non del ricorso, ritenendosi infatti sufficiente una “richiesta” formalizzata dalla procura purchè esclusivamente nei casi previsti dall’art. 7, ovvero: a) quando l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore; b) quando l'insolvenza risulta dalla
250 F. D
E SANTIS, Segnalazione d’insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico
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segnalazione proveniente dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile. Anche se, per la verità, il termine “richiesta” non pare delineare modalità redazionali differenti rispetto al ricorso, forma dell’iniziativa del debitore e del creditore.
Ad ogni modo, ciò che rileva maggiormente è che prima della riforma si distingueva l’ipotesi prevista dall’art. 6 da quelle previste dall’art. 7. Più precisamente, si riteneva che le due norme separassero il caso previsto dall’art. 7 in cui lo stato di insolvenza risultava «dalla fuga o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore», per il quale il PM aveva l’obbligo (“deve”) di richiedere il fallimento a termini dell’art. 7 l. fall., ove il P.M. procedesse contro l’imprenditore, dal caso previsto dall’art. 6 (ovvero in tutti i casi in cui non si verificassero le ipotesi di cui all’art. 7) per il quale il PM era titolare di un potere residuale di denuncia o segnalazione al tribunale delle situazioni di insolvenza251. Le ipotesi previste dall’art. 6, più che costituire una forma di legittimazione attiva per il pubblico ministero, erano considerate piuttosto una fonte qualificata di sollecitazione dei poteri officiosi del tribunale per l’iniziativa di questi alla dichiarazione di fallimento.
Insomma, la situazione era la seguente: l’art. 7 l. fall. prevedeva un potere di azione, mentre l’art. 6 introduceva un generale potere di segnalazione al tribunale, connesso al potere di iniziativa officiosa. Intervenuta la riforma del 2006 che ha abrogato l’iniziativa officiosa nel novellato art. 6, il potere di sollecitazione qualificato del PM è venuto meno e le ipotesi di legittimazione attiva sono state unificate nella richiesta di fallimento di cui all’art. 6 così come oggi formulato.
Se dunque oggi la richiesta del PM non può più qualificarsi come mera denunzia o sollecitazione al tribunale ma costituisce esercizio di un vero
251
M.FERRO, L’istruttoria pre-fallimentare e l’iniziativa del PM, Giornata di studi 23 gennaio 2012 “La procedura pre-fallimentare ed i reati fallimentari”, Corte d’Appello di Milano, Ufficio della Formazione decentrata, p. 5. L’articolo è reperibile all’indirizzo:
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e proprio potere d'azione, espressamente attribuito al PM dall'art. 6 l. fall., va al contempo sottolineato come l'attività del PM nel processo civile sia fondata sul principio di tassatività previsto dall’art. 69 c.p.c.: egli esercita l'azione civile (ed interviene nel processo) nei casi stabiliti dalla legge. A ciò si collega pure l’art. 2907 c.c., per il quale, in un ordinamento connotato dal potere d’impulso di parte, i casi in cui può intervenire il PM sono assolutamente circoscritti a casi determinati. Non può quindi concepirsi un PM titolare di un generale potere di controllo degli imprenditori al di fuori dei casi indicati dall’art. 7 l. fall. Non si può pensare ad un organo pubblico che svolga funzioni di polizia sull’impresa e sul mercato252
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Ciò premesso, mancano a livello testuale indicazioni normative riguardo l’obbligatorietà o la facoltatività dell’intervento del PM. È stato evidenziato in dottrina come l’individuazione della natura dell’iniziativa del PM ai fini della decisione sulla obbligatorietà o facoltatività del suo intervento, dopo la riforma, sia da rintracciare nell’art. 70 c.p.c., dove viene specificamente previsto che il PM debba intervenire a pena di nullità rilevabile d’ufficio “nelle cause che egli stesso potrebbe proporre”. In ogni caso non può dirsi che il pubblico ministero sia tenuto obbligatoriamente ad esercitare l'azione civile tutte le volte in cui la legge gliene affidi il potere. Al contrario, quando egli riceva notizia dell'accadimento di fatto, in presenza del quale la legge prevede l'esercizio dell'azione, sarà obbligato a compiere la necessaria attività di approfondimento e, solo ove si convinca che sussistano le condizioni per richiedere un provvedimento di accoglimento, proporre la domanda253. In sintesi può dirsi che l’iniziativa del PM è un’azione sui generis. La posizione del PM nei processi civili non è parificabile a quella delle parti private, poiché egli agisce per dovere d'ufficio e nell'interesse pubblico254, mentre le altre parti perseguono interessi individuali e privati. Dunque, egli è parte solo in senso formale e non sostanziale, non
252 C.C
ECCHELLA, Diritto fallimentare, CEDAM, 2015, p. 72.
