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Gli istituti di allerta nella crisi dell’impresa. Diritto vigente e riforma

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INDICE-SOMMARIO

INTRODUZIONE ... 4

CAPITOLO PRIMO

L’evoluzione dei concetti di insolvenza e di crisi di impresa dal diritto romano alla proposta di direttiva europea del 2016

1. Il “problema delle origini”: l’insolvenza e i presupposti delle prime procedure esecutive patrimoniali nel diritto romano ... 6 2. L’insolvenza e le sue conseguenze nel medioevo ... 13 3. Insolvenza e fallimento nell’esperienza postmedievale e nell’età industriale ... 19 4. Il diritto fallimentare transfrontaliero ... 24 5. La spinta riformatrice europea: verso un nuovo concetto di gestione della crisi ... 32 (segue) 5.1. L’insolvenza nel Regolamento CE 2000/1346 ... 33 (segue) 5.2. La Raccomandazione della Commissione europea del 12 marzo 2014 “su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e

all’insolvenza” ... 38 (segue) 5.3. Il Regolamento (UE) 2015/848 del 20 maggio 2015 “relativo alle procedure di insolvenza” ... 43 (segue) 5.4. La proposta di direttiva europea del 2016 in materia di insolvenza ... 51

CAPITOLO SECONDO

Le procedure di allerta e di prevenzione della crisi d’impresa. Profili di diritto comparato

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2

2. L’ordinamento francese ... 62 (segue) 2.1. Brevi cenni sull’evoluzione delle misure di allerta nel

sistema francese ... 63 (segue) 2.2. Analisi delle procedure di prevenzione e di allerta nel

sistema francese ... 69 (segue) 2.2.1. L’allarme interno ... 71 (segue) 2.2.2. L’allarme esterno ... 75 (segue) 2.3. Le procedure di allerta previste dalla Legge 19 ottobre 2017, n. 155 e le procédures d’alerte francesi a confronto: rapporto di

sovrapposizione? ... 78 3. L’ordinamento tedesco ... 81 3.1. Premessa ... 81 3.2. La procedura di regolazione dell'insolvenza in Germania

(Insolvenzordnung, InsO): i presupposti soggettivi e oggettivi per la sua apertura ... 83 (segue) 3.2.1. Dalla fase di istruttoria alla chiusura della procedura d’insolvenza ... 87 (segue) 3.2.2. La ristrutturazione dell’impresa ... 91 (segue) 3.2.3. La Legge sulle ulteriori semplificazioni delle procedure di risanamento delle imprese (Gesetz zur weiteren Erleichterung der

Sanierung von Unternehmen): l’introduzione di uno “scudo protettivo” 93

CAPITOLO TERZO

Le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi nella Legge 19 ottobre 2017, n. 155

1. Le ragioni che hanno pregiudicato l’introduzione delle misure di allerta nel nostro ordinamento ... 96 2. I vantaggi dell’allerta: tra “eticizzazione” dei creditori ed etica

d’impresa ... 101 3. I precedenti lavori della Commissione Trevisanato ... 105

(3)

3

4. Dall’istituzione della Commissione Rordorf alla Legge 19 ottobre 2017, n. 155 ... 113 (segue) 4.1. L’allerta su iniziativa del debitore. L’incentivazione

all’attivazione della procedura ... 117 (segue) 4.2. L’allerta interna ... 119 (segue) 4.3. L’allerta esterna ... 120 (segue) 4.4. Le procedure di allerta nel “Codice della crisi e

dell’insolvenza” ... 122

CAPITOLO QUARTO

Il pubblico ministero come “misura di allarme”. La legittimazione alla presentazione dell’istanza di fallimento

1. L’abolizione della dichiarazione di fallimento d’ufficio ... 132 2. L’iniziativa del pubblico ministero ex art. 7 della legge fallimentare dopo la riforma del 2006 quale unica “misura di allarme” nel sistema attualmente vigente ... 136 3. Il pubblico ministero come “clausola di salvaguardia” nel processo di privatizzazione della crisi ... 144 4. Le prospettive di riforma. L’art. 42 del “Codice della crisi e

dell’insolvenza” ... 146

BIBLIOGRAFIA ... 152 GIURISPRUDENZA ... 164

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4

INTRODUZIONE

Della Legge 19 ottobre 2017, n. 155, frutto delle fatiche della Commissione Rordorf, recante la “Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza”, le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi previste dall’art. 4 rappresentano senza dubbio uno degli aspetti più interessanti da analizzare.

L’introduzione di tali procedure nel sistema concorsuale rispondono ad uno scopo ben preciso: l’emersione anticipata della crisi d’impresa. La loro previsione segnerà infatti il definitivo passaggio da una cultura della gestione della crisi improntata su soluzioni dirette a ridurne le immediate conseguenze a quella di prevenzione della medesima. D’altra parte, consentire alle imprese sane in difficoltà finanziaria di ristrutturarsi in una fase precoce della crisi così da evitare l’insolvenza e proseguire l’attività permette dunque di conservare i valori aziendali nonché i quadri occupazionali. L’impresa, invero, non è una proprietà privata, ma assume un valore sociale che va assolutamente salvaguardato.

Per la verità non è la prima volta che il legislatore italiano si mostra sensibile al tema dell’emersione anticipata della crisi d’impresa. Seppur i lavori della precedente Commissione Trevisanato non portarono ad alcun esito parlamentare, non si può negare che gli istituti di allerta furono già oggetto di ampie dispute dottrinali e politiche sulla loro opportunità o meno nel sistema concorsuale.

Il tentativo poi del legislatore, con l’ultima riforma di ampio respiro in materia fallimentare che il nostro ordinamento ricordi, ossia quella ad opera del d. lgs. 5/2006, di ridare nuova linfa all’istituto del concordato preventivo, favorendone l’accesso, credendo che ciò sarebbe bastato ad incentivare il debitore ad attivare tempestivamente la suddetta procedura, ha prodotto, se possibile, risultati opposti.

Se da un lato lo scenario piuttosto drastico delle insolvenze in Italia nonché il totale insuccesso degli istituti concordatari più volte rivisti e corretti hanno spinto il legislatore a ripensare al tema dell’allerta,

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5

dall’altro le forti sollecitazioni provenienti dall’Unione Europea, in particolare attraverso la Raccomandazione Europea del 2014, il Regolamento Europeo del 2015 e la proposta di Direttiva del 2016, hanno di fatto imposto la necessità di una risistemazione complessiva della materia concorsuale anche nel nostro ordinamento, nell’ottica di una maggiore attenzione e sensibilità rispetto alla salvaguardia della continuità aziendale.

Tuttavia, a onor del vero, la riforma del 2006 ci ha consegnato quella che sino ad oggi, al cospetto dell’imminente riforma, risulta essere l’unica “misura di allarme” presente nel nostro ordinamento: la legittimazione del pubblico ministero a promuovere il fallimento dell’imprenditore quando l’insolvenza risulti dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile in cui l’imprenditore stesso sia parte, prevista dall’art. 7, n. 2, della Legge Fallimentare.

Nel presente elaborato, articolato in quattro capitoli, ai fini di una più rigorosa e completa esposizione, procederò anzitutto ad un esame dei profili storici legati all’evoluzione dei concetti di insolvenza, per passare poi alla disamina di alcuni profili di diritto comparato, finendo per condurre un’analisi accurata sia delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi previste dalla Legge 19 ottobre 2017, n. 155, che del sistema attualmente vigente, in entrambi i casi menzionando le ultimissime novità in fatto di schemi di decreti legislativi di attuazione della delega.

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6

CAPITOLO PRIMO

L’evoluzione dei concetti di insolvenza e di crisi di impresa dal diritto romano alla proposta di direttiva europea del 2016

Sommario: 1. Il “problema delle origini”: l’insolvenza e i presupposti delle prime procedure esecutive patrimoniali nel diritto romano; 2. L’insolvenza e le sue conseguenze nel medioevo; 3. Insolvenza e fallimento nell’esperienza postmedievale e nell’età industriale; 4. Il diritto fallimentare transfrontaliero; 5. La spinta riformatrice europea: verso un nuovo concetto di gestione della crisi; (segue) 5.1. L’insolvenza nel Regolamento CE 2000/1346; (segue) 5.2. La Raccomandazione della Commissione europea del 12 marzo 2014 “su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza”; (segue) 5.3. Il Regolamento (UE) 2015/848 del 20 maggio 2015 “relativo alle procedure di insolvenza”; (segue) 5.4. La proposta di direttiva europea del 2016 in materia di insolvenza.

