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Casalinghe - Maria Trani, Anna Bottegaro, Andreina Carlet LaMesta

Nel quarto capitolo mi sono concentrata prevalentemente sulla rappresentazione del quartiere operaio attraverso le testimonianze delle mie intervistate. In questo ultimo capitolo vorrei focalizzare l’attenzione su un altro aspetto emerso nel corso di questa ricerca: il ruolo delle mogli all’interno delle loro famiglie. Dall’identità del luogo vorrei quindi passare all’identità della persona.

L’idea da cui ero partita era costituita dalla figura della moglie cattolica, ostile agli scioperi del marito, impegnata unicamente nella mansione domestica di casalinga. Però ,col procedere della ricerca, questa rappresentazione è stata profondamente messa in discussione. La figura femminile della quale mi stavo occupando si è rivelata via via sempre più problematica e, per poterla comprendere meglio, è stata necessaria un’ulteriore indagine attraverso punti di vista che non avevo considerato in precedenza.

Ho già presentato nel corso del terzo capitolo uno degli stereotipi errati: davo per scontato che, essendo di matrice cattolica, le mogli dei lavoratori del cantiere navale che intervistavo osteggiassero gli scioperi del marito. Come si è potuto vedere, la mia era una visione parziale, che è stata messa in discussione proprio dai racconti delle mie intervistate. Allo stesso modo ritenevo che le mie testimoni fossero tutte delle casalinghe. Davo per scontato di interagire con persone la cui unica occupazione, una volta sposate, fosse stata la cura dell’ambiente domestico e di chi ne faceva parte. Niente di più inesatto e approssimativo.

Anzitutto è bene interrogarsi su cosa si intenda con il termine casalinga. Per il dizionario Devoto Oli questo lemma sta ad indicare una «donna dedita esclusivamente alla cura e all’andamento della casa e della famiglia»186. In questa definizione non vi è alcun

cenno ad un possibile lavoro extra-domestico. L’unica occupazione della casalinga è appunto la cura dell’ambiente privato della famiglia. E questa era esattamente il tipo di donna che mi aspettavo di intervistare: signore che non avevano mai avuto esperienze lavorative e che avevano vissuto la propria esistenza nel tempo quotidiano della domesticità.

186 GIACOMO DEVOTO, GIAN CARLO OLI, Dizionario Devoto Oli della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 2004.

111 Il mio stereotipo era plasmato sull’immagine rassicurante veicolata dalle pubblicità degli elettrodomestici degli anni Cinquanta e Sessanta, della donna di casa sempre sorridente, pronta ad accudire in tutto e per tutto i propri cari. La rappresentazione della donna intesa come angelo del focolare domestico, moglie, ma soprattutto madre, che, a partire dall’immaginario fascista187, era rifiorita nel secondo dopoguerra. A sostenere questa

visione del “giusto” ruolo della donna, oltre all’ideologia fascista188, aveva contribuito anche

la dottrina cattolica, grazie ad un progressivo rafforzamento del culto mariano verificatosi sul territorio italiano nel corso del Novecento 189. Secondo questa rappresentazione, la donna

aveva come naturale aspirazione la vita domestica ed il massimo della sua realizzazione consisteva nell’occuparsi del benessere della propria famiglia. Questa immagine dell’universo femminile relegato unicamente alle mansioni domestiche, però, non è sempre stata presente nel XX secolo: infatti, durante i due conflitti mondiali, le donne avevano preso parte in diversi modi all’esperienza bellica e produttiva. Con il secondo dopoguerra, nel momento in cui gli uomini dal fronte cominciavano a fare ritorno alle loro occupazioni civili, l’idea di quale fosse il naturale e giusto ruolo femminile era “carsicamente” riemersa. La donna doveva quindi ritornare a gestire solo ed esclusivamente il proprio focolare. Questa era, infatti, l’immagine della casalinga virtuosa veicolata dalla società dell’epoca, vicina a quella «mistica della femminilità» d’oltreoceano portata alla luce e problematizzata dagli scritti dell’attivista statunitense Betty Friedan190. Francesca Koch spiega, con queste parole,

il ritorno ai tradizionali valori femminili, costituiti sulla figura della madre nel secondo dopoguerra:

