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In direzione ostinata e contraria - Franca Perazzi, Elda Mezzorana, Alba Pasut

È da qui che tutto è cominciato: dalla domanda che ponevo all’inizio della mia ricerca alle prime intervistate: «Signora, lei come viveva il momento dello sciopero di suo marito?». Questa domanda in realtà è stata rivolta in diverse maniere e in diversi momenti nelle varie interviste. Se in principio partivo proprio da lì, col passare del tempo, mi sono resa conto che prima dovevo cercare di cogliere molti altri elementi della mia testimone, della sua vita, della vita del marito e che, solo dopo averlo fatto, una risposta a quella precisa domanda avrebbe avuto davvero senso. Prima di continuare, devo, però, avvertire il lettore di una cosa: le donne che ho intervistato, rispondendomi, non hanno mai detto la parola “sciopero”; tutte quante, infatti, la pronunciano “siopero”. Una esse sibilata che spesso si trascina, come qualcosa di tagliente. Quindi se “siopero” deve essere “siopero” sia!

Franca Perazzi, detta Fanny, vive nella sua casa di via Enrico Dandolo, a Panzano, al civico 4. È un edificio bifamiliare sopravissuto – «purtroppo», suole chiosare sempre lei – ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. La casa si sviluppa su due piani: dalla strada si vede l’ampia terrazza al piano superiore, mentre al piano terra vi è un piccolo porticato. La facciata della casa è parzialmente ricoperta da piastrelle bianche e porose in pietra d’Istria, applicate giusto attorno alla porta d’ingresso e lungo i muri perimetrali, che sono stati ampliati nel corso degli anni; il resto dell’edificio è intonacato di un color marroncino-verde-grigio. Un colore poco allegro, lo stesso dell’altra porzione di casa bifamigliare di proprietà della famiglia Sortino.

Da quando si è sposata nel 1963 con Arduino Paradisi, chiamato però da tutti Dino, Franca vive in questa casa. Prima di trasferirsi a Panzano, viveva assieme alla madre e alla sorella maggiore, a Monfalcone, nel rione di San Polo, praticamente agli antipodi del quartiere operaio. La storia di Fanny è simile a quella di molte donne da me intervistate: nata nel 1937, ha trascorso un’infanzia tra fascismo e Seconda Guerra Mondiale, il tutto all’insegna dell’educazione cattolica. Fanny però ha qualcosa di particolare nella sua storia familiare, fin dalla nascita: la madre, Maria Perazzi, aveva perduto entrambi i mariti. Rimasta vedova del primo, cacciato via per sua scelta il secondo, si era trovata così costretta a lavorare per provvedere a sé e alle due figlie. Maria da giovane aveva lavorato nel reparto

64 dell’aviazione del cantiere navale a cucire le ali degli aerei; in seguito era stata assunta come cuoca alla mensa dell’albergo impiegati, sempre stipendiata dal cantiere. Fanny per questo motivo è stata cresciuta dalla nonna e dalle suore. Dopo la licenza elementare voleva seguire la vocazione spirituale ed entrare in convento. Così non è stato. Ha invece cominciato a lavorare a servizio presso alcune famiglie del monfalconese e in seguito si è sposata con Arduino. A giugno del 1964 ha dato alla luce la prima figlia, Miriam; due anni dopo, ad aprile, è nata Luisa, la secondogenita. Fanny e Dino, dopo il matrimonio, vivevano in modo modesto nella casa che era stata della famiglia Paradisi, costituendo un nucleo familiare piuttosto bizzarro. Fanny era entrata nell’abitazione della famiglia Paradisi, ma assieme a sé aveva portato anche la madre Maria, mentre il fratello di Arduino, Gaetano Paradisi, era comunque rimasto a vivere lì.

