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Panzano, le vie dell’esclusione - Maura Sortino, Maria Trani.

Ho lasciato Maura Sortino, nel capitolo precedente, mentre raccontava la difficoltà di accettare d’esser figlia di un operaio. In realtà non è stato tanto il lavoro paterno ad averle creato un rapporto complicato e conflittuale con le proprie origini, quanto invece il luogo dove è nata. Al di là dell’ambiente familiare, Maura è cresciuta all’ombra delle gru del cantiere navale, a Panzano, in un luogo per nulla neutro, denso di significati, immersa costantemente nella realtà operaia. Eppure, analizzando attentamente la memoria di Maura si scopre che in fin dei conti, tutta questa insoddisfazione e animosità nei confronti delle proprie radici non è sempre esistita; la descrizione della sua condizione di abitante del quartiere operaio, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, è, infatti, ben più articolata:

Adesso io chiaramente ti dico la mia esperienza. L’infanzia a Panzano figlia di operai. Qui, in questo rione, eravamo tutti figli di operai. Per cui era una vita comune. Panzano era animatissima, questa strada era piena di bambini, noi d’estate giocavamo sempre fuori, era proprio un altro mondo. Mia figlia l’ho portata spesso qui a Panzano però era tutta un’altra cosa. Però quando ero piccola io, negli anni Cinquanta ancora era bello perché uscivi in strada, giocavi in strada, andavi nelle case di uno, dell’altro, come niente. Era bello. Era molto socializzante. Ricordo anche le donne, come vedi nei paesi del sud, che d’estate si sedevano fuori a parlare, con le sedie. Anche sedute sui muretti…157.

L’essere bambina a Panzano è qualcosa che viene descritto da Maura come bello, socializzante, comunitario. Era piacevole condividere la stessa condizione con altri bambini, figli perlopiù di operai, che si divertivano entro un orizzonte di libertà comuni. Ma, si sa, le cose cambiano.

La mia infanzia è stata qua, in questo mondo, Panzano, per cui problemi non ci son stati. Problemi miei e anche di Laura, una mia coetanea, di essere diverse, [ci sono stati] quando siamo andate alle medie. Non tutti andavano alle medie a quei tempi; perché c’era ancora l’avviamento e le medie. Alle medie ci siamo scontrate con quelle che erano le ragazze di Monfalcone, che vestivano meglio,

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che erano le figlie del dottore, dell’avvocato… Questo, per me, si è ancora accentuato quando per far le superiori, invece di fare il liceo, sono andata poi a fare ragioneria. Questo era un discorso che noi proprio l’abbiamo sentito. Il cambio, il momento in cui abbiamo aperto gli occhi sul monfalconese. Eravamo malvestite perlomeno, cose che magari tu vedi e fai il confronto a quell’età, 11- 13 anni. Tante volte ancora io e la mia amica ne parliamo. Per cui è qualcosa che ti rimane, perché quella è un’età che ti segna158.

Il ricordo negativo non è presente fin dal principio della testimonianza, ma fa parte di una memoria personale divisa, che ha conosciuto un punto di rottura. La frattura avviene durante l’età della prima adolescenza, il momento in cui Maura, da ragazza di Panzano, si trova a doversi confrontare con le ragazze di Monfalcone. La scoperta dell’alterità, di un mondo diverso, con una suo codice di significati difformi rispetto a quelli che in precedenza le erano noti, ha creato in lei un doppio giudizio, positivo e negativo, sull’aver vissuto nel quartiere operaio. Il fatto di venire da Panzano era percepito come penalizzante soprattutto agli occhi di chi, invece, proveniva dal centro di Monfalcone. Questo esser giudicati diversi evidentemente finiva per essere fonte di disagio per persone che come Maura, al di fuori del contesto operaio, si sentivano giudicate inferiori, emarginate. A fattori impliciti si aggiungono fattori espliciti, come la scoperta e la consapevolezza di non potersi permettere, a causa dello stipendio paterno, determinate cose che le altre ragazze invece possedevano, ad esempio abiti ritenuti più belli e costosi. Per la mia narratrice, il ricordo del quartiere è quindi duplice: da una parte si può trovare un’esaltazione apologetica della sua infanzia, dall’altra il nascondere imbarazzata le proprie origini con l’ingresso nell’età adulta.