La novità rappresentata dai diritti di cittadinanza femminili esige tuttavia alcuni aggiornamenti nella predicazione: spiega la rivista “Madre” che la donna di oggi, come la donna antica, deve continuare ad amare la casa, la famiglia, lo sposo, il lavoro domestico, la preghiera, deve saper «soffrire senza riversare le sue pene in quelli di casa», ma deve aggiungere alla virtù antica quella moderna di cittadina, occuparsi anche dell’interesse pubblico del suo paese ed esercitare il diritto di voto. I nuovi doveri della donna nella vita economica e sociale le derivano ancora dalla sua “inclinazione innata” che è la maternità: «Ogni donna è

187 La giornata della «madre e dell’infanzia» si era cominciata a festeggiare nel ventennio fascista a partire dal 24 dicembre 1933. PERRY WILLSON, op. cit., p. 113.

188 Queste le parole di Benito Mussolini sulla donna: «La donna deve obbedire […]. Essa è analitica, non sintetica. Ha forse mai fatto dell’architettura in tutti questi secoli? Le dica di costruirmi una capanna, non dico un tempio! Non lo può. Essa è estranea all’architettura che è la sintesi di tutte le arti, e ciò è un simbolo del suo destino. La mia opinione della sua parte nello Stato è in opposizione ad ogni femminismo. Naturalmente essa non deve essere schiava, ma se io le concedessi il diritto elettorale mi si deriderebbe. Nel nostro Stato essa non deve contare». EMIL LUDWIG, Colloqui con

Mussolini, Milano, Mondadori, 1970, [1932], p. 166.

189 MARINA D’AMELIA, La Mamma, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 131-168.

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destinata ad esser madre […] non può altrimenti vedere né comprendere a fondo tutti i problemi della vita umana che sotto l’aspetto della famiglia»191.

Nonostante quanto appena detto, come ho già lasciato intendere, solo un esiguo numero delle mie intervistate corrisponde allo stereotipo della casalinga. Due, per la precisione.

Le mie due casalinghe “purosangue” sono le signore Elda Mezzorana e Maria Trani. È giusto sottolineare, però, che prima del matrimonio entrambe avevano svolto delle mansioni diverse dall’esclusiva occupazione domestica. La signora Elda, provenendo da una famiglia di mezzadri, aiutava nella coltivazione dei campi; la signora Maria invece, faceva la cameriera nel bar di famiglia. Tutte e due avevano assaggiato un altro tipo di fatica materiale e mentale rispetto all’occupazione casalinga. Dopo il matrimonio, però, i rispettivi mariti avevano preferito che le due donne si dedicassero unicamente alle cure domestiche, rinunciando all’idea di un impiego lavorativo.

Il racconto di Elda sull’impossibilità di andare a lavorare lo abbiamo già incontrato nel primo capitolo, ma riassumo comunque la posizione del marito: per il signor Mezzorana, avendo Elda tre figlie e la casa a cui badare, un ulteriore impegno sarebbe stato troppo gravoso.

Per quanto riguarda la signora Maria, finita l’intervista, poco prima di uscire dalla sua casa, mi aveva confessato che le sarebbe piaciuto molto poter fare la commessa. Durante l’intervista, invece, alla mia domanda a proposito di cosa le sarebbe piaciuto fare nella vita era rimasta zitta, smarrita in un prolungato silenzio. In seguito, però, aveva espresso il desiderio di andare a lavorare. Alla domanda se le fosse piaciuto avere un lavoro, aveva risposto in questo modo:

Sì. Avevo già per andare in cantiere. Avevo diciassette, diciotto anni, quando ho conosciuto Bruno. «Bruno, guarda che mio papà ha già parlato con uno e ha detto che mi prende nel magazzino per ricevere la roba, solo scrivere…». Mamma mia! Non l’avessi mai detto. Ha detto: «Cosa? In cantiere? L’ultimo posto». É stato proprio contro. Non so aveva qualcosa che non gli andava. Mio papà mi portava anche a casa dei blocchi in cui era scritto che dovevo fare più e meno. Chilogrammi d’entrata e uscita. Era il magazzino della mensa. «Tanto vai avanti così, poi…». Lui no. Assolutamente no. Io non avevo detto no. Siam giovani, ci siamo sposati, avevamo anche bisogno. Cucivo, avevo anche abbastanza lavoro, però prendeva lo

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stomaco. Lo stomaco me lo sono portato avanti tanti anni… tutte queste cose e poi sono stata operata all’ulcera. Ho avuto tante conseguenze brutte, tanti versamenti de sangue, però potevo andar a lavorare. Era facile in quegli anni là192.