1. Il “problema delle origini”: l’insolvenza e i presupposti delle prime procedure esecutive patrimoniali nel diritto romano

Mentre, ancora oggi, buona parte della dottrina considera il fallimento figlio della città mercantile, e quindi di quello ius mercatorum di epoca bassomedievale, studi recenti effettuati dalla dottrina romanistica ci permettono di affermare, con tutta certezza, che i concetti di fallimento, e con sé quelli di insolvenza e par condicio, affondano le proprie radici nel diritto romano. Più precisamente, in quella che viene comunemente definita “età imprenditoriale romana”.

È con Levin Goldschmidt che nasce il “dogma” della genesi del diritto commerciale nello ius mercatorum dei secoli XII e XIII: nella sua ben nota Universalgeschichte des Handelsrechts del 1891, egli affermò che

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7

«il diritto commerciale in senso proprio, come ramo distinto del diritto … è opera del Medioevo italiano inoltrato e delle codificazioni moderne»1. D’altro canto, il vero problema fu che gli storici si fermarono continuamente di fronte ad una domanda fuorviante, di fatto considerando il diritto commerciale facente parte di una categoria ontologica anziché storica: Roma, nel suo periodo cosiddetto imprenditoriale durante il quale si è trovata al centro di un’economia di scambio sviluppata su scala mondiale, ha avuto un diritto commerciale? Come autorevolmente evidenziato dal Di Porto, le discussioni su tale quesito si sono sempre rivolte alla categoria del diritto commerciale, influenzate dai caratteri che detta categoria è andata assumendo, a partire dal XII secolo, come un sistema autonomo di norme, contrapposto al sistema del diritto civile2. Dunque, come se il commercio non potesse essere regolato che da una speciale disciplina.

Tale approccio dogmatico sulla questione non ha fatto altro che paralizzare la ricerca sull’oggetto, ovvero la ricerca sulla disciplina dell’attività commerciale e soprattutto sulla sua organizzazione.

Il periodo imprenditoriale, che trova posto convenzionalmente tra il 242 a.C. (data a cui risale l’istituzione del pretore peregrino) e la fine dell’età dei Severi, è connotato dall’emersione e dalla progressiva estensione di una fitta rete di negotiationes, e cioè di attività imprenditoriali parallelamente alla graduale trasformazione della tradizionale famiglia patriarcale in famiglia mercantile-imprenditoriale3.

Roma diventa centro politico di una comunità mondiale ma soprattutto centro economico di un sistema di scambi sempre più globalizzato.

1

L.GOLDSCHMIDT, Universalgeschichte des Handelsrechts, I, Stuttgart, 1891, trad. it. A cura di V. Pouchain e A. Scialoja, Torino, 1913, 3.

2 A.D

I PORTO, Il diritto commerciale romano. Una «zona d’ombra» nella storiografia

romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, III, Napoli, 1997, p. 413 ss.

3 P.C

ERAMI, A.DI PORTO, A.PETRUCCI, Diritto commerciale romano. Profilo storico2, Torino, 2004, p. 26 ss.

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8

Il sistema economico-giuridico passa dall’esser fondato sul mero godimento e sulla conservazione dei beni a struttura sempre più incentrata sull’accumulazione e sul profitto.

Tuttavia, nonostante alcune ineccepibili coincidenze, è innegabile come l’esperienza imprenditoriale romana mostri tratti nettamente distinti da quella odierna per un duplice profilo: per l’assoluto rilievo dell’impresa individuale (negotiatio unius), e per la struttura non necessariamente od esclusivamente societaria dell’impresa collettiva (negotiatio plurium)4

. Il motivo risiede nel ruolo basilare svolto dallo schiavo nella società romana tra il II sec. a.C ed il II sec. d.C., e quindi, per quanto qui rileva, nell’assoluta centralità del fenomeno dello schiavo come strumento dell’imprenditore romano.

Nell’esperienza imprenditoriale romana, invero, lo schiavo giunge a costituire il fondamento giuridico sia dell’impresa individuale che dell’impresa collettiva5

.

Nella prima circostanza, l’utilizzo dello schiavo come preposto ad imprese commerciali o come autonomo gestore di un peculium (patrimonio separato del dominus), consentiva al pater familias di svolgere più negotiationes senza una necessaria gestione personale e diretta dell’impresa e persino, nel secondo caso, di limitare la propria responsabilità; nella seconda, la figura del servus communis, e quindi l’impiego manageriale di schiavi in comproprietà, permetteva a più dominus di esercitare attività imprenditoriali senza la necessità di concludere un contratto di società.

Ad un tratto, l’impostazione tradizionale sviluppatasi posteriormente alla codificazione napoleonica, dove lo schema societario assurge non solo a strumento dominante dell’organizzazione imprenditoriale bensì ad unico mezzo per limitare la responsabilità dell’imprenditore sembra assumere connotati sterili. La societas romana, considerata fragile rispetto al nostro concetto moderno di società per via di alcune mancanze strutturali e

4 P.C

ERAMI,A.PETRUCCI, Diritto commerciale romano. Profilo storico3, Torino, 2010, p. 70 ss.

5 P.C

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9

sostanziali (come l’assenza di rilevanza esterna, di personalità giuridica, l’impossibilità di limitare la responsabilità, e così via), era così articolata, probabilmente, per via di una realtà sociale assolutamente peculiare, che spinse i romani ad avvertire esigenze diverse rispetto a quelle percepite dai fieri sostenitori del modello societario moderno6.

L’esclusività del fenomeno dello schiavismo a Roma, e dunque la tendenza dei pater familias di impiegare le persone in potestà come preposti ad un’impresa marittima o terrestre ovvero come negotiatores cum peculio, fece sì che i pretori approntassero nei propri editti soluzioni dirette a sanzionare la responsabilità adiettizia dell’avente potestà per i contratti conclusi dai sottoposti.

Mi riferisco dunque alle azioni adiettizie (actiones adiecticiae qualitatis), d’impulso pretorio, che nel loro insieme costituirono il fondamento giuridico dell’organizzazione imprenditoriale romana7.

Le azioni adiettizie sono azioni estensive, o trasmissive, della responsabilità. L’azione pretoria, in sintesi, permetteva al creditore di agire, anziché esclusivamente nei confronti del dominus negotii (o armatore), anche direttamente contro il rappresentante (il capitano della nave), comportando non il trasferimento della responsabilità dell’effettivo contraente al dominus negotii, bensì l’aggiungersi della responsabilità pretoria di quest’ultimo alla responsabilità diretta del contraente8.

La “qualità” attribuita dall’editto a queste azioni consisteva in una modifica dell’azione di base. La struttura dell’azione adiettizia era caratterizzata da una formula a trasposizione di soggetti: nell’intèntio figurava il nome del filius o del servus, nella condemnàtio, invece, il nome del pater o del dominus.

6 A.D

I PORTO, Il diritto commerciale romano. Una «zona d’ombra» nella storiografia

romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, op. cit., p. 419. 7

P.CERAMI,A.DI PORTO,A.PETRUCCI, Diritto commerciale romano, op. cit., p. 40.

8 A.W

ACKE, Alle origini della rappresentanza diretta: le azioni adiettizie, in Nozione,

formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienza moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, II, Napoli, 1997, p. 585.

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10

Delle cinque azioni adiettizie (actio exercitoria, actio institoria, actio tributoria, actio de peculio, actio de in rem verso, actio quod iussu), la mia attenzione si poserà unicamente sull’actio tributoria, che nacque con la funzione di tutelare i creditori nel loro insieme e su un piano di parità. Premetto, non siamo certamente di fronte ad una procedura concorsuale quale oggi intesa, ma resta il fatto che con quest’azione può ammirarsi comunque un primo esempio di un rimedio processuale finalizzato alla tutela dei creditori, improntato al rispetto della par condicio creditorum. Tra il I sec. a.C. ed il II sec. d.C., tra i diversi tipi di negotiationes, grande protagonista fu la “negotiatio peculiaris”, e cioè l’impresa a responsabilità limitata.