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E SANTIS, Segnalazione d’insolvenza, op. cit., p. 521 ss.
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avendo disponibilità degli interessi implicati. Da ciò ne discende pure che la procura non può rinunziare all'azione una volta esercitata, e che, una volta che sia stato esercitato l'atto di iniziativa, spetta esclusivamente al giudice decidere sull'azione promossa, senza che eventuali ripensamenti del pubblico ministero possano vincolarlo nel momento della decisione. Secondo una sorta di “statuto processuale” del PM attore nel processo civile, alle ipotesi previste dall’art. 6 e quindi 7 l. fall., potranno allora applicarsi i seguenti principi: a) il PM non è titolare, in base a quanto detto, di un'autonoma e generale iniziativa in materia fallimentare, potendo esercitare tale potere soltanto nei casi tassativamente previsti dall'art. 7 l. fall.; b) nei casi previsti dall’art. 7 l. fall., se il PM ritiene che la segnalazione di insolvenza da lui ricevuta abbia prima facie un qualche fondamento, egli è tenuto ad esercitare l'iniziativa fallimentare; c) il PM è parte solo formale del processo, non anche sostanziale dal momento che non ha disponibilità degli interessi implicati; d) una volta esercitata l'azione, il PM non può rinunziarvi e non può essere condannato alle spese in caso di soccombenza.
Si è detto del potere di azione del PM così come delle caratteristiche della stessa, confrontandone la disciplina ante e post riforma, ma resta ancora un aspetto non meno rilevante da analizzare.
Tralasciando l'analisi delle ipotesi di cui all'art. 7, n. 1, l.fall.255, conviene senz'altro esaminare la fattispecie ben più complessa e insidiosa prevista dall’art. 7, n. 2, l. fall.
255 Come si è già avuto modo di dire l’art. 7, n. 1, l. fall. prevede che il PM presenti la
richiesta di cui al primo comma dell’art. 6 “quando l’insolvenza risulta nel corso di un
procedimento penale, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore”. La
norma fa richiamo al termine “procedimento penale”, da intendere come procedimento giurisdizionale e quindi il PM dovrà già aver esercitato l’azione penale nel cui contesto possano emergere i fatti in questione, dei quali dovrà poi darne prova al tribunale fallimentare. Tuttavia, premesso quindi il contesto formale in cui la notitia decoctionis può emergere, la casistica dei “fatti esteriori” indicata nella disposizione non deve ritenersi tassativa, bensì esemplificativa. Ad esempio, per irreperibilità non si deve intendere il concetto processual-penalistico (art. 159 c.p.p.) in senso formale, ma la semplice situazione in cui sia difficoltoso perfezionare una notifica all’imprenditore. La latitanza, invece, non avendo omologhi è certamente confacente al concetto processual- penalistico (art. 296 c.p.p.). Il trafugamento è la sottrazione materiale dei beni
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In seguito alla riforma, l’art. 7, n. 2, l. fall. prevede che il PM possa altresì promuovere il fallimento dell’imprenditore “quando l'insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile”256.
Il grande interrogativo sollevato dalla disposizione in esame è stato il seguente: può il tribunale fallimentare che disponga l'archiviazione di una istanza di fallimento, ma rilevi una situazione di insolvenza, procedere alla segnalazione al PM?
La questione che sarà poi risolta dalle Sezioni Unite257 trae origine dalla riforma della legge fallimentare e dunque dalla scelta, come abbiamo visto, del legislatore di cancellare ogni ipotesi di declaratoria di fallimento d’ufficio.