Il lavoro legato al cucire non è da intendere come un impiego retribuito, ma era una semplice attività casalinga che impiegava e scandiva il tempo della quotidianità di Maria. Come si può notare dalle sue parole, chi ostacola l’ingresso nel mondo lavorativo non è il padre, che, seppur uomo, la incoraggia, ma suo marito, che vede di cattivo occhio la moglie assunta alle dipendenze del cantiere navale. Nel secondo dopoguerra, in cantiere, le principali mansioni femminili erano di addetta mensa, addetta delle pulizie, oppure come impiegate dattilografe negli uffici amministrativi e tecnici. Nell’Italia degli anni Cinquanta è il marito colui che decide le possibili occupazioni della moglie ed è anche l’unico breadwinner, colui che porta a casa lo stipendio e permette il benessere familiare193.

Sempre Francesca Koch nel suo saggio La madre di famiglia nell’esperienza sociale cattolica riflette sul peso che ha tradizionalmente avuto la posizione della Chiesa Cattolica nel plasmare l’idea di naturale sottomissione della donna al proprio marito:

[…] le donne, secondo Pio XI, «fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà nel debol sesso» non possono che accettare spontaneamente l’ordine dell’amore che implica la supremazia del marito sulla moglie e i suoi figli. Una tale sottomissione, beninteso, «non equipara la donna alle persone che nel diritto si considerano minori», ma interdice quella che l’enciclica Casti connubii definisce «licenza esagerata che trascura il bene della famiglia»; la predicazione dei papi, da Leone XIII a Pio XI, si oppone con continuità alle teorie liberali e marxiste sulla uguaglianza dei diritti degli sposi e sulla emancipazione della donna, vista come premessa per la corruzione dello spirito e della dignità materna194.

Sia Maria Trani che Elda Mezzorana, una volta sposate, riflettono perfettamente l’idea di casalinga che inizialmente aveva guidato la mia ricerca, ovvero di una donna che vive in funzione del tempo da dedicare alla propria famiglia. In questo vissuto, però, sono

192 Intervista a Maria Trani, cit.

193 RAFFAELLA SARTI, Work and Toil. The Bredwinner Ideology and Women’s Work in the 19th and

20th Century Italy, Bologna S.I.P., 2000; consultabile on line all’indirizzo: http://www.uniurb.it.scipod.dvs_work_and_toil.pdf, consultato il 12/09/2012.

114 emersi, attraverso i loro racconti, dei conflitti familiari talvolta chiaramente esplicitati, a volte sottointesi, oppure taciuti, che riguardavano un altro aspetto quotidiano della loro esistenza: la presenza in casa della suocera.

Sposarsi, per le donne che ho intervistato, spesso equivaleva ad andare a vivere nella casa non solo del marito, ma della sua intera famiglia, sperimentando così, vivendo tutti insieme sotto lo stesso tetto, l’inevitabile rapporto con la suocera. Quando se n’è creata l’occasione e l’intimità, alcune delle mie intervistate si sono lasciate andare ad uno sfogo, che, seppur a partire da un problema personale, può essere considerato indicativo di una condizione ancora comunemente vissuta nel Paese da diverse donne195.

Anna Bottegaro è una di quelle signore che oltre ad aver fatto la casalinga aveva anche svolto delle attività lavorative. Prima di fare la casalinga, Anna andava a raccogliere pere, poi, con la nascita del secondogenito, aveva dovuto rinunciare a questa occupazione. In seguito, erano arrivati altri otto figli. Aveva ripreso parzialmente a lavorare quando questi erano cresciuti e uno di loro aveva aperto un vivaio di piante e fiori, così lo aiutava a portare avanti questa attività. Siccome il nucleo familiare di Anna era decisamente esteso, verso la fine dell’intervista mi era venuta la curiosità di sapere se, oltre ai numerosi figli, vivesse con loro anche la suocera. Anna mi rispose affermativamente, con tono mesto. La sfumatura triste mi aveva colpita, così ho provato a chiederle come fosse il rapporto tra lei e la madre del marito.