In questa circostanza, il patrimonio imprenditoriale era costituito dal peculio, inteso ed assunto come patrimonio giuridicamente separato dal patrimonio personale del dominus (res domini), e gestito autonomamente da un servo (o figlio) negotiator. Di conseguenza, la responsabilità del dominus nei confronti dei creditori sarebbe stata limitata al peculio o a quanto rivolto a suo profitto. Vi è però pure da aggiungere che per calcolare l’ammontare del peculio occorreva dedurre preventivamente (deductio de peculio) ciò che era dovuto dallo schiavo (o dal figlio) al padrone (o al padre): solo ciò che rimaneva era considerato peculio9. Come è facile intuire, la facoltà di deductio del dominus poteva ingenerare situazioni pregiudizievoli nei confronti dei creditori del servus negotiator.

Per questo il diritto pretorio partorì l’actio tributoria.

Se il sottoposto si fosse trovato nell’impossibilità di far fronte alle sue obbligazioni verso i creditori dell’attività imprenditoriale, e al contempo il dominus fosse stato a conoscenza del fatto che il servo stava esercitando un’attività speculativa con una parte del peculio impiegata a tale scopo, il dominus stesso sarebbe stato costretto a chiamare tutti i creditori (compreso eventualmente anche se stesso) a partecipare ad un procedimento definito vocatio in tributum, nel quale si stabiliva la

9 P.C

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11

percentuale dei crediti di ciascuno, da potersi soddisfare attraverso i beni facenti parte della merx peculiaris10.

La caratteristica fondamentale di questo procedimento era appunto la posizione di parità in cui si ritrovavano tutti i creditori (par condicio creditorum), compreso lo stesso avente potestà, a meno che non vi fossero creditori titolari di un diritto reale di garanzia. Infatti, la consapevolezza da parte del dominus circa l’impiego del peculium in un’attività d’impresa, cancellava il suo privilegio di soddisfare anticipatamente i propri crediti sul peculio. Pertanto, se di fronte ad una situazione di insolvenza del servo non avesse tempestivamente attivato il procedimento della vocatio, procedendo ad una distribuzione non equa dell’attivo, il dominus si sarebbe esposto all’actio tributoria dei concreditori, con la quale quest’ultimi chiedevano che il procedimento della vocatio diventasse per lui cogente.

Ad ogni modo, tra tutti i procedimenti individuati dall’ordinamento giuridico romano per dare la possibilità ad una pluralità di creditori di riscuotere quanto loro dovuto da un debitore insolvente in base al criterio della par condicio creditorum, la bonorum venditio costituisce il primo procedimento di esecuzione patrimoniale, in quanto fino alla sua introduzione l’unica forma di esecuzione possibile era quella personale, attuabile mediante l’esercizio della manus iniecto.

La bonorum venditio può essere definita come uno strumento processuale pretorio a carattere universale, in quanto riguardante l’interezza dei beni del debitore, e collettivo, qualora vi fosse una pluralità di creditori, mirato all’appropriazione dell’intero patrimonio del debitore su istanza di uno o più creditori immessi nel possesso in forza del decreto magistratuale11.

Con un primo decreto, il magistrato, congiuntamente, autorizzava la missio in bona e ordinava di rendere pubblica l’immissione nei beni

10 A.P

ETRUCCI, Lezioni di diritto privato romano, Torino, 2015, p. 150.

11

M.DEL PILAR PÉREZ ALVAREZ, Origine e presupposti del concorso dei creditori a

Roma, in TSDP, IV, 2011, p. 2.

http://www.teoriaestoriadeldirittoprivato.com/index.php?com=statics&option=index&cI D=180.

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12

(proscriptio bonorum) e la notizia della loro imminente vendita. Trascorsi trenta giorni, un secondo decreto autorizzava i creditori a nominare, tra loro, un magister bonorum, il quale, sempre sotto la direzione del magistrato, aveva il compito di fare l’inventario dei beni, redigere e pubblicare le condizioni generali per la loro vendita all’asta e poi procedere alla stessa nei successivi quaranta giorni12.

La tappa finale del procedimento consisteva nello svolgimento dell’asta e quindi nell’aggiudicazione in blocco dei beni del debitore insolvente al miglior offerente.

Infatti, è necessaria una precisazione: la finalità per la quale nacque l’istituto in questione è differente da quella a cui tende oggi un normale procedimento concorsuale, ovvero la soddisfazione di una pluralità di creditori su un patrimonio generalmente insufficiente in par condicio tra i creditori.

La bonorum venditio sorse come misura sussidiaria all’esecuzione personale: se quest’ultima, per l’appunto, non avesse maturato i suoi frutti, si sarebbe allora proceduto con la bonorum venditio, la quale mirava alla sostituzione del debitore che non pagava, né assumeva la propria difesa, con un altro soggetto passivo che divenisse titolare di tale obbligo13.

Pertanto possiamo arrivare a due conclusioni.

Da una parte vi è un fatto rilevantissimo: la bonorum venditio si applicava nei confronti del debitore comune, nel senso che era sufficiente il mancato rispetto di uno solo dei suoi obblighi perché uno o più creditori potessero chiedere la missio in bona e la successiva vendita dei beni. Allora, per l’apertura del procedimento, non era essenziale l’esistenza di una pluralità di creditori, né, soprattutto, l’insolvenza dello stesso; bastava piuttosto che il debitore non pagasse anche un solo

12

A.PETRUCCI, Lezioni, op. cit., p. 327 ss.

13 F.F

ERRANDI, L’introduzione normativa delle misure di allerta e prevenzione della

crisi di impresa nell’ordinamento italiano: antefatti storici, profili comparatistici e “nuove” prospettive di riforma interna, tesi di dottorato, Roma, a.a. 2017-2018, p. 8.

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13

creditore per semplice mancanza di liquidità affinché questi potesse richiedere l’apertura del procedimento14

.

Dall’altra parte, però si deve ammettere che la par condicio creditorum non nasce tramite le legislazioni statutarie del XIII secolo e dei primi decenni del XIV. Il diritto romano la conosce già in epoca preclassica e la applica indistintamente ad ogni forma di esecuzione patrimoniale15. In definitiva, non pare assolutamente azzardato ritenere che la bonorum venditio fosse stata, di fatto, già, un procedimento concorsuale, che poneva i creditori immessi nel possesso dei beni del debitore su un piano di parità salve legittime cause di prelazione.

2. L’insolvenza e le sue conseguenze nel medioevo

Premesso che, come si è appena visto, già nel diritto romano rinveniamo primi esempi di procedure esecutive sui beni del debitore, «non v’è dubbio», per citare il Santarelli, «che quel complesso organico di norme e principi – quell’istituto, cioè – che si conviene chiamare fallimento sia nato nelle città mercantili (e non è temerario aggiungere italiane) del Basso Medioevo»16.

Il fiorire degli istituti fallimentari non fu altro che la risposta che i legislatori diedero all’esigenza di difesa del credito e della fiducia commerciale, che della società mercantile costituivano un fondamentale asse portante17.

Nella società comunale bassomedievale, di tutti coloro che a vario titolo e con diversità di funzioni partecipavano al processo produttivo, soltanto il mercante rivestiva nel fatto la qualifica di imprenditore, perché

14

M.DEL PILAR PÉREZ ALVAREZ, Origine e presupposti, op. cit., p. 108.

15

F.FERRANDI, L’introduzione normativa delle misure di allerta e prevenzione della

crisi di impresa nell’ordinamento italiano, op. cit., p. 9. 16 U. S

ANTARELLI, voce Fallimento (storia del), in Dig. disc. priv., sez. comm., V, Torino, 1990, p. 366, ora anche in ID., Ubi societas ibi ius: scritti di storia del diritto; a cura di Andrea Landi, Introduzione di Paolo Grossi, Torino, 2011, II.