Del resto nel corso della mia ricerca ho ravvisato due principali modi di vivere Panzano: apprezzarlo per il forte senso di comunità presente nel quartiere, oppure, al contrario, trovarlo sgradevole, soffocante, proprio per un generale senso d’esclusione che era determinato proprio dall’abitarvi. Queste due posizioni in realtà riflettono, almeno nei casi che ho avuto modo di vedere, il percorso che ha portato le mie intervistate a stabilirsi nel rione. Solitamente chi non vi fosse nata, ma vi fosse giunta a seguito del matrimonio, spesso andando a vivere a casa dei suoceri, ha descritto l’idea di andare a vivere a Panzano come qualcosa di cui non potersi certo rallegrare; all’opposto, le donne nate all’interno del quartiere operaio hanno rimarcato la fortuna di trovarsi lì proprio per il gran senso di comunità che caratterizzava Panzano e la comodità di avere tutti i negozi vicino a casa. Due

91 posizioni che condividono almeno un punto in comune: rimarcano, infatti, la forte identità del quartiere durante gli anni Cinquanta e Sessanta.

Per rendere al meglio l’idea di esclusione che provavano le donne che dal centro di Monfalcone si spostavano a Panzano, partirei dalle parole di una mia intervistata, Maria Trani.

Come per molte altre testimoni è stata mia nonna Fanny a mettermi in contatto con la signora Maria, essendo amiche da diversi anni e quasi vicine di casa. La casa di Maria è più o meno a cento metri dalla mia casa in via Dandolo. È un classico edificio bifamiliare del cantiere, ristrutturato una quindicina d’anni fa, ma ancora perfettamente in ordine, come il giardino, un po’ meno cementato di quelli delle altre case. Nonostante conosca la signora Maria da diversi anni, è la prima volta che entro in casa sua. L’ho sempre incontrata a casa di mia nonna ed è da quando sono bambina che sento nominare lei e la sua famiglia nei nostri discorsi. La prima cosa a stupirmi della sua casa sono gli interni, sia per la disposizione degli spazi, molto aperti, che per gli arredi dal sapore svedese, moderni, però allo stesso tempo “vissuti”, presenti in casa da prima che la moda per il mobilio nordico dilagasse anche qui da noi. Maria è una signora minuta e quando apre la porta sembra scomparire all’arrivo del marito Bruno, che si sta preparando per uscire a fare una passeggiata. Bruno Trani è stato olimpionico di vela alle olimpiadi di Roma del 1960, oltre che lavoratore del cantiere. Quando mi ha vista entrare si è fermato sull’uscio per chiacchierare un po’ con me sul mio lavoro di ricerca. Aveva voglia di fermarsi pure lui a parlare con noi, però, alla fine, ha tenuto fede all’impegno preso con Maria e ci ha lasciate sole a conversare. Con lei, come con le altre testimoni, ho parlato degli scioperi. Come ad altre mogli, parlando degli scioperi, a Maria non risultava affatto chiaro se tutto quel penare, lottare, compiere sacrifici, avesse avuto dei risultati, oppure no. Della sua intervista però sono altri gli aspetti, a mio avviso, più interessanti e significativi, che hanno stimolato nuove riflessioni e possibili direzioni della mia ricerca, ossia ciò che la mia testimone ha raccontato a proposito del suo rapporto con il quartiere operaio.

Maria è nata a Buie d’Istria159 quando questa città faceva ancora parte del territorio

italiano. Con la sua famiglia si è trasferita da bambina in centro a Monfalcone. Ha frequentato la scuola elementare e poi l’avviamento. Proprio il distacco dalle sue amiche d’infanzia è stato uno degli elementi a crearle del rammarico nel doversi trasferire a Panzano, dopo il matrimonio con Bruno «Avevo un due, tre amiche che ho ancora adesso, telefonarsi no, perché immaginarse… Sposate. Loro sono rimaste in via San Francesco, su al

92 borgo. Sposate, rimaste a Monfalcone. Sempre, ancora adesso, una telefonata, ma xè stà un distacco grande»160.