La cancellazione, per l’appunto, delle ipotesi di dichiarazione di fallimento d'ufficio ha finito per scatenare una sorta di “caccia alle streghe” da parte di chi sosteneva che andasse eliminata dall'ordinamento qualunque ipotesi di interpretazione che potesse dare anche solo remotamente adito all'impressione di un intervento diretto del tribunale fallimentare nell'attivazione della procedura per la dichiarazione di insolvenza, vulnerando così l'immagine di imparzialità e terzietà dello stesso tribunale258.
Parte della dottrina, radicalmente ostile alla permanenza nell’ordinamento di ipotesi di fallimento d’ufficio, propugnava una interpretazione restrittiva della locuzione “procedimento civile”, entro la quale quindi non vi poteva essere spazio per il procedimento per la dichiarazione di fallimento, contestando di conseguenza la possibilità per
(trasferimento di capitali all’estero o anche semplicemente il loro occultamento), la sostituzione dell’attivo coincide con la vendita di beni per trasformarli in denaro o altri beni facilmente occultabili (oro, quadri, gioielli), la diminuzione fraudolenta è la vendita sottocosto o la ricognizione di un debito inesistente. Così, C. CECCHELLA,
Diritto fallimentare, op. cit., p. 71.
256 Con l'abolizione dell'iniziativa officiosa, infatti, il legislatore della riforma ha
abrogato l'art. 8 l.fall. cosicché la fattispecie relativa all'insolvenza risultante in un giudizio civile è ora disciplinata dalla norma in esame.
257
V. infra.
258 F. R
OLFI, L’insolvenza non è una “questione privata”: le Sezioni Unite e la
segnalazione di insolvenza al PM da parte del tribunale fallimentare, in Corr. Giur.,
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il Tribunale di procedere ad una segnalazione al PM una volta archiviata la procedura per desistenza dell’istante.
Tale atteggiamento influenzò alla fine anche la Suprema Corte, che nel 2009259 escluse la possibilità di applicare l'ipotesi di cui all'art. 7, n. 2, l. fall. al procedimento per dichiarazione di fallimento, negando la possibilità per il tribunale fallimentare di effettuare la segnalazione al PM. La negazione del potere di segnalazione al PM riguardava peraltro l’ipotesi in cui la valutazione della sussistenza dello stato di insolvenza avesse costituito oggetto principale del giudizio, quasi a suggerire che il giudice civile possa effettuare la segnalazione solo quando in tale stato di insolvenza “incappi” del tutto casualmente, mentre è impegnato a celebrare un giudizio avente ben altro oggetto260.
In verità, la decisione della Cassazione aveva provocato non poche perplessità e trovato soprattutto molteplici voci dissenzienti sia in dottrina che, specialmente, nella giurisprudenza di merito261. Si pensi, ad esempio, alla situazione particolarissima venutasi a formare nel distretto milanese, nell'ambito del quale era possibile registrare un aperto contrasto tra l’orientamento della Corte d'Appello, in linea con la pronuncia della Cassazione appena menzionata, e la posizione nettamente opposta assunta dal Tribunale.
Il costante dissenso mostrato dalla giurisprudenza indusse la Suprema Corte nel 2012 a pronunciarsi nuovamente, ribaltando completamente il precedente orientamento. Sono, infatti, del 2012 le ben tre decisioni262 che affermarono la piena legittimità della segnalazione effettuata dal tribunale in sede di archiviazione dell'istanza di fallimento, e la conseguente possibilità per il PM di avviare il procedimento prefallimentare sulla base di tale istanza.
259
Cass. civ., sez. I, 26-02-2009, n. 4632.
260 F.R
OLFI, L’insolvenza non è una “questione privata”, op. cit., p. 74 ss.
261 Cfr. ex multis App. L'Aquila, 22 maggio 2012, in Fall., 2012, 1256; Trib. Padova, 8
febbraio 2011 in Dir. fall., 2011, II, 206; Trib. Monza 18 gennaio 2011, in Dir. fall., 2011, II, 207; App. Torino, 8 novembre 2010, in Fall., 2011, 327; Trib. Roma 27