17 A. S

CIUMÉ, Le procedure concorsuali: una prospettiva storico-comparatistica, in

Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali. Profili storici, comunitari, internazionali e di diritto comparato, V, Torino, 2014, p. 12.

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14

solamente a lui competeva di pianificare prima e di dirigere poi l’intero processo produttivo, assumendosi l’intero rischio economico18

. Fu proprio grazie al mercante che, di fronte al fervore di un cambiamento tanto radicale dal punto di vista sociale quanto soprattutto economico, che comportò il trapasso da una società curtense ad una società urbana19, la società comunale riuscì a non correre quel rischio di discontinuità e incoerenza tra domanda e offerta, normale conseguenza di una nuova società che vedeva adesso il mercato come sua componente essenziale. La funzione di intermediazione del mercante tra domanda e offerta veniva così considerata l’unica attività specificamente imprenditoriale. Va da sé che se al mercante spettava la pianificazione della produzione nonché l’anticipazione, spesso, di imponenti mezzi finanziari e l’eventuale trasporto del prodotto sulle piazze di vendita (talora assai distanti da quelle di produzione) con costi talvolta gravi da sostenere, diventava assolutamente necessario per lo stesso disporre di capitali assai vasti, che spesso non aveva di suo, costringendolo perciò a trovare chi li anticipasse, chiaramente a titolo oneroso.

Il credito veniva così a fondarsi sulla fiducia. Se l’impresa riusciva, tutti sarebbero stati ripagati; ma se non riusciva, e i motivi potevano essere davvero molteplici (dal rischio della pirateria fino ad una semplice speculazione sbagliata), soltanto il mercante ne pagava dazio, essendo lui il solo rivestito della qualifica di imprenditore.

Mercatura, fiducia e credito furono quindi i tre cardini su cui si fondava l’intera dinamica della società mercantile.

Il fallimento, allora, vanificava il credito e, al contempo, arrecava un forte danno all’immagine del mercante; non avrebbe potuto infatti esservi

18 U.S

ANTARELLI, Mercanti e società tra mercanti, Torino, 1998, p. 41.

19

Se infatti la curtis era una società chiusa, autosufficiente, dove cioè tutti i suoi membri si procuravano col proprio lavoro il necessario, senza bisogno, o, forse meglio, senza possibilità, di provvedersi altrove quel che in loco non si poteva produrre, e dove dunque non si avvertì minimamente il bisogno di una differenziazione delle funzioni, nella città nessuno era più capace di produrre tutto il necessario per il proprio consumo, imponendosi, questa volta, una forzata specializzazione delle funzioni. Insomma, il mercato diventava strumento imprescindibile per ridare a tutti, mediante lo scambio, quella disponibilità di beni che nella curtis era frutto naturale del comune lavoro. U. SANTARELLI, Mercanti e società, op. cit., p. 37.

(15)

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rischio peggiore per l’egemonia economica sociale e politica del ceto mercantile della constatazione che non fosse prudente aver fiducia nel mercante, fargli credito o affidargli i propri capitali perché li investisse e li facesse fruttare20. Un vero e proprio misfatto più che una sventura; fu il profilo della bancarotta a prevalere su quello dell’insolvenza.

Se agli occhi dell’opinione pubblica il fallimento assumeva i connotati di un fatto assolutamente antisociale, i legislatori lo qualificarono come un reato. Negli statuti comunali e corporativi, finì così per esser oggetto di una disciplina completamente repressiva.

Interessante si dimostra come le prime norme statutarie affrontarono lo spinoso problema21 dei “presupposti del fallimento”.

I legislatori colsero nella fuga il sintomo del dissesto d’un mercante. Di ciò abbiamo numerose testimonianze. Si guardi al Costituto senese del 1262, o addirittura allo statuto del Capitano del popolo di Firenze del 132222, dove addirittura si consentiva al Potestà e al Capitano del popolo di sottoporre ad indagine finanche con l’uso della tortura i mercanti rei di esser fuggiti o di essersi assentati con denaro o cose altrui23.

Servì poco per capire che, pur restando fermo il collegamento tra fuga ed insolvenza, si fuggiva perché non si voleva o non si poteva pagare i propri debiti. Il mercante dissestato fuggiva perché era la cosa più facile da fare per levarsi d’ogni impiccio: la strada da percorrere per fuggire dalla giurisdizione della propria città e nascondersi da amici e parenti non era lunghissima.

Dunque divenne chiaro per tutti che il fallimento era conseguenza del dissesto, non della fuga.

20

U.SANTARELLI, Mercanti e società, op. cit., p. 67.

21 D’altra parte si ebbe a che fare con una realtà dei fatti che prendeva forma per la

prima volta.

22

Costituto del Comune di Siena del 1262, dist. II, LXXXIII.

«si aliquis civis Senensis vel de iurisdictione Senensi aufugerit cum avere civis vel civium vel asportaverit extra civitatem vel iurisdictionem Senensem».

23 Statuti del Capitano del Popolo di Firenze del 1322, lib. II, rub. XXV.

«Potestas et Capitaneus Florentie […] habeant plenum arbitrium […] et teneantur cogere et ad tormenta ponere et omni alia via […] investigare quoscunque mercatores […] et omnes alios qui pro eorum ministeriis publicis consueverunt recipere pecuniam vel mercantiam ad scripturam libri aufugientes et se absentates […] cum pecunia vel rebus aliquorum […]».

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16

Se la fuga poteva restar comunque un sintomo, non era più il fattore determinante l’insolvenza. Si guardi ad alcuni statuti lombardi modellati su quello mercantile milanese del 1330, dove si stabilisce che il mercante sarà dichiarato fallito «se l’interessato non comparirà dinanzi ai Consoli dopo che sia stato citato, o se comparirà e non presterà idonea garanzia di pagamento»; qui è ben comprensibile come sia la mancata prestazione della garanzia di pagamento (e quindi l’insolvenza) e non la fuga (ovvero la mancata comparizione davanti ai Consoli), presupposto reale del fallimento24.

Ciò non toglie che il fallimento continuava ad essere qualificato come reato, punito assai spesso con sanzioni severissime. La sanzione generalmente riservata ai falliti fu quella del bando, ovvero la privazione della cittadinanza. Ma ad esso si affiancavano sanzioni ulteriori: dall’interdizione dai pubblici uffici o dall’esercizio della mercatura, a misure di natura sostanzialmente afflittiva, come l’iscrizione del fallito in un apposito elenco o la pittura del suo ritratto affrescato in luogo pubblico ad perpetuam eius infamiam.

L’identificazione fallimento-reato non era destinata a sopravvivere per ancora molto tempo.

Complici la perdita dell’egemonia culturale e sociale del ceto mercantile25 nonché l’accrescimento continuo della complessità delle situazioni economiche e sociali che portò il mondo giuridico a rendersi sempre più consapevole delle capacità insite nella propria scienza e della

24

Statuto dei Mercanti milanesi del 1330, De creditore fugitivi ponendo summarie in

possessionem et tenutam bonorum eius (c. CCVII r.). Statuto dei Mercanti di Cremona

del 1388, rub. CII; Statuto dei Mercanti di Brescia del 1429, rub. 92; Statuto dei Mercanti di Bergamo del 1457, capp. XXXVII e LXXXVII; Statuti di Bergamo del 1491, coll. V, cap. XLVIII. Cfr. U. SANTARELLI, Per la storia del fallimento nelle

legislazioni italiane dell’Età intermedia, Padova, 1964.

25 Si consideri che fintanto che il ceto dei mercanti mantenne la sua egemonia, lo stesso

non intendeva certo esser clemente verso chi, appartenendovi, avesse mancato ai propri doveri, contraddicendo i valori fondanti della società mercantile stessa. L’imporsi sulla scena europea delle prime forme di stato moderno legate alle nascenti monarchie nazionali tra Cinque e Seicento ebbero l’effetto di modificare l’assetto dei poteri ed i rapporti di forza esistenti tra pubblica autorità e ceto commerciale, con la progressiva, integrale soggezione del secondo alla prima e con la riduzione dello ius dicere dei mercanti al rango di normazione integrativa della pervasiva legislazione sovrana. cfr. U. SANTARELLI, Mercanti e società, op. cit., p. 79. e A.SCIUMÉ, Le procedure concorsuali:

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propria raffinatezza dogmatica, si giunse al concepimento di un nuovo concetto: quello di reato fallimentare.