Franca mi spiega che la casa, nel corso del tempo, aveva subito diverse modifiche, soprattutto a partire dagli anni Settanta. Come per gli altri edifici bifamiliari del cantiere, quando vi era entrata, appena sposata, al piano terra c’era un piccolo andito proprio davanti alla scala che ancora oggi porta al piano superiore. Un tempo, subito a sinistra dell’ingresso, si entrava nella stanza principale della casa: la cucina. Dopo la cucina vi era una camera da letto dove dormiva il fratello di Arduino, Gaetano. Al piano superiore si trovavano altre due camere da letto: una per la coppia e l’altra per le bambine e per Maria, che fin dall’inizio era divenuta l’incontrastata padrona di casa. Col passare degli anni, la pianta originale dell’abitazione era stata via via alterata. Si era aggiunta una nuova stanza a destra dell’ingresso che avrebbe avuto la funzione di tinello e cucinino, in modo d’ottenere al posto della vecchia cucina lo spazio per il salotto “buono” dove ricevere gli ospiti: quello con i divani, il tavolo in marmo, il televisore, la cristalliera. Il bagno era stato ampliato e dotato di vasca assieme a tutti i sanitari, in più era stato ricavato un antibagno arredato con cassettoni ove tenere salviette, asciugamani e tutto il necessario per la toilette. Anche il giardino, a partire dagli anni Sessanta e fino alla fine dei Novanta, ha subito delle modificazioni: decennio dopo decennio si sono aggiunte delle aree cementate, databili grazie alle incisioni lasciate sul cemento con l’anno di posa della gettata e con i nomi delle figlie e poi della nipote, quasi potessero servire per un’archeologia del calcestruzzo! Sul retro, poi, era stato edificato l’immancabile casotto, luogo di rifugio per eccellenza di Arduino. Tutto quello che era stato saldato in quella casa, l’aveva saldato lui nel tempo libero.

Dopo la nascita delle figlie, mentre Arduino faceva il saldatore in cantiere, sebbene fosse spesso a casa per gli scioperi e per le diverse crisi del settore cantieristico degli anni Sessanta e Settanta, Franca aveva ripreso ad andare a lavorare come donna di servizio da diverse famiglie facoltose del monfalconese. Da allora ha sempre continuato tale attività.

65 All’apparenza, la vita di Franca è sempre proseguita allo stesso modo, nella routine quotidiana dei lavori domestici e delle azioni di cura da rivolgere ai propri familiari. Invece, anche nella sua esistenza, ci sono stati diversi mutamenti, spesso non per sua iniziativa, ma scatenati dalla vita delle altre persone. Il matrimonio della prima figlia, la nascita della nipote, il lavoro della seconda figlia, la morte del fratello di suo marito, la scomparsa di sua madre, e infine quella del marito hanno modificato non solo la sua routine quotidiana, ma l’identità dei frequentatori di casa sua, i luoghi dove passare il proprio tempo, la disposizione degli ambienti domestici. Col trascorrere degli anni, il tempo libero a sua disposizione si è dilatato, lasciandole però un senso di vuoto, più che di libertà.

Da quando Arduino era entrato in pensione, nell’89, come coppia, avevano cominciato a viaggiare con maggior frequenza, a visitare luoghi e amici, cose che in precedenza non avevano potuto fare. Purtroppo, pochi anni dopo, verso la metà degli anni Duemila, Arduino perse quasi del tutto la mobilità delle gambe e il loro divenne soprattutto un tempo domestico. Prima di questo fatto, durante l’estate, erano normali le giornate al mare o le gite a Venezia. Franca ricorda che prima della pensione del marito una sola volta avevano fatto un viaggio lungo: il viaggio di nozze. Erano passati per Venezia, poi a Roma, per ricevere la benedizione del Papa. Dovevano proseguire per Napoli, ma alla fine decisero di rientrare. I vestiti per il viaggio di nozze se li era tutti cuciti da sola, con pazienza e buona volontà, nell’arco dei mesi precedenti il matrimonio.

Entrambi cattolici, Arduino era anche tesserato presso la DC, si era iscritto alla CISL ed era diventato per quel sindacato delegato di fabbrica della categoria dei saldatori elettrici in cantiere, durante gli anni Settanta. Le sue passioni erano la politica e la saldatura. Arduino parlava sempre con Franca del suo lavoro in cantiere. Il cantiere era stata tutta la sua vita. Poi veniva la famiglia, ma le cose di cui preferiva parlare erano il cantiere, le navi, i cottimi, i problemi della saldatura, gli scioperi. Quando Arduino è venuto a mancare, io e Franca abbiamo trascorso molto tempo assieme, a parlare di lui, del cantiere e di cosa rappresentasse per lei tutto questo.