A: Era difficile. Iera molto dura, nonostante che avevo bisogno, che la me aiutava abbastanza. Però lo stesso, per mi xè sta molto pesante… E lo disevo sempre: «i fioi… magari in una soffitta!». Non xè viver, sa? Né mì se dovessi andar desso coi fioi, ma nenache i fioi con mì. Perché xè tutto un altro modo de veder… ti toglie tutta l’intimità, perché, sensa accorgerse, te vien de dir qualcosa, de far un’osservasion, e non dirla te sta mal, quando che la te scampa… Ognun per sé.

E: Com’è stato dopo essere soli? Per lei e suo marito?

A: Ma per mi benissimo, nonostante che avessi avù più lavoro, però me sentivo padrona. Roba che prima no. Perché te ga riguardo de quel… Se te gà dormì

195 Anche se, come nota la storica Anna Bravo, durante gli anni Cinquanta e Sessanta la situazione stava cominciando a mutare: «Se lungo il boom economico tante donne giovani si sottraggono alle gerarchie familiari, afferrano le opportunità di lavoro in fabbrica e nei servizi, si trasferiscono e si sposano in città, è anche perché hanno alle spalle delle potenti suggeritrici. Sono le madri, le nonne, le parenti anziane, all’apparenza immutabili custodi della tradizione, che invitano la generazione che diventa adulta negli anni Cinquanta e Sessanta a non ripercorrere la loro stessa strada. […] “Piuttosto che la andasse in casa (della suocera), preferisco che la mora”, dice delle figlie una donna del vicentino nata nel 1904», in ANNA BRAVO, op. cit., p. 165.

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cinque minuti in più… poi me suocera la iera bastanza comandina! Quelle de un volta! Non le se rasseganava, che a loro volta iera el marì che le comandava su de lore… e dopo, co xè entrà la nuora… le se valeva su ela196.

Sono molti i concetti interessanti contenuti nel racconto di Anna in merito al suo rapporto con la suocera, anzitutto ciò che non viene detto esplicitamente. Soprattutto nella seconda parte, le frasi rimangono spesso sospese, per farmi intendere la naturale conclusione della sua descrizione, senza però dirlo apertamente. Il non detto si riferisce al principio di autorità che la suocera esercitava molto spesso sulla nuora, privando, di fatto, l’unico controllo possibile della moglie sulla casa del marito. Il fatto che il rapporto conflittuale tra Anna e la madre di suo marito fosse tutt’altro che inusuale è estrapolabile proprio dalle parole dell’intervistata, ossia dall’oscillazione tra l’ambito dell’esperienza personale e quello dell’esperienza vissuta da un’intera generazione. Anna passa dal descrivere il piacere della suocera nel comandare al fatto che fosse normale, all’epoca, questo rivalersi delle suocere sulle nuore espresso nell’esercizio di un potere, di una forma di comando, simile a quello che i mariti avevano sulle mogli. Nel momento in cui la suocera scompare dalla vita di Anna, sebbene si ritrovi da sola a sbrigare molte incombenze, la donna può finalmente sentirsi padrona della gestione della sua casa, dei suoi tempi domestici e della vita di chi vi abita, oltre che dell’intimità del proprio nucleo familiare. Un aspetto non secondario è il fatto che donne, il cui principale compito era la gestione e l’amministrazione della casa, fossero per lungo tempo private o limitate nella loro azione di cura domestica e familiare dalla madre del marito. Una situazione frustrante.

Una tensione latente, nel rapporto suocera-nuora197, emerge anche nell’intervista

fatta a Maria Trani, con caratteristiche però diverse rispetto alla testimonianza precedentemente osservata. Se nel caso della signora Anna la confidenza è stata aperta e sincera, nel caso della signora Maria la consapevolezza di quello che cercava di farmi capire si è fatta strada in me a posteriori, riascoltando la sua intervista e leggendo tra le righe dei