Si badi bene, il passaggio da fallimento-reato a reato fallimentare fu di estrema rilevanza: mentre il primo non apriva spazio a distinzioni tra fattispecie oggettivamente diverse e a graduazioni di sanzioni, il secondo consentì alla decozione di retrocedere da fatto costitutivo a presupposto di fallibilità del reato stesso26.

Nasce, a partire dalla fine del Quattrocento, la figura autonoma del delitto di bancarotta, in forza di un orientamento che legittima il fallito alla prova dell’assenza della colpa o del dolo. Un esempio ci perviene da un decreto di Galeazzo Maria Sforza del 1473: il fallito veniva dichiarato ribelle al signore e allo stato, a meno che non si fosse avuta prova certa che un qualche infortunio non dipendente dalla volontà del fallito fosse stata la causa del fallimento27.

La sanzione restava pesante, è vero, e pure la situazione processuale del fallito non era poi così leggera, se si pensa che lo stesso era costretto ad offrire la prova certa della propria innocenza, spesso consegnato così ad una probatio diabolica. Va però considerato che non più ogni fallimento sarebbe stato punito, ma solo quelli connotati da ulteriori elementi di illiceità. Il fallimento in quanto tale, per la prima volta, diventava rilevante per se stesso: si andava così formando una nuova fattispecie criminosa, e cioè il fallimento doloso (ciò che noi oggi definiamo bancarotta fraudolenta).

Il diritto veneziano, tuttavia, seguì una strada completamente differente rispetto a quella percorsa dagli altri territori dell’Italia tardomedievale. Nella Serenissima vi fu una netta opposizione alla penetrazione, nell’ordinamento giuridico, del diritto comune elaborato dalla scuola di Bologna, a beneficio di una prevalenza dello jus proprium.

26 U.S

ANTERELLI, Mercanti, op. cit., p. 79.

27 Decreto di Galeazzo Maria Sforza, 1473.

«[…] quicunque in dominio nostro mercator […] a fide defecerit et iccirco creditori bus suis non satisfecerit, nisi nobis de aliquo fortassis eius infortunio vel de legitime fraudanda fidei causa constiterit ipso facto post fidem fraudatam et praedicta secura noster et status nostri rebellis factus sit et censeatur […]».

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18

La legislazione statutaria partorì quindi una procedura fallimentare particolarmente caratteristica, poiché espressione di «una prassi di contenuto profondamente diverso dagli altri iura propria: quanto altrove le regole che governavano i dissesti mercantili furono severe […] e miraron a tutelare incondizionatamente le aspettative dei creditori identificate con il bonum commune, altrettanto la prassi veneziana ridusse il procedimento fallimentare a una trattativa fra creditori e debitore garantito quest’ultimo dalla fide [= salvacondotto] e volta alla stipulazione del concordato, che a Venezia chiamarono accordo e che fu l’esito praticamente di ogni fallimento»28

.

La Parte del Maggior Consiglio del 28 marzo del 1395 contiene una completa disciplina delle fide e degli accordi. Anzitutto, vi si legge che, se nel termine stabilito il fugitivus depositava le scritture contabili e consegnava il patrimonio, si doveva ritenere, in forza di una presunzione legale assoluta, che il fallimento non fosse stato doloso, così rendendosi obbligatorio concedere al fallito la fida. Questo è un dato davvero importante: a Venezia, uno strumento molto efficace come la presunzione assoluta, che non ammette prova contraria, veste i panni di un trattamento favorevole nei confronti del fallito, consentendogli di evitare le sanzioni connesse alla frode. Inoltre, qualora fosse stata concessa la fida, il periodo di validità della stessa doveva essere atto a consentire la stipulazione dell’accordo tra fallito e creditori. Se vi si perveniva bene, altrimenti sarebbe stato compito dei Sopraconsoli (magistrati competenti in materia di fallimento) far di tutto perché si addivenisse ad un accordo tra le parti.

Non vi è unanimità di opinioni sul perché di un atteggiamento così premuroso da parte della Serenissima nei confronti del fallito. Alcuni sostengono, senza però alcuna certezza, che ciò si dovette alla spiccata

28 U.S

ANTARELLI, Il fallimento: delitto o sventura?, in LEGNANI ANNICHINI-SARTI (a cura di), La giurisdizione fallimentare. Modelli dottrinali e prassi locali tra Basso

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19 “insularità” di Venezia29

: e, in effetti, a Venezia poteva essere molto probabile che un fallimento fosse conseguenza di uno sfortunato viaggio per mare o connesso a infortuni di mercatura transmarina.

3. Insolvenza e fallimento nell’esperienza postmedievale e nell’età industriale

Eccezion fatta per il caso della Serenissima, il ‘500 fu, non solo nei comuni italiani, ma in tutta la respublica christiana europea, il secolo del fallito come nemico del credito e traditore dei suoi compagni d’arte e della società tutta30.

A partire dal Settecento, e ancora più nell’Ottocento, sarebbero però arrivate importanti novità.

In Inghilterra, se la prima legge fallimentare del 1542 e il Fraudulent Conveyances Act del 1571 trattavano il fallimento come un atto criminale punito con la prigione o la morte, lo Statute of Anne del 1705 riconosceva, per la prima volta, la possibilità che il fallimento potesse anche essere conseguenza di una “disgrazia inevitabile”, recidendo quel legame fino ad ora indissolubile tra fallimento e frode. Lo Statute of Anne, appunto, introduceva l’istituto del discharge of debts, a beneficio del debitore che si fosse adoperato positivamente per il buon svolgimento del procedimento fallimentare. A costui sarebbe stato inoltre garantito un sostegno finanziario tratto dal patrimonio fallimentare, di un ammontare dipendente dalla percentuale di crediti liquidata31.

29 Z

ORDAN, L’ordinamento giuridico veneziano – lezioni di storia del diritto veneziano, Padova, 1980 e K.NEHLSEN VON STRYK, Ius commune, consuetudo e arbitrium iudicis

nella prassi giudiziaria veneziana del Quattrocento, Venezia, 1985. 30

A. SCIUMÉ, Le procedure concorsuali: una prospettiva storico-comparatistica, op.

cit., p. 23. 31 A. S

CIUMÉ, Le procedure concorsuali: una prospettiva storico-comparatistica, op.

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20

L’esperienza francese, che non poté poi non influenzare quella dell’Italia unita32, fu invece particolarmente dura nei confronti del fallito.

Il massimo rigore richiesto dalla società francese dei primi anni dell’Ottocento, dopo che gli anni successivi al 1789 avevano registrato un indirizzo completamente sfavorevole nei confronti dello status giuridico del debitore, ricevette una risposta più che soddisfacente dal Code de Commerce del 1807, con una disciplina, contenuta nel Libro III, da applicarsi al solo ceto commerciale, confacente ai principi del carattere collettivo della procedura (con i creditori costituiti in una massa e con l’eguaglianza dei chirografari), della finalità esclusivamente satisfattiva degli interessi del ceto creditorio e della forte incidenza dei profili penali (con l’incarcerazione immediata del debitore dichiarato fallito)33.

Spostando l’attenzione sull’esperienza giuridica della nostra penisola, la raggiunta Unità d’Italia nel secolo XIX impose la redazione di codici unitari; la scelta fu quella di mantenere una distinzione fra obbligazioni civili e obbligazioni commerciali, producendo così un Codice di Commercio nel quale fu inserita la disciplina del fallimento34.

Il Codice di Commercio del 1882 si sostituì a quello del 1865 e, come detto in precedenza, fu assolutamente influenzato dall’esperienza francese.