Franca, detta Fanny, è mia nonna. Si può dire che questo lavoro di ricerca sulla memoria femminile del quartiere operaio sia partito dalla cucina di casa sua. Da pochi giorni mio nonno era venuto a mancare e in quei momenti si fanno, si dicono, si raccontano un sacco di cose. Si riguardano vecchie fotografie e assieme ad esse riemergono vecchi aneddoti. Mio nonno ha fatto l’operaio tutta la vita, eppure, ironia della sorte, negli album di famiglia non c’è nemmeno una sua foto con la tuta blu di terliss119. Così, solo mia nonna mi

66 poteva parlare del cantiere, di quello che ricordava del nonno. Da sola, senza che io glielo chiedessi, ha cominciato a parlarmi delle manifestazioni, dei cortei. Del suono dei tamburi. Della paura che lei aveva tutte le volte che suo marito scendeva in piazza. Delle difficoltà economiche che sentiva gravare sulle sue spalle nel momento in cui iniziava lo sciopero e non si poteva sapere quando sarebbe terminato. Era anche una paura fisica dello scontro. Avevo intuito che lei non fosse d’accordo con gli scioperi degli operai, ma volevo capire quali fossero le motivazioni, se in qualche modo fosse condizionata da una visione anticomunista, magari collegata all’influenza della chiesa. Mi interessava capire se solo mia nonna fosse contraria, o meglio ostile alle azioni del marito, non tanto nei gesti, quanto nel pensiero, e se questa fosse stata una condizione comune tra le mogli di operai.

La prima cosa a incuriosirmi era stata detta proprio da mia nonna Fanny. Durante le nostre chiacchierate mi aveva raccontato di quando i saldatori elettrici avevano occupato il municipio di Monfalcone. Le chiesi se le andasse di essere intervistata e se fosse possibile mettermi in contatto con le altre mogli di operai per ascoltare la loro esperienza.

Siamo io e lei, nella sua cucina, assieme alla mia telecamera bendata. La prima domanda riguarda gli scioperi. Franca comincia proprio dall’autunno caldo, in particolare dall’episodio che nella sua memoria è rimasto maggiormente impresso, ossia l’occupazione del Municipio da parte dei saldatori elettrici l’8 febbraio del 1969. Franca racconta che il clima era brutto. Io penso al clima della situazione, invece lei si sta riferendo al clima meteorologico. Poi, il piano semantico si sposta, il clima è quello della situazione ed infatti riferisce che, a vedere tutte quelle persone urlanti in piazza sotto e dentro il municipio, le sembrava una rivolta.

Il clima iera brutto. Brutto. Me ricordo, iera una giornada, tipo nuvolo… calcola così come oggi; e tutti questi che gridava! Iera nella piazza, sotto il municipio, [e poi] quei che iera su, in municipio, sulla terrazza… insomma sembrava proprio ‘na rivolta120.

A sentire queste parole mi è venuto spontaneo chiederle se fosse presente nel momento in cui stava avvenendo l’occupazione per poterla raccontare in questo modo. In realtà non era lì di persona, ma si trovava a casa, a prendersi cura delle bambine. Chi faceva ritorno dal centro aveva raccontato come si stesse sviluppando la situazione, informando così

120 «Il clima era brutto. Brutto. Mi ricordo che era una giornata nuvolosa… immagina come oggi; e tutti questi che gridavano! Erano nella piazza, sotto il municipio e poi c’erano altri, dentro il municipio, sulla terrazza… insomma, sembrava proprio una rivolta». Intervista a Franca Perazzi realizzata da Eleonora Stabile, 05/12/2011, Monfalcone (Go).

67 le persone che non avevano potuto assistervi. Naturalmente, venendo riportato da diverse persone, più e più volte, il rischio è di cadere in un racconto per iperbole e creare delle false notizie121. Tutti a Panzano parlavano di quello che stava accadendo. Mia nonna è certa

d’essere rimasta a casa, perché ricorda di esser stata lei a permettere la fuga di Arduino dall’occupazione del municipio. Mio nonno, infatti, come saldatore elettrico, si trovava assieme agli altri a manifestare, anche se, ad ascoltare mia nonna, pare che lui si trovasse coinvolto nella situazione quasi per caso, contro la propria volontà. Visto ciò che accadrà attorno all’ora di pranzo a casa Paradisi, l’opinione di Franca non è poi tanto lontana dalla realtà.