È interessante notare che, come per Maria, anche per quasi tutte le mie testimoni, tranne quelle provenienti dalla campagna circostante, non esista la concezione di Panzano come di un quartiere della città di Monfalcone, quanto piuttosto l’idea del quartiere operaio come una luogo a sé stante, separato da Monfalcone, Non parlano mai di andare da Panzano in centro, ma dicono sempre di andare a Monfalcone. Panzano, nelle parole delle mie narratrici, non è qualcosa che fa parte della città, un rione qualsiasi, ma qualcosa di distinto e autonomo, nel bene e nel male.

Maria aveva conosciuto il suo futuro marito mentre lavorava in una trattoria del centro di Monfalcone gestita da dei suoi zii. Una volta sposata, era finita a vivere a Panzano, anche se allora l’idea di doversi trasferire proprio lì le era parsa inaccettabile. Perché? La prima motivazione era questa:

Perché [a Panzano] era una processione dietro l’altra. Cominciava Sant’Antonio, Corpus Domine. Mia mamma era tanto di chiesa, mi diceva: “Guarda, c’è la processione di Sant’Antonio…”. Il Corpus Domine lo facevano anche a Monfalcone, andavamo io, una amica della mamma. Tutte quelle tovaglie e lenzuola e tutte queste donne a guardare. Dicevo: “Ma mamma, ma guarda che brutto ‘sto posto. ‘Sta Panzano!”. E mi ricordo una mia amica, sempre a scuola a Monfalcone, diceva: “Vieni che andiamo a Panzano, che io vado a pattinare” e mi portava quaggiù. Io vedevo come una cosa estranea della città, una cosa proprio… piuttosto andavo a Ronchi161 che avevo un’amica di scuola… qua vedevo una cosa proprio operaia. Io mi sentivo di città162.

Questo sentimento di estraneità con il quartiere operaio ed i suoi abitanti, in Maria, è durato per diverso tempo Tant’è vero che mi riferisce di aver sempre preferito frequentare i negozi del centro, rifiutandosi di fare la spesa nelle botteghe di Panzano, come invece era usuale per le altre mogli dei cantierini.

M: Io non conoscevo un negozio di Panzano.

160 «Avevo due, tre amiche che ho ancora adesso, telefonarsi no, perché immagina… Sposate. Loro sono rimaste in via San Francesco, su al borgo. Sposate, rimaste a Monfalcone. Sempre, ancora adesso, una telefonata, ma è stato un grande distacco». Intervista a Maria Trani realizzata da Eleonora Stabile, 09/11/2011, Monfalcone (Go).

161 Piccolo comune vicino a Monfalcone. 162 Intervista a Maria Trani, cit.

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E: Nel senso che non era integrata?

M: No. Niente. Qualunque cosa andavo a Monfalcone. E dopo, pian piano, ho cominciato.

E: Si è arresa?

M: Sì, mi sono arresa163.

Allo stesso modo della signora Maria Trani, anche Alba Pasut, che abbiamo già incontrato nel terzo capitolo, aveva un’opinione decisamente negativa del quartiere e di chi ci viveva. Parlando della Seconda Guerra Mondiale e dei bombardamenti che hanno interessato anche l’area del monfalconese, mi ha raccontato che lei ricordava molto bene quei momenti perché, assieme ad alcune sue amiche, spesso andava a teatro. Io, erroneamente, avevo inteso si stesse riferendo al teatro del cantiere. Siccome questo edificio era stato distrutto proprio dalle bombe dell’aviazione inglese e mai più ricostruito, m’interessava saperne qualcosa di più e, per questa ragione, le ho chiesto se il teatro che frequentava all’epoca fosse proprio quello di Panzano.

A: No, a Monfalcone, in corso. Mi ricordo anche del teatro di Panzano, ma quello era più adoperato per tutte le ragazze di Panzano. Allora noi, tra Monfalcone e Panzano dicevamo: “Quelle sono le panzanelle.”. Era proprio una sfida grande. Loro erano forse anche più benvestite, tutte avevano la casa del cantiere, non pagavano la luce, non si pagava l’acqua. Quasi tutti vivevano in una casa come la tua. Magari erano due, tre famiglie. E facevano una pignatta sola, una minestra sola per tutti.