Pasquale Stanislao Mancini, che curò interamente la normativa concorsuale, seguì l’impostazione francese e belga, anziché il modello germanico come fece per altre sezioni del medesimo codice35: mantenere

32 Non solo per i legami diretti o indiretti che molti stati della Penisola ebbero con Parigi

nei primi quindici anni del secolo (gli esempi più evidenti sono il Piemonte sabaudo, incorporato nell’Impero francese, le regioni del nord, unificate in quello che venne allora denominato Regno d’Italia con l’attribuzione della corona allo stesso Napoleone, il Regno di Napoli saldamente in mano alla stretta cerchia del Bonaparte), ma anche per l’autonoma vocazione dei territori italiani a favorire una disciplina delle procedure concorsuali di netto sfavore verso il debitore e verso la continuazione dell’impresa, frutto della tradizione che vi aveva a lungo dominato in modo prevalente. Così A. SCIUMÉ, Le procedure concorsuali, op. cit., p. 29.

33 A.S

CIUMÉ, Le procedure concorsuali, op. cit., p. 28.

34

M.FABIANI, Diritto Fallimentare. Un profilo organico, Bologna, 2011, p. 23.

35 La legge fallimentare tedesca (Konkursordnung) del 1877, a differenza di quella

francese (e anche diversamente dal Codigo de comercio spagnolo del 1829) si applicava indifferentemente sia ai commercianti che alle altre categorie di debitori, senza porre

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la distinzione tra insolvenza della persona fisica e fallimento dell’impresa avrebbe infatti significato poter colpire più duramente36 l’imprenditore che non avesse rispettato i propri impegni con i creditori.

La normativa fallimentare viene così applicata ai soli commercianti37. Con il codice venne introdotta anche la figura del curatore fallimentare, singolo e soprattutto non creditore, ritenuto per questo più imparziale nella gestione dell’attivo e nella gestione delle pretese creditorie. Si stabilì inoltre l’indipendenza del procedimento penale per bancarotta rispetto a quello fallimentare. Finivano qui, però, le misure, per così dire, di “compromesso”38

: si voleva, appunto, colpire severamente il fallito, tant’è che si ridussero i margini di manovra dello stesso, durante e dopo il procedimento, lasciando, contemporaneamente, ampio spazio all’arbitrio del giudice, di fatto eliminando quasi del tutto la possibilità di addivenire ad una composizione negoziata della crisi d’impresa39.

E se il codice di commercio del 1882 prevedeva la possibilità della continuazione dell’azienda, si trattava soltanto di un’ipotesi di continuazione dell’impresa a procedura fallimentare aperta, destinata unicamente ad evitare un aggravio dei danni nei confronti dei creditori. In altre parole, una scelta completamente slegata da valutazioni favorevoli alla continuità aziendale, quanto piuttosto semplicemente legata «a spicciole ragioni di bottega, dovute ad esempio, alla necessità di

distinzioni fra persone fisiche e persone giuridiche. Si era mantenuta, nell’ordinamento tedesco, una tradizione legislativa risalente alla legge prussiana sull’ipoteca e sul fallimento del 1723, nonché alla legge fallimentare prussiana del 1855. Cfr. S. A. RIESENFELD, Fallimento, in Enciclopedia delle scienze sociali, 1993., p. 10 ss.

36 Appunto come nel modello francese.

37 E pensare che il Veneto, soggetto al dominio austriaco fino al 1866, adottò il tipo di

fallimento tedesco, estendendo la procedura concorsuale ai non commercianti. Alcuni esponenti della politica italiana dell’epoca, in effetti, prediligevano tale soluzione, ma il Mancini ed il ministro Zanardelli furono irremovibili sull’adozione del disegno francese, con l’obiettivo di colpire con maggiore durezza i fallimenti colposi e dolosi dei commercianti stessi. Si veda la Relazione del Ministro di Grazie e Giustizia e dei

Culti (Mancini) od esposizione dei motivi del Progetto del Codice di commercio pel Regno d’Italia, 1878.

38 F.F

ERRANDI, L’introduzione normativa delle misure di allerta e prevenzione della

crisi di impresa nell’ordinamento italiano, op. cit., p. 20. 39

Sul tema, cfr. diffusamente A.PADOA SCHIOPPA, La genesi del codice di commercio

del 1882, in Saggi di Storia del diritto commerciale, Milano, 1992; L. GHIA,

L’esdebitazione. Evoluzione storica, profili sostanziali, procedurali e comparatistica,

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22

terminare lavorazioni ancora in corso al momento della dichiarazione di fallimento, per ultimare i prodotti da vendere, a maggiore valore aggiunto, nel corso della liquidazione fallimentare»40.

Per comprendere meglio, ebbe a valere per il Codice del 1882 ciò che si affermò con il Codice francese del 1807: quest’impostazione considerevole unicamente delle ragioni creditorie non fu altro che espressione di uno Stato liberale, uno Stato definito, in termini sociali, “monoclasse”, connotato da una realtà economica, giuridica e finanziaria caratterizzata dall’uniformità degli interessi disciplinati: quelli, appunto, della classe borghese, dei commercianti41.

La situazione non sarebbe poi migliorata con la Legge Fallimentare del 1942.

Il r.d. 16 marzo 1942, n. 267 consacrò la nuova visione pubblicistica del fallimento, conformemente alla visione statalista fascista: piena accentuazione dei profili pubblicistici e, contemporaneamente, progressiva sottrazione del fallimento al gioco dei rapporti fra imprenditore debitore e creditori.

Dunque un’unica necessità: creare un più severo regime nei confronti del debitore, volto a realizzare due obbiettivi ben precisi: la soddisfazione della massa dei creditori e l’esclusione del fallito dal sistema produttivo. Per la verità, già alla fine del secondo decennio del Novecento, per citare un esempio della letteratura giuridica prossima alla riforma del 1942, Alfredo Rocco ben dipinse le marcate linee pubblicistiche che veniva ad assumere ora l’istituto, seppure a partire dai profili economici del fenomeno: «Quanto agli effetti economici del fallimento, esso non solo produce una perdita per le economie private di coloro che vennero in rapporto di credito col fallito, ma dà luogo altresì ad una dispersione di

40

A. ROSSI, La conservazione dell’impresa nell’evoluzione delle procedure

concorsuali, in LEGNANI ANNICHINI-SARTI (a cura di), La giurisdizione fallimentare,

op. cit., p. 147.

41 Se si osservano i Codici dell’Ottocento, si nota come essi fossero intrisi di liberalismo

e di enfatizzazione di interessi privatistici, quali quelli del ceto imprenditoriale e dei creditori insoddisfatti, e di come la pubblica autorità avesse un interesse solo mediato, alla quale si accostava un interesse del diritto penale per la tutela del credito pubblico, pregiudicato dalla perturbazione del credito privato. G. BONELLI, Del fallimento:

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capitali, che va a danno di tutta l’economia pubblica. […] A doppio titolo dunque il fallimento deve considerarsi come un fenomeno, la cui importanza eccede la economia privata, e interessa tutta la pubblica economia: ciò che non ha poca importanza anche per la regolamentazione giuridica dei rapporti che ne derivano»42.

Infine, mi sembra opportuno segnalare anche la rappresentazione proposta da Aurelio Candian nel 1934: «quando un commerciante (persona fisica o persona giuridica) non è più in condizioni di pagare in scadenza i suoi debiti l’autorità giudiziaria sostituisce a lui dei propri organi allo scopo che sia eseguito, nella misura e nei termini che risulteranno possibili, e sempre con l’osservanza del pari trattamento dei creditori, quel pagamento; cioè sottrae a lui, trasferendolo a quegli organi, quell’esercizio dei poteri di disposizione che […] deve attuarsi appunto […] in quel pagamento imparziale, cioè uguale per tutti (sarebbe infatti un errore il pensare che ciò interessi solo i singoli creditori mentre interessa immediatamente lo Stato)»43.

La visione veneziana “caritatevole” nei confronti del debitore insolvente ma sfortunato stava ormai scomparendo nel nostro ordinamento.

A differenza degli altri ordinamenti, inglese e americano in special modo, ma anche belga e francese44, a cui, come si è visto, si era originariamente ispirato, quello italiano si muove in una prospettiva opposta.