Verso l’una la linea telefonica in duplex di casa Paradisi-Sortino squilla. È Arduino che dice a Franca: «Cerca de tirarme fora, perché qua non va ben. I sta fasendo veramente robe che non dovessi esser fatte»122. Mia nonna doveva trovare un modo per far uscire dal municipio mio nonno. Naturalmente, durante un’occupazione, la cosa peggiore che può accadere è che gli occupanti comincino ad andarsene via per i fatti loro. Così, mia nonna, telefonando a sua volta al numero del municipio a cui ormai rispondevano gli occupanti, si era dovuta inventare una scusa plausibile, ossia che una delle figlie non si sentiva per niente bene e che per tale motivo Arduino doveva immediatamente andare a casa per portarla in ospedale. Lo lasciarono uscire. Mio nonno smise di esser occupante, ma non per questo lo scioperò finì.

Nella memoria di mia nonna l’occupazione del municipio è strettamente legata a questo aneddoto familiare. Di fondo si è sentita protagonista del salvataggio del marito da possibili disordini che si sarebbero potuti creare a breve. Preservare la famiglia prima di tutto, attraverso la famiglia stessa. Al di là dell’episodio specifico, Franca ha maturato una sua personale visione delle motivazioni che avevano guidato le proteste, di cosa volessero ottenere gli operai e di chi stesse complicando la situazione. Questa la sua analisi:

quattro mesi, sempre siopero, siopero. Nel contratto de lavoro, loro [gli operai] volevano 100 mila al mese. La Fincantieri era pronta a dare 70, loro non accettavano… forse anche gli operai avrebbero accettato, ma il sindacato si barcamenava su e giù: «No, perché dobbiamo raggiungere questo obbiettivo!». Praticamente, quando hanno firmato, dopo hanno firmato per 70. «Grande vittoria!» Nessuna vittoria. Nessuna vittoria123.

121 MARC BLOCH, La guerra e le false notizie, Donzelli, Roma, 2004.

122 «Cerca di farmi uscire, perché qui non va bene. Stanno facendo davvero delle cose che non andrebbero fatte». Intervista a Franca Perazzi, cit.

68 Da parte sua ricorda abbastanza bene quale fosse, semplificandola, la motivazione che aveva guidato il marito e gli altri operai a scioperare, ossia un aumento della retribuzione. In realtà, come si è visto nel primo capitolo, una busta paga più cospicua sarebbe stata determinata dall’aumento della percentuale di cottimo minimo garantito, ma questo, considerando gli anni trascorsi e il fatto che Franca non fosse direttamente chiamata in causa, è, per quanto mi riguarda, questione di poco conto. Anzitutto, nella sua memoria, lo sciopero dei saldatori elettrici si è concluso in realtà con una sconfitta, sia per gli operai che per l’azienda. La sconfitta è stata causata principalmente dal sindacato, che nelle sue parole è già un’entità unica e viene pure umanizzato, tanto da imporsi sugli operai volendo raggiungere un obiettivo. Obbiettivo, che sempre nelle parole di mia nonna, non era nemmeno condiviso da tutti. Solo il sindacato è convinto d’aver vinto, mentre secondo lei non s’è trattato proprio di una vittoria. Dal suo punto di vista – quasi a suggerire la soluzione – bastava accontentarsi di quello che veniva offerto dalla “ditta”, ed infatti, per Franca, era poi quello che alla fine gli operai erano riusciti ad ottenere, a discapito di mesi di stipendio perduti.