196 «A: Era difficile. Era molto dura, nonostante che avevo bisogno, che mi aiutava abbastanza. Però lo stesso, per me è stato molto pesante… E lo dicevo sempre: “I figli… magari in una soffitta!”. Non è vivere, sai? Neanche io se dovessi vivere con i miei figli o loro con me. Perché è tutto un altro modo di vedere… ti toglie tutta l’intimità, perché senza farci caso, ti viene da dire qualcosa, di fare un’osservazione, e se non la dici stai male, se ti scappa [di dirla]… Ognuno per sé. [...]. Per me benissimo, nonostante avessi avuto più lavoro, però mi sentivo padrona. Cosa che prima no. Perché hai riguardo di quello… Se hai dormito cinque minuti in più… poi, mia suocera era abbastanza comandina! Quelle di una volta! Non si rassegnava, che a loro volta era il marito a comandare su di loro… e dopo, quando entrava la nuora… si rivaleva su di lei». Intervista ad Anna Bottegaro, cit. 197 FLAVIANA ZANOLLA, Suocere, nuore e cognate nel primo ‘900 a P. nel Friuli, “Quaderni Storici”, n. 44, 1980, pp. 429-450.

116 suoi racconti domestici. Spesso con Maria siamo partite dal lavoro e dalla situazione del marito per comprendere che cosa stesse facendo e di cosa si stesse occupando in quel periodo. Così, parlando di quando il marito Bruno aveva partecipato alle Olimpiadi di Roma nel 1960, mi era venuto spontaneo interrogarla su come fosse per lei vivere lunghi periodi da sola, a casa.

E: Era strano stare sei mesi senza suo marito a casa?

M: Sì, coi suoceri, guarda. Dopo andavo un poco da mia mamma, però i miei suoceri non avevano altri figli, parenti, allora erano un poco gelosi. Fabio [il figlio] aveva due, tre anni. Era piccolo. Andavo da mia mamma e stavo là qualche giorno. Però dopo veniva mia suocera, un po’ brontolando: «E Fabio, e Fabio?». É dura, però! C’è l’ho fatta… ma dura198.

I riferimenti alla suocera nel racconto della signora Maria, fatta eccezione per il brontolio, non sono mai diretti, ma sottointesi, disseminati nel suo racconto, come se la mia narratrice non vi prestasse particolare attenzione. Due esempi mi sembrano emblematici al fine di cogliere il controllo che la suocera esercitava nella vita di Maria: il primo riguarda la risposta ad una mia domanda sulle attività che lei preferiva svolgere nel tempo libero, il secondo è collegato al ricordo del suo viaggio di nozze. Alla signora Maria piaceva ascoltare la radio, ma la suocera interveniva chiedendole di fare il minor rumore possibile, per non disturbare il sonno del figlio – e marito – Bruno. Un modo di entrare nel privato della coppia e di continuare ad accudire il proprio figlio e, inoltre, un indiretto messaggio nei confronti della nuora, fatta apparire come poco attenta alle necessità del marito.

La cosa che mi piaceva – questa era mia suocera – con la radio davano le commedie. Stavo ancora dal’altra parte, in via Fiume, mi ricordo mia suocera se metteva là: «Piano, sa che Bruno dorme». Erano a puntate, delle commedie199.

La suocera ricompare nel racconto del matrimonio di Maria e del suo viaggio di nozze. Mi racconta di esser stata a Venezia, poi a Firenze, Roma ed infine Napoli. Parlando di Capri, le viene in mente di quando nel 1960 era ritornata a Roma per le olimpiadi del marito, ma di non essersi potuta trattenere molti giorni perché non c’erano abbastanza soldi.

198 Intervista a Maria Trani, cit. 199 Intervista a Maria Trani, cit.

117 Infatti, il denaro per partecipare alle olimpiadi, al tempo, era interamente a carico dello sportivo interessato:

Glieli ha imprestati mia mamma, mi ricordo. Lui è stato via un mese prima per allenarsi. Il cantiere non l’ha pagato. E neanche la federazione non gli davano i soldi. Quegli anni erano anni duri. Non erano pagati. Però ha voluto venire mia suocera [a Roma]200.

L’ingresso brusco della suocera nel contesto appare sia come una doppia intrusione: sia nella vita intima della coppia, che nella gestione economica del nuovo nucleo familiare . Maria aveva rinunciato a due giorni a Roma con suo marito, eppure anche la suocera vi era voluta andare, nonostante le spese fossero state sostenute – almeno da quanto si evince dal

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