Se gli altri ordinamenti, cioè, si stavano evolvendo nel senso di affievolire la portata sanzionatoria ed afflittiva delle procedure concorsuali e aumentare il carattere privatistico della crisi di impresa, favorendo le soluzioni negoziate, il diritto concorsuale italiano si evolve nella direzione inversa, orientato ad una sempre maggiore condanna dell’insolvenza ed ad un’impronta nettamente pubblicistica dei procedimenti concorsuali.

42 A.R

OCCO, Il fallimento. Teoria generale e origine storica2, Milano, 1962, p. 9.

43 A.C

ANDIAN, Il processo di fallimento. Programma di un corso, Padova, 1934, p. 3.

44

L’ordinamento francese, in origine estremamente severo nei confronti del debitore insolvente, si stava evolvendo nel senso di una diminuzione della portata sanzionatoria delle procedure concorsuali per il debitore insolvente e di un incoraggiamento delle soluzioni negoziali della crisi e della salvaguardia dei valori aziendali.

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24 4. Il diritto fallimentare transfrontaliero

A seguito dell’industrializzazione degli Stati, nella realtà economica e giuridica, si è imposta l’esigenza di assicurare un coordinamento tra gli ordinamenti interessati dall’insolvenza di un’impresa che eserciti la propria attività in vari Paesi o che, per altri versi, presenti implicazioni transfrontaliere, sospinti, per l’appunto, da un crescente intrecciarsi di rapporti commerciali tra soggetti di nazionalità diverse, che si trovano ad operare in Paesi differenti o che localizzano beni e attività produttive in territori diversificati45.

La circostanza che l’attività d’impresa sia stata condotta in più Paesi e che, pertanto, i fulcri delle operazioni imprenditoriali, i beni aziendali così come i creditori siano localizzati in Stati differenti, non può che portare ad una potenziale crisi di regolamentazione normativa del fenomeno.

Tanto più se si considera che l’avvio di una procedura fallimentare in uno Stato anziché in un altro non conduce necessariamente a medesimi risultati. Si osservino ad esempio le grandi differenze che possono sussistere in ordine ai presupposti per l’apertura e alla tipologia della procedura stessa, nell’ambito di ordinamenti giuridici diversi: mentre alcune hanno carattere liquidatorio, altre tendono al risanamento dell’impresa insolvente. Ancora, esistono procedimenti in cui il debitore non viene privato del potere di direzione ed amministrazione dell’impresa in crisi, anche se la sua opera viene coadiuvata da un soggetto individuato dal giudice competente, ed altri in cui si assiste allo spossessamento totale del soggetto insolvente.

Quando poi i sistemi fallimentari nazionali sembrano tendere alla realizzazione di medesimi obiettivi, divergono strumenti e metodologie. Basti guardare alla par condicio creditorum, principio base che ispira la generalità degli ordinamenti statali: se è dato inconfutabile che la sua realizzazione passa attraverso la distribuzione proporzionale dell’attivo

45 I.Q

UEIROLO, Profili di diritto internazionale, in Trattato di diritto fallimentare, op.

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25

dell’impresa a favore di tutti i creditori, non vi è convergenza di opinioni sulle eccezioni che si possono apportare a detta regola di base.

Neppure la c.d. lex mercatoria46 è stata capace di sopperire all’inadeguatezza delle normative statali relativamente alle fattispecie di insolvenza transnazionale, a causa della resistenza opposta dalle esigenze pubblicistiche di stampo statalistico che hanno contraddistinto, più o meno, tutti gli ordinamenti giuridici in riferimento al fenomeno della crisi d’impresa. Anzi, si è seguita la strada opposta: i diversi Paesi si sono trincerati dietro discipline “territorialistiche”, chiudendosi completamente agli ordinamenti stranieri.

Il settore dell’insolvenza, per lungo tempo, si è mostrato refrattario a qualsiasi regolamentazione sovranazionale che prevedesse strumenti di coordinamento delle procedure, vuoi perché la maggior parte delle iniziative non hanno prodotto un testo definitivo, vuoi perché, nel caso opposto, i pochi risultati raggiunti difettano nel grado di cooperazione raggiunta e dunque nel numero dei Paesi coinvolti47.

La disciplina e il coordinamento delle procedure d’insolvenza transfrontaliera sono state così affidate all’iniziativa dei singoli Stati e, in particolare, alla disciplina interna di diritto internazionale privato.

I principi applicati sono essenzialmente due: quello della territorialità, e quello dell’universalità.

46 Per “lex mercatoria” si intende “quell’insieme di norme in materia di diritto commerciale internazionale, di formazione spontanea e non scritte, prodotte dalla prassi commerciale, che vengono considerate come fonte normativa autorevole dei rapporti e dei negozi fra privati. Quindi un sistema di norme extranazionali, create dal ceto imprenditoriale, senza la mediazione del potere legislativo degli Stati e formato da regole che disciplinano in modo uniforme i rapporti negoziali che si instaurano entro l’unità economica dei mercati; essendo un autonomo sistema giuridico sopranazionale, viene direttamente richiamata dalle parti nei contratti del commercio internazionale in luogo delle disposizioni dei diritti nazionali. La lex mercatoria, in pratica, si applicherebbe ai contratti tra privati, purché abbiano il carattere della transnazionalità (cioè non ricadano interamente nella sfera normativa di uno Stato determinato), nonché a quei contratti tra privato e Stati esteri, relativamente ai quali questi ultimi si pongono in posizione paritaria con i primi, rinunciando a sottoporre il rapporto al proprio diritto pubblico interno. Il trasferimento di poteri dagli Stati ai mercati è il cuore della trasformazione nei rapporti tra istituzioni politiche e poteri economici; per disciplinare e dare sicurezza alle transazioni del mercato, lo Stato moderno perde la sua centralità a favore di un diritto che si va sempre più definendo come transnazionale”. G.GARRISI,

Lex Mercatoria e contratti internazionali, http://www.scint.it/appr_new.php?id=165.

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26

Fino a qualche anno fa, il modello a cui si sono maggiormente ispirati i vari Stati è stato quello territoriale, in base al quale, di fronte al dissesto di un’impresa che abbia svolto una qualche attività nel foro, occorre aprire una procedura concorsuale sottoposta alla disciplina nazionale del foro stesso, e controllata dalle autorità locali. Detto altrimenti, i vari sistemi fallimentari statali hanno optato per il controllo nazionale delle procedure di insolvenza a prescindere dal fatto che il debitore avesse cittadinanza o domicilio straniero, oppure che l’oggetto principale dell’impresa fosse localizzato all’estero.

Il principio di territorialità, infatti, conduce all’apertura di un procedimento in ogni Stato in cui vi sia l’interesse a conseguire gli effetti tipici della procedura d’insolvenza.

È chiaro che, dal punto di vista interno ad un determinato ordinamento giuridico, il principio di territorialità offre ampie rassicurazioni in ordine al rispetto, e dunque al soddisfacimento, di tutti gli interessi coinvolti nella crisi di imprese operanti sul territorio dello Stato. Il creditore locale riceve in questo modo massima tutela, potendo evitare di investire tempo e risorse per insinuarsi in un fallimento estero.

Seppur vi siano stati alcuni tentativi nella direzione di una “territorialità cooperativa”48, tale modello poggia su una grave contraddizione di fondo: la più o meno rigida applicazione del principio di territorialità impedisce di realizzare un’effettiva e paritaria tutela dei creditori. Da un punto di vista generale, ossia valutando gli interessi di tutti i creditori insinuati nei diversi procedimenti nazionali, questi potrebbero venire

48

In base ad essa, rimane fermo il principio per cui ogni ordinamento statale gestisce procedimenti di insolvenza controllati dalle autorità locali e limitati ai beni presenti nel foro. Al fine di ottenere un’efficiente gestione delle procedure contestualmente pendenti, però, alla regola base si aggiunge l’obbligo di instaurare adeguate forme di collaborazione tra i sistemi fallimentari nazionali; questo pur senza arrivare al riconoscimento, nel foro, delle procedure e delle decisioni pronunciate all’estero. Ad esempio, i curatori devono provvedere allo scambio di informazioni sulle procedure pendenti, in modo da evitare duplicazioni e discriminazioni nella liquidazione dei crediti, ma possono gestire autonomamente le procedure concorsuali senza alcun bisogno di concordare le scelte fondamentali con quanto deciso nell’ambito di altro procedimento, quand’anche aperto nello Stato in cui il debitore ha localizzato i propri interessi principali.