L’aggettivo “sfibrata” è quello con cui Franca suole descrivere come si sentiva durante i periodi di sciopero degli operai del cantiere. Poiché la questione non riguardava solo il marito, ma riguardava pure lei, in quanto moglie e amministratrice domestica124. In

primis c’erano le difficoltà materiali di portare avanti una casa con meno risorse economiche, in più doveva fare i conti con quello che lei ricorda come un generale abbattimento dell’umore del marito: «vedevo il nonno avvilito. Una persona che quando ti porta a casa alla fine del mese invece di cento e tante mila lire, ti porta sessanta! Capirai, era anche una frustrazione per loro, perché dicevano: “Sì, ma possibile?”»125. A dire il vero mia

nonna, a differenza di molte altre coetanee, viveva una situazione comunque privilegiata per l’epoca. Sebbene mio nonno durante gli anni Sessanta e Settanta non riuscisse a portare un intero stipendio, assieme a mia nonna vivevano appunto sua madre che, lavorando in mensa,

124 «Spetta/tocca alla madre la gestione del bilancio, banco di prova culturale non meno che economico. Trasferita dalla famiglia-azienda alla famiglia consumatrice, l’arte contadina di far quadrare il bilancio si intreccia alla moderna pedagogia dei consumi, trasformandosi da arma per sopravvivere a strategia per vivere in modo accettabile all’interno, rispettabile all’esterno. Non fare debiti, vestire decorosamente, avere una casa se non confortevole abbastanza grande, saper dividere le risorse fra le diverse necessità familiari, saper scegliere quando e dove comprare, contenere le spese voluttuarie – vino, divertimenti, tabacco – sono insieme condizioni per l’ascesa sociale, tratti di distinzione morale che costituiscono la famiglia come esempio per gli altri stati proletari, e forme di controllo sui consumi, quindi sui comportamenti sei singoli. È un’impresa cui tutti portano il loro contributo, dalla busta paga dei grandi ai piccoli guadagni dei bambini, che può dare origine a un nuovo rito domestico. È anche uno dei maggiori terreni d’idealizzazione da parte della memoria operaia», in ANNA BRAVO, La nuova Italia: madri fra oppressione ed emancipazione, in Storia della

maternità, a cura di Marina d’Amelia, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 169.

69 non scioperava, ed il fratello di mio nonno, di professione fuochista, che non aveva mai scioperato un giorno. Entrambi contribuivano alle spese domestiche comuni. Nonostante questo, anche per mia nonna era necessario andare a fare la spesa a credito ed era questa la cosa – ricorda – che le pesava maggiormente degli scioperi del marito. In realtà, il dover andare nei diversi esercizi e fare gli acquisti con il sistema del credito, perché al momento non si disponeva di abbastanza denaro, è uno degli elementi comuni e ricorrenti nei racconti delle mogli da me intervistate.

È la signora Elda Mezzorana, una prime intervistate, che, nel ricordare la fine degli anni Sessanta, subito crea un’associazione tra il momento dello sciopero e il senso di miseria. Sono nella sua cucina, seduta alla sua tavola mentre sta facendo bollire qualcosa in un grande pentolone. Dall’odore sembra minestra di verdura. Elda frequenta la parrocchia della Marcelliana, dove ha incontrato mia nonna e si è detta disponibile a farsi intervistare sugli scioperi perché ricorda bene le difficoltà che aveva passato.

La signora Elda, come altre donne da me intervistate, non proviene da una famiglia operaia, ma di contadini, mezzadri per la precisione, che vivevano e lavoravano i campi nella zona di Aris, sempre a Monfalcone. Ora quell’area è totalmente urbanizzata, mentre quando era bambina c’erano solo campi e qualche casa di contadini qua e là. Dopo aver fatto le scuole elementari Duca d’Aosta, nel centro di Monfalcone, era andata a lavorare i campi di famiglia.

Come molte sue coetanee, Elda, la domenica pomeriggio, andava a ballare di nascosto dal padre. Andava alla Vela, un circolo ricreativo in riva al mare, a Panzano, creato dai fratelli Cosulich. Lì aveva conosciuto Ennio, all’epoca un giovane disoccupato, che sarebbe poi divenuto suo marito. Si sono frequentati per cinque anni, poi nel 1955 si sono sposati. Per qualche periodo hanno rischiato di dover emigrare in Francia, perché il marito in Italia non riusciva a trovare lavoro. Invece, quando ormai i preparativi erano già stati fatti, Ennio venne assunto in cantiere come operaio e, appena ci fu l’opportunità, si trasferirono a

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