E: Si desiderava da Monfalcone andare a vivere a Panzano?

A: No. Erano grandi come nella storia, però in fondo non c’era niente. A Monfalcone erano persone più alla mano. Più persone che si lavorava, si sgobbava. Come appena finito la guerra, sono arrivati gli inglesi, e subito hanno visto che la Rocca164 e tutto il monte i tedeschi avevano bruciato i pini. La prima cosa siamo andati a piantare i pini. Però erano tutte persone di Monfalcone. Panzano erano grandi nella storia, non volevano andare.

E: Non si volevano sporcar le mani?

163 Intervista a Maria Trani, cit.

164 Antica fortificazione medievale, che domina da una collina a nord, la città di Monfalcone, per la precisione la piazza cittadina.

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A: Mah, avevano il papà che lavorava o il fratello o erano in una casa così, magari tre famiglie. Non consumavano tanto. Invece noi da Monfalcone, eravamo tutti in flotta che si andava su. Ragazzi dei casamenti. Appena finita la guerra, questo. E si andava sul monte a piantar pini. E abbiamo lavorato tanto, una cosa bella perché hanno rimboschito tutti i monti165.

Il parere negativo nei confronti del quartiere da parte della signora Alba è determinato soprattutto dall’opinione ostile che aveva nei confronti delle ragazze di Panzano, giudicate come delle privilegiate, probabilmente per il salario allora percepito dagli operai. Infatti, rispetto all’intervista di Maura Sortino, per la quale l’esser figlia di operai cominciava ad apparire penalizzante, nel periodo fascista e nell’immediato dopoguerra, avere il padre a lavorare in cantiere equivaleva ad una sicurezza economica per tutta la famiglia. È inoltre affascinante questo esser “grandi nella storia”, che a mio parere è un’espressione ed un giudizio maturato nella mia testimone nel tempo presente. Il cantiere, quando la signora Alba era bambina, esisteva da una trentina d’anni e non poteva ancora vantare la storia centenaria che appunto ora lo contraddistingue. Eppure, questo elemento di altezzosità da parte della classe operaia e dei suoi “figli” è fortemente presente nella memoria di Alba, tanto da sentirsi in dovere di ribadirlo più volte e collegarlo alla poca voglia d’impegnarsi da parte della gioventù panzanina nelle faccende che riguardavano il monfalconese, come nel caso del rimboschimento del territorio circostante: i giovani monfalconesi andavano a piantare gli alberi per ridurre l’effetto degli incendi causati dai bombardamenti durante il secondo conflitto mondiale. Anche in questo episodio è riscontrabile la percezione di una Panzano come area estranea e distinta da Monfalcone, che con Monfalcone non ha alcuna voglia di collaborare.

Per quanto riguarda il quartiere operaio esiste, però, anche qualcosa che, a partire da una percezione visiva respingente, inquieta in modo impressionistico. Quest’immagine visiva è descritta nel racconto di un’altra signora che avevamo incontrato nel capitolo precedente: Elda Mezzorana. Allo stesso modo di Maria ed Alba, anche Elda proviene da un diverso rione monfalconese, Aris, e, mi racconta che, sebbene fosse stata felice di aver infine ottenuto una casa spaziosa e confortevole andando ad abitare a Panzano, avrebbe preferito un altro luogo dove vivere rispetto al quartiere operaio.

ES: Quindi lei era contenta quando è arrivata qua?

EM: Madonna! Iero contenta della casa, però non me piaseva el posto.

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ES: Come mai?

EM: Perché non so, disevo sempre… so che una volta son vignuda con mia nonna e iera inverno, freddo e mi, passando davanti a ‘sto cimitero – se vedi che me ga fatto impression – e disevo: “Madonna, Pansan…”166.

La signora Elda, dopo un iniziale senso di estraneità, è stata comunque felice di aver ottenuto una casa grande, luminosa ed appena costruita. Però, come mi racconta in seguito, il percorso per ottenere una casa a Panzano non era affatto semplice.

Come ottenere una casa dal cantiere navale - Elda Mezzorana, Alba Pasut, Lucia Bradamante

Il prodigarsi per ottenere una casa è un tema che è emerso più e più volte nel corso delle mie interviste. Talvolta, chi ha preso parte al processo per ottenere una casa, ne ha parlato descrivendola come una lotta. Spesso una lotta condotta proprio dal gentil sesso.

A seguito della ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, a Panzano, c’erano parecchi edifici appena ristrutturati da assegnare, così la signora Elda, per migliorare la condizione abitativa della sua famiglia, aveva spinto il marito a fare domanda per ottenere uno degli alloggi ancora liberi. L’atteggiamento di suo marito nella ricerca della casa, almeno ad ascoltare le parole della mia testimone, è sempre stato rinunciatario. Quando lei cercava di spingerlo a fare domanda era solita ottenere questa risposta : «sicuramente ci saranno già delle famiglie in lista da almeno dieci anni, senza aver ancora visto una stanza»167. Elda però non si è mai scoraggiata ed infine è riuscita a convincerlo a presentare

la domanda alla direzione del cantiere navale. Quindi l’iniziativa è stata tutta femminile, così come il merito per aver ottenuto l’alloggio:

Sì, se iera per mio marì… allora, per contentarme gavemo fatto la domanda. Quando che xé vignù la commission, perché vigniva a veder ta le case, a casa mia mi no iero a casa e iera la Erichetta, la mia picia, che la gaveva cinque mesi. La iera in un cameron grande, pien de letti, perché mio suocero non gaveva mai cavà via i letti. Iera sta camera grande e iera sta picinina in sto cameron grande, iera freddo. E quel della comission ga dito: “Ma dormì tutti qua?”. “Eh sì”, la ge

166 «EM: Madonna! Ero contenta della casa, però non mi piaceva il posto. [...] Perché non so, dicevo sempre, so che una volta ero venuta con mia nonna, era inverno, freddo e io passando davanti al cimitero – si vede che mi aveva fatto impressione – e dicevo:“ Madonna, Panzano…”», intervista a Elda Mezzorana, cit.

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ga dito mia suocera. Se iero mi ge disevo subito de no. Insomma, fatto sta che i ne ga da un quartier. Come che i ne ga da questo quartier me pareva de esser la più ricca de sto mondo. Sa come che xé, gavevimo el bagno in casa, gavevimo l’acqua in casa. Prima gavevimo la spina fora, iera naturale168.

. Grazie all’intervento della suocera, che ha mentito sulle reali condizioni abitative della famiglia, Elda è riuscita ad ottenere la casa tanto agognata. Non ci è dato sapere se il risultato sarebbe stato lo stesso senza quell’espediente. Talvolta, però, per garantirsi un’abitazione ci si è spinti ben al di là del semplice sotterfugio, come mi ha raccontato la signora Alba Pasut. Alba, quando mi riferisce le peripezie a cui è andata incontro nella ricerca di una casa più ampia dove vivere, fa emergere due elementi estremamente importanti ed interessanti: il primo è il rapporto “personale” che aveva con Alberto Cosulich, erede della famiglia di armatori lussianiani e coinvolto in prima persona nella direzione del cantiere navale; il secondo è un aspetto che mi ha colto veramente di sorpresa, ossia l’esistenza, in cantiere, di un sistema illecito utilizzato per far salire le persone nella graduatoria d’assegnazione delle case.

Alba conosceva Alberto Cosulich perché per un periodo, quando era bambina, aveva vissuto presso una casa confinate con la villa dei Cosulich. Andando a giocare nel giardino della villa aveva finito col conoscere Alberto. Quando Alba è incinta della seconda figlia, decide di avvalersi di questa sua conoscenza al fine d’ottenere una casa più grande; la nuova abitazione si poteva trovare, però, nell’unico luogo su cui Cosulich potesse esercitare una qualche influenza:Panzano.

Allora lo conosevo e son andada a chiederghe [ad Alberto Cosulich]. Go dito: «Adesso me riva un altro picio, e no go neanche el posto… xè tante casa libere qua a Panzan…». Allora el me ga dito: «La vardi, una delle prossime xè sue». Invece dopo passava el tempo e non te rivavi aver questa casa. Perché iera un

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