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pregiudicati, a parità di condizioni, dall’entità del patrimonio del debitore presente nei diversi Stati.

La soluzione a quest’ultimo problema è parsa, in un primo momento, risiedere in una disciplina dell’insolvenza transfrontaliera ispirata al principio dell’universalità.

In base ad esso, il fallimento pronunciato nell’ordinamento in cui risiede l’impresa insolvente, estende la sua operatività in ogni altro Stato, garantendo al curatore dell’unica procedura pendente la possibilità di recuperare i beni del debitore ovunque si trovino, di esercitare ogni azione vantaggiosa per la massa e di garantire la par condicio creditorum a prescindere dal loro domicilio o dalla loro cittadinanza. Non rileva più la localizzazione dei beni del debitore: questi vengono assoggettati alla procedura d’insolvenza tanto che si trovino nello Stato di apertura della procedura, tanto che si trovino all’estero.

Un corpus efficiente di regole concorsuali favorisce poi la sottoposizione di tutti i beni dell’impresa all’esecuzione fallimentare. Diventerà più difficile per il debitore insolvente sottrarsi alle proprie obbligazioni, non potendo più confidare nella mancanza di coordinamento tra i diversi ordinamenti nazionali49.

Anche il principio dell’universalità, però, è stato oggetto di critiche. In primo luogo gli viene contestata la mancata chiarezza delle regole sull’individuazione del giudice competente della procedura generale, ovvero dell’unico foro competente a pronunciare la declaratoria di fallimento, dal momento che il meccanismo poggiante sul principio dell’universalità verrebbe messo in crisi nel caso in cui le normative statali facciano riferimento a differenti titoli di giurisdizione. Ed anche qualora si prenda in riferimento il medesimo criterio, vi potrebbe essere comunque divergenza sui parametri di fatto e di diritto. Se infatti è vero che le normative sia interne che internazionali, al fine di individuare il foro competente per la procedura generale, fanno riferimento al domicilio o alla sede del debitore, lo è altrettanto il fatto che la nozione stessa di

49 I.Q

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28

domicilio o sede del debitore può essere intesa dagli Stati in maniera del tutto differente50.

Viene poi imputata, al principio di universalità, l’incapacità di fornire risposte adeguate in caso di fallimento che coinvolga gruppi di società. Infatti, qualora il dissesto abbia colpito la società capofila non si pongono particolari problemi, dovendosi far riferimento allo Stato di incorporazione di quest’ultima; ma ove la crisi abbia invece colpito una delle società satellite, occorre chiarire se il foro competente debba esser rintracciato nello Stato in cui ha sede e concentra i suoi affari la singola impresa satellite o nello Stato in cui ha sede e concentra i suoi affari la società madre51.

Per questi ed altri motivi52, non è stato possibile accogliere una disciplina ispirata al modello universalistico puro, pur nell’ambito del mercato unico europeo.

Laddove ogni tentativo di raggiungimento di soluzioni condivise a livello sovranazionale al problema dell’insolvenza transfrontaliera si è risolto in mere convenzioni bilaterali o in trattati multilaterali che non hanno raggiunto il numero di ratifiche sufficienti per l’entrata in vigore, un importante contributo è stato offerto dalla Model Law on Crossborder Insolvency, approvata in seno all’UNCITRAL53 nel maggio del 199754.

50

In alcuni Stati, infatti, per determinare il domicilio di una persona giuridica si guarda al centro dell’attività principale, mentre in altri viene presa in considerazione la sede dell’amministrazione e, in altri ancora, quella dell’incorporazione.

51 Con riguardo alla problematica in esame cfr. A.M

AZZONI, Gruppi multinazionali,

regole di responsabilità e applicazione del D.Lgs. n. 231/2001 a fattispecie internazionali di gruppo, in Jus, 2011, p. 227 ss. e L.PANZANI, L’insolvenza dei gruppi

di società, in Riv. dir. impr., 2009, p. 527 ss. 52 Cfr. I.Q

UEIROLO, Profili di diritto internazionale, op. cit., p. 59 ss.

53 Si tratta della Commissione delle Nazioni Unite per il diritto del commercio

internazionale istituita nel 1966 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con l’obiettivo di promuovere l’armonizzazione e l’unificazione del diritto commerciale internazionale.

54

La Model Law è accompagnata dalla contemporanea Guide to Enactment, nonché da una Legislative Guide on Insolvency del 2004 (completata da una parte terza dedicata all’insolvenza dei gruppi di società del 2010 da una parte quarta concernente la responsabilità del management per le decisioni assunte del 2013). Le proposte essenziali della Insolvency Guide riguardano la previsione di criteri standardizzati in ordine all'apertura della procedura, alla sospensione delle azioni esecutive per proteggere i beni del debitore anche dalle azioni dei creditori privilegiati, ai criteri per l'erogazione di finanza nuova per la ristrutturazione, alle modalità di partecipazione dei creditori, alla previsione di un procedimento rapido di ristrutturazione, all'introduzione di criteri

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La Model Law si propone di assistere gli ordinamenti statali nella predisposizione di leggi interne sull’insolvenza a carattere transfrontaliero, al fine di rendere efficiente la gestione delle procedure concorsuali e, al contempo, tutelare i diritti dei creditori, la cui soddisfazione deve avvenire su base paritaria, a prescindere dalla loro nazionalità, domicilio o luogo di svolgimento della procedura concorsuale.

Consapevole di rivolgersi a legislazioni fallimentari profondamente diverse fra di loro, la Model Law non mira ad uniformare la legislazione in materia d’insolvenza degli Stati: vengono rispettate infatti le differenze di procedura fra i vari Stati55, dando vita ad un modello a cui i legislatori nazionali possono fare riferimento per adeguare le normative interne nel senso di una maggiore apertura nei confronti delle legislazioni straniere. La caratteristica principale di questa legge modello è infatti quella della flexbility: ogni Stato mantiene la facoltà di apportare al testo standard tutte le modifiche ritenute necessarie affinché questo risulti meglio compatibile con la propria normativa interna56. Tuttavia, è la stessa Guide to Enactment a suggerire agli Stati, al fine di favorire una

semplificati per l'insinuazione e l'ammissione dei crediti, alla possibilità di convertire il procedimento di riorganizzazione in liquidazione in caso d'insuccesso della prima, oltre a chiare regole per l'esdebitazione e la chiusura della procedura.

Sul punto cfr. L. PANZANI, L’insolvenza in Europa: uno sguardo d’insieme, in

Fallimento, 2015, 10, p. 6. Nel 2009, inoltre, è stata emanata una Practice Guide,

avente lo scopo di fornire ai professionisti ed ai giudici informazioni riguardo alle possibili ricadute applicative della cooperazione e della comunicazione che deve sussistere nei casi di fallimenti transnazionali: la guida non costituisce uno strumento normativo, bensì si propone di costituire un ausilio per la risoluzione dei conflitti che potrebbero presentarsi nei casi di insolvenza transnazionale. Nel 2011, infine, è stato pubblicato un Report sulla Judicial Perspective il cui scopo è di fornire una guida per facilitare l’interpretazione giurisprudenziale in modo da aiutare i giudici a risolvere i problemi interpretativi nei casi concreti: il Report non è vincolante per l’autorità giudiziaria in virtù del principio di indipendenza giudiziaria. Sul punto si rimanda alla puntuale analisi di I.QUEIROLO, Profili di diritto internazionale, op. cit., pp. 66 – 67 e, in particolare, note 57 e 58.

55 Cfr. M.C

RONIN, UNCITRAL Model Law on Cross-Border Insolvency: Procedural

Approach to a Substantive Problem, in Journal Corp. Law, 1999, pp. 709 ss., il quale

afferma che «the Model Law leaves each State to determine its own substantive

insolvency laws, but requires that State, once it has established those laws, to allow foreign representatives equal, simple and fast access to those laws».

56 Cfr. I.